Il sacro e il suo doppio, Antonin Artaud
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di
Alfonso Amendola | |
Il più piccolo impulso di vero amore ci avvicina molto di
più a Dio che tutta la scienza che possiamo avere sulla creazione e
sui suoi stadi Antonin Artaud Eccolo Antonin Artaud nella sua fantasmagorica e
voracemente anarchica scrittura che fonde psiche e corpo, in un incessante
duello con il pensiero sacro. Eccolo il grande blasfemo, il teorico della crudeltà,
l’eretico, il bestemmiatore. Eccolo il magister della scena che volle vedere nella
pratiche teatrali la grande possibilità di “far affluire i propri demoni” ed è
inutile dire che il contributo centrale di Artaud è sicuramente nel teatro
(vero corpo sacrale)[1].
Successivamente la dimensione scenica di Artaud si aprirà
verso la frantumazione totale dell’io, l’irruzione delle pulsionalità più
violente e voraci, lo spazio del demoniaco e il rimosso. E quindi prima della
metafisica artaudiana c’è accanto (e dentro) il teatro: e poi la letteratura,
la radiofonia, la poesia, la pittura, i Miti e il cinema (il cinema è un grande
capitolo per il nostro, cinema “fosforo” dell’esistenza[2]).
E poi insieme alle pratiche artistiche: le culture
orientali, il Messico, la magia e persino la durezza della fuga dell’io (che
molti chiamano pazzia). Eccolo Antonin Artaud con le sue parole violente, velenose
e al contempo, tutte dentro una visione del negativo della religione. Una
religiosità fortemente cercata come strumento di redenzione ma, per Artaud,
assolutamente incapace di “mantenere le sue promesse”. E qui l’invettiva,
l’abiura, il rifiuto, il demoniaco, la continua profanazione prenderanno sempre
più voce ed eco nel mondo (nei mondi) di Antonin Artaud (fino a fargli
lancinante compagnia nei suoi anni di reclusione manicomiale, dove gli
elettrochoc e la totale dissipazione di sé lo porteranno ad una graduale morte
avvenuta il 4 marzo del 1948). Artaud più volte affronterà con parole durissime la sua
idea di sacro e lo farà sempre con lucido delirio. A partire dal 1945
Artaud si dissocia “dallo spirito dell’inizio rappresentato dallo spirito
cristiano” e questo tentativo di fuga lo porterà alla sua mistica di volersi
angelo sterminatore abitato da quel “corpo senz’organi” che aveva già
teorizzato. Contro l’origine, contro la fine e in particolare contro la figura
di Cristo (“l’unto” nella provocatoria lettura artaudiana) che per lui
rappresenta il male del mondo. Quella di Artaud è una ricerca capovolta del
sacro (per Giovanni Testori la bestemmia è una preghiera all’incontrario),
della spiritualità, del divino. Una sorta di estremo credere nel rifiuto, una
ricerca ossessiva, bruciante, carnevalesca, totale, delirante e spietatamente
solitaria a partire sempre dalla negazione.
[1] Del teatro ricordiamo in particolare l’esperienza
del Teatro Alfred Jarry il cui obiettivo centrale è quello di “liberare il
teatro dall’influenza negativa della letteratura” puntando ad una scrittura
scenica autenticamente drammatica ed estremamentevissuta attraverso due componenti
necessarie: la dinamica alogica dell’inconscio e la frammentazione del corpo.
La sua esperienza teatrale è condensata in un testo di grande tensione e
complessità scritto nel 1838, Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio,
Einaudi, 1968. [2] I contributi di Artaud verso il cinema avvengono dopo la sua uscita dal Movimento Surrealista. Ma del movimento Surrealista permangono tantissimi elementi di tensione e visionarietà che ritroviamo nella sua idea di cinema – che si sviluppa principalmente attraverso la realizzazione di scenari, scritti teorici e lettere. Il suo unico film realizzato ha come centralità, inutile dirlo, un prete vittima di ossessioni erotiche, il film è: La conchiglia e il prete diretto da Germaine Dulac nel 1927, opera che successivamente sarà rinnegata dallo stesso Artaud (spalleggiato dall’intero movimento surrealista che definirà senza mezzi termini la regista come “una gran vacca”). Il film, infatti, ha una particolare vicissitudine (documentata da numerosi scritti e lettere) e ad opera conclusa Artaud sentirà profondamente tradita la sua idea di fondo, non lo riconoscerà mai come suo film e sarà anche la causa del suo definitivo abbandono del cinema dopo gli anni Trenta. Ma per tutti gli anni Venti Artaud lavora al cinema e realizza una serie di “scenari” (ricordo alcuni titoli: “I diciotto secondi”; “Due nazioni ai confini della Mongolia”; “Voli”; “Le 32”; “L’aereo solare”; “Il signore di Ballantrae” tratto da Stevenson; “La rivolta del macellaio”) e scrive numerose lettere di grande attenzione verso il linguaggio cinematografico. Cfr. Antonin Artaud, Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, a cura di G. Fofi, minimum fax, 2001.
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(1) [2] |