Si poteva far proprio uno spunto, oppure riproporne fedelmente
la trama, ma fu un’altra la scelta che operò
Bertrand Tavernier, quando decise di realizzare un film, Coup
de torchon (1980), dal romanzo di Jim Thompson, Pop.
1280 (1964), poi ribattezzato in Italia Colpo
di spugna, ovvero con lo stesso titolo con cui la pellicola
uscì nelle sale.
Il film è
“tratto da”, questo è quanto mai
necessario precisarlo subito, perché Colpo di
spugna di Tavernier è Colpo di spugna
di Thompson e non è affatto, al tempo stesso, il romanzo
dello scrittore dell’Oklahoma. L’abilità
del regista francese fu nel tradire e al tempo stesso rispettare
integralmente la storia di partenza, riscrivendo e riproponendo in
egual misura, calibrando ruoli e intreccio, entrambi ripensati di sana
pianta e contemporaneamente rispettati nelle logiche e nelle dinamiche.
Riuscendoci probabilmente avendo trovato la maniera di tradurre, in
certo senso, la dimensione culturale statunitense in quella
francese.
Non era la prima volta che qualcuno
pensava a trasferire sul grande schermo la storia di Pop. 1280.
Ci aveva già provato un altro regista francese, Alain
Corneau, che folgorato dalla lettura del romanzo si trasferì
a Los Angeles per scriverne la sceneggiatura con lo stesso Thompson.
Non se ne fece niente, però l’incontro
fruttò comunque la realizzazione di un altro film, Série
Noire (1979), tratto da A Hello/A Woman (Diavoli
di donne è il titolo dell'edizione italiana), un
romanzo che Thompson aveva pubblicato dieci anni prima di Pop.
1280.
La Francia apprezzava Thompson
molto più del resto d’Europa, per non parlare
degli Stati Uniti dove lo scrittore era praticamente ignorato,
nonostante il suo doppio lavoro, come scrittore e come sceneggiatore
per il cinema e la televisione. In pieno maccartismo venne schedato,
per tirare avanti scrisse alcuni episodi della serie Ironside,
lavorò con Stanley Kubrick sceneggiando Rapina a
mano armata e Orizzonti di gloria,
combinò poco come giornalista e provò anche a
fare l’attore in Farewell My Lovely (1975),
ovvero Marlowe il poliziotto privato di Dick
Richards. Tutto inutile, quando morì nel 1977 non se la
passava bene ed era ignorato negli Usa, nonostante il successo di un
altro film memorabile tratto da un suo romanzo, Getaway
(1972) di Sam Peckinpah, che immortalò il migliore Steve
McQueen, ma lasciò nell’anonimato
l’autore della storia.
La Francia invece amava
Thompson. D’altra parte la cultura del polar (il
neologismo frutto della fusione di policier e noir),
cioè il genere imperniato sul crimine di provincia aveva il
grande precedente di Georges Simenon e del suo commissario Maigret, che
avevano formato il gusto del pubblico e della critica francese.
In Italia Thompson arrivò con il film di Tavernier
che aveva per protagonista un inarrivabile Philip Noiret. “Pop.
1280 fu il primo romanzo tradotto in italiano, grazie a Laura
Grimaldi che quasi venticinque anni fa scoprì l'energia
negativa di Jim Thompson e la propose alla Mondadori. Erano tempi in
cui editoria e turpiloquio, in Italia, andavano poco d'accordo. Ma,
soprattutto, la carica eversiva di Pop. 1280
creò non pochi scrupoli a colui che era presidente e
fondatore, Arnoldo Mondadori. Il pubblico nostrano, intossicato dal
falso moralismo del giallo anglosassone alla Agatha Christie e Conan
Doyle – il delitto non deve pagare, il colpevole va
inesorabilmente punito, e dalla parte della «legge»
troviamo unicamente brave persone irreprensibili e rette –
avrebbe accolto con ben poco entusiasmo un romanzo in cui l'assassino
pluriomicida vestiva la divisa di un tutore dell'ordine. La traduzione
tentò di smussare le parolacce più crude,
rispettando però ritmo e laidume ambientale”
(Cacucci, 2001).
Tavernier, a sua volta, prima di
affrontare il testo di Thompson, si era cimentato con la trasposizione
di un’opera letteraria. Il suo primo lungometraggio era
tratto proprio da un romanzo di Simenon, L’orologiaio
di Everton, che divenne L'orologiaio di Saint-Paul,
e nei panni del protagonista c’era Philip Noiret. Sempre
dalla letteratura, dalla fantascienza non proprio
d’intrattenimento arrivava La morte in diretta
(1980), riscrittura del romanzo di Barry Malzberg, L’occhio
insonne e di storie in nero era tornato a occuparsi qualche
anno prima (1976) con Il giudice e l’assassino,
sempre con Noiret, un film sulle gesta del serial killer Joseph Vacher.
Quando arrivò il turno di Pop.1280,
Tavernier aveva l’esperienza per affrontarlo. Sapeva quali
tradimenti si possono compiere nei confronti di un testo, che cosa
occorre sottrarre, dove è necessario aggiungere, quanto si
deve rimescolare e, soprattutto, che cosa lasciare intatto e
perché farlo.
Prima ancora di scucire dal romanzo
scene e personaggi, il regista francese decise di eliminare
radicalmente lo scenario, il paesaggio, il territorio che Thompson
aveva così accuratamente indicato, al punto di fornire
addirittura nel titolo un dato preciso sul numero degli abitanti di
Potts County, dove la vicenda si svolge: 1.280. Tanti sono gli abitanti
di quella fogna dove tutte le pieghe e le piaghe dell’animo
umano hanno cittadinanza. Uno spostamento radicale, analogo a quello
visto sul grande schermo solo l’anno prima in Apocalypse
Now di Francis Ford Coppola, che partito da Cuore
di tenebra di Joseph Conrad, dirottò la vicenda
dall’Africa nera al Vietnam. Della storia conradiana, Coppola
conservò meno di quanto fece Tavernier con il testo di
Thompson. In ogni caso anche Pop. 1280 venne
sradicato dalla sua terra d’origine.
Dal Texas la
scena traslocò nel cuore dell’Africa equatoriale
francese, in Senegal, e i tempi della vicenda a loro volta fecero un
bel passo avanti, di circa vent’anni, collocandosi alle
soglie del secondo conflitto mondiale; siamo nei giorni dei patti di
Monaco, nel luglio del 1938, quando la data della finzione romanzesca
è presumibilmente il 1917, ai tempi della Grande Guerra con
gli Stati Uniti da poco coinvolti nel conflitto.
Thompson spreca solo un accenno alla faccenda, ma esplicito e
riferito alla rivoluzione d’ottobre in corso, mentre il film
di Tavernier è esplicito sui venti di guerra che soffiavano
così forte da arrivare anche in Senegal. Ecco che, ancor
prima di iniziare, il francese si appropria del racconto thompsoniano,
gli conferisce quell’accento francese dirottandolo nella
storia della Francia.
Abilità, gran mestiere, ma
anche forza della tradizione, perché dietro il cammino che
Tavernier fa compiere ai suoi personaggi per uscire dalle pagine di
Thompson, c’è una storia di esplorazioni che
inizia nel 1880 quando il viaggiatore Arthur Rimbaud si
avventurò in Africa creando un itinerario che il fior fiore
degli intellettuali francesi fece proprio lungo tutto il primo
Novecento, in pratica fino alle soglie del secondo conflitto mondiale,
quando si svolgono gli avvenimenti narrati in Colpo di spugna.
Lasciando
sullo sfondo la presenza e l’influenza
dell’Africa sulle nuove arti figurative europee, a partire
dal cosiddetto periodo africano di Picasso (1907-1909), letterati,
registi, etnologhi, a partire dal primo dopoguerra, all’ombra
proprio del modello conradiano, intrapresero viaggi nel continente
nero, quasi incarnando una sorta di versione francese del Grand Tour,
il viaggio di formazione che aveva condotto i maggiori artisti e
intellettuali inglesi in Italia soprattutto, ma anche verso altri lidi
mediterranei tra il XVIII e il XIX secolo. Un mito collettivo,
l’Africa, che rapì Louis Aragon, Antonin Artaud,
Blaise Cendrars, André Malraux, Henry Michaux, Paul Nizan e
non solo. Tutti alla ricerca dell’essenza,
dell’autentico, cercando di sbarazzarsi del peso della
tradizione, del condizionamento della secolare cultura occidentale. A
questo proposito, un altro intellettuale che si inoltrò tra
Congo e Ciad fu André Gide, che nel suo diario compilato nel
viaggio in quei Paesi, auspicò: “Tutto sarebbe
come se non fossi e dimenticherei io stesso la mia presenza per essere
soltanto la mia capacità di vedere” (Gide, 1988).
A sua volta, Michel Leiris, ennesimo intellettuale transalpino,
intraprese un viaggio nei territori delle colonie attraversandoli tutti
dal 1931 al 1933, dal Senegal alla Somalia. Una spedizione etnografica
da cui nacque il libro L’Africa fantasma,
dove si legge: “Spesso è proprio spingendosi
all’estremo nel particolare che si arriva al generale;
esibendo in piena luce il coefficiente personale si rende possibile il
calcolo dell’errore; portando al suo culmine la
soggettività si attinge
all’oggettività” (Leiris, 1984). In
Africa andrà anche Simenon, e ne riporterà
cronache nei suoi Reportages. Reiterate indagini
sul continente e non è ancora tutto.
Il polar,
l’Africa equatoriale, la miseria umana, la traduzione dalla
lingua letteraria di Thompson a quella cinematografica di Tavernier ha
soprattutto uno snodo che rende tutti questi passaggi: Louis-Ferdinand
Céline. Il maledetto che mitraglia
sull’umanità fiumi di bava, appena ventiduenne se
ne andò in Africa a cercar fortuna e si portò
dietro in patria quell’esperienza che descrisse in modo
mirabile nel Viaggio al termine della notte.
È qui che scrive righe che sono l’anima stessa
dello sceriffo Nick Corey, il protagonista di Pop .1280,
e del suo doppio, Lucien Cordier nel film di Tavernier:
“Ogni possibile viltà diventa una meravigliosa
speranza se uno sa riconoscerla. Ecco quel che penso. Non bisogna mai
fare i difficili sul modo di evitarsi uno sbudellamento, né
perder tempo a cercare le ragioni della persecuzione di cui sei
oggetto. Sfuggirvi è quel che basta al saggio!”
(Céline, 2002). Voilà, questo è
Ferdinand Bardamu, senza Nick Corey non sarebbe mai diventato Lucien
Cordier,
La trama in breve di Pop. 1280
è necessaria per comprendere gli spostamenti operati da
Tavernier. L’azione si svolge nella Contea di Potts, Texas,
che conta, si è detto, 1.280 anime. Lo sceriffo è
Nick Corey, la cui principale occupazione consiste nel lasciar fare,
nel fare in modo che ognuno possa pascolare nei suoi vizi e pregiudizi,
chiudendo un occhio e anche l’altro su tradimenti, piccoli
misfatti, meschinerie, anche a costo di passar per tonto.
D’altra parte, lui non è da meno: tiene in caldo
tre donne, gioca sporco per farsi rieleggere sceriffo e
finirà per commettere omicidi. La prima delle tre donne
è Myra, sua moglie, che si è portata a casa in
dote il fratello Lennie, al quale manca qualche rotella. Questo
splendido terzetto è conservato da Tavernier, salvo
ribattezzare lei Hughette (Stéphane Audran), lui Nono (Eddy
Mitchell) e alludere di più a una intesa sessuale tra i due
(che forse parenti non sono). L’altra donna,
l’amante di Nick, è Rose e così si
chiama anche nel film dove è impersonata da Isabelle
Huppert. La terza è la donna per cui Nick ha davvero provato
qualcosa che si potrebbe chiamare amore ed è il personaggio
che più si modifica nel passaggio al filmico,
perché Tavernier trasforma Amy, con la quale Nick era stato
sul punto di sposarsi, in Anne (Irène Skobline),
un’insegnante che giunge a Bourkassa, il villaggio coloniale
che sostituisce la cittadina di Potts e che accende un fantasma di
sentimento nell’alter ego di Nick, Lucien Cordier,
responsabile dell’ordine pubblico, che la terrà al
riparo dalle sue trame. Se le tre donne giocano una commedia
altrettanto nera nel film come nel romanzo, al contrario la vicenda
legata alla rielezione di Nick a sceriffo è del tutto
assente nel film e questa scelta comporta di conseguenza un
rimescolamento degli avvenimenti con il risultato di avere nel film un
mosaico le cui tessere sono rappresentate dalle principali varianti
possibili in una trasposizione dalla pagina allo schermo. Prima ancora
però di creare una nuova sequenza di eventi, una volta
liberatosi del Texas, Tavernier si trovò di fronte a un
altro ostacolo decisamente più insormontabile sulla carta:
la narrazione in prima persona da parte di Nick Corey. Per
rappresentare i fatti con altrettanta delirante lucidità,
evitando lo sperimentalismo di Una donna nel lago
(1947) di Robert Montgomery (una storia dell’investigatore
Philip Marlowe), scelse di girare praticamente l’intero film
con una steadycam in perenne movimento, restituendo così
appieno la soggettività della narrazione. Gli stati di
alterazione nel film non sono restituiti unicamente dai movimenti di
macchina, che regalano talvolta anche momenti di autentico virtuosismo,
come nella scena tutta di corsa dell’attraversamento del
mercato per raggiungere ed entrare nell’appartamento di
Lucien da parte di Rose. Anche la fotografia risulta spiazzante, tutta
calibrata su colori pastello, lontana dalla luce abbacinante e reale
che avvolge quelle terre. L’Africa è davvero
immaginata in Colpo di spugna: è una
terra dove sono assenti gli animali esotici, i grandi paesaggi
mozzafiato, gli sconfinati orizzonti, il deserto senza fine, e tutto si
risolve in un miserabile conglomerato dove a mantenere
l’ordine pubblico ci pensa un tizio vestito da cowboy,
perché tale è a ben vedere il look di Cordier
(voluto espressamente da Noiret). D’altronde il film inizia
con una anomalia spazio/temporale: un eclissi di sole che avviene
mentre Lucien osserva dei bambini del disgraziato villaggio frugare
nella terra alla ricerca di cibo. Sarà qui che il film
tornerà in conclusione, quasi suggerendo che sia tutto
frutto di un’allucinazione, invece che l’approdo di
un uomo, Lucien (ma anche il Nick romanzesco), ormai in stato di lucido
delirio e prossimo a identificarsi con una sorta di Salvatore. Comunque
si voglia leggere l’epilogo, altrettanto spiazzante di quello
del romanzo, l’intera vicenda non lascia speranze, come si
conviene a un apologo sul male ben congegnato.
Gli eventi
scatenati da Thompson nel romanzo si incastrano alla perfezione,
perché è quel genere letterario a esigerlo,
cosicché smontare, sottrarre, mescolare e inserire elementi
della trama in una nuova storia, hanno costituito
un ammirevole cimento dal quale Tavernier e il suo fido Jean Aurenche
(co-sceneggiatore, sodale del regista sin dai tempi de L'orologiaio
di Saint-Paul) escono vincenti.
Innanzitutto nel
film, come si è già accennato, è
assente la campagna elettorale per la rielezione a Primo Sceriffo e
quindi non compare sotto nuove spoglie il personaggio di Sam Gaddis, il
suo concorrente; al contrario, sono necessariamente presenti,
perché altrimenti tutto l’incastro andrebbe a
farsi benedire, Le Péron, uno dei due ruffiani
(l’altro è Leonelli) che Lucien farà
fuori in dopo un’istruttiva lezione di vita impartitagli dai
colleghi di un villaggio vicino, dal sergente Chevasson (Ken Lacey nel
romanzo) e il suo vice, Paulo. Quest’ultimo personaggio,
marginale nel film, sarà invece protagonista nel finale di
Thompson (nel romanzo è Buck) e ci porta a un altro aspetto
della rilettura di Tavernier, ovvero come alcuni dialoghi sono identici
rispetto al romanzo ma non tutti i soggetti sono gli stessi.
Nell’ultimo
capitolo, Nick racconta a Buck la parabola sui buchi del culo dei cani,
di come li smarrirono, condannandosi a un’eterna ricerca,
condotta annusandosi l’un con l’altro il
didietro:
“E di punto in bianco non ti va a scoppiare un temporale del diavolo, che sparpaglia quei buchi di culo da tutte le parti mischiandoli così malamente che neanche uno di quei cani riuscì mai a ritrovare il proprio. Ecco perché se ne vanno ancora in giro ad annusare chiappe” (Thompson, 2014).
Nel film, invece, pur rimanendo dalle parti del finale, Lucien
ripropone la medesima favoletta a Rose, che ha incastrato (come nel
romanzo) facendole far fuori sua moglie e lo pseudo fratello.
L’interlocutore cambia sesso, ma entrambi sono stati complici
e la scena nella sostanza è uguale: Lucien/Nick qui
è ormai al di là del bene e del male, cosciente
della propria missione di angelo sterminatore.
Curiosamente
una delle scene più simili tra romanzo e film rivede sempre
protagonisti la coppia Lucien/Rose. Si tratta dell’uccisione
di Mercaillou (Tom Hauck nel romanzo), il marito di lei. Lucien lo
incontra lungo il fiume dove ha già fatto fuori i due
ruffiani/guappetti e lo fa secco, quasi:
“Il colpo non lo uccise subito, anche se stava morendo in fretta. Volevo che restasse vivo per qualche secondo, in modo da sentire i tre o quattro rapidi calci che gli mollai. Magari penserete che non è stato proprio carino prendere a calci un moribondo, e forse avete ragione. Ma era da tanto che avevo voglia di prenderlo a calci, e fino a quel momento non era mai sembrato prudente farlo. Dopo un po' lo lasciai lì, a indebolirsi sempre più. A contorcersi in una pozza fatta del suo sangue e delle sue budella. E poi a smettere di contorcersi” (ibidem).
Identico nel film. Lucien si dirige a casa di Rose, le confida la buona novella, fanno sesso e anche qui la sequenza e lo scambio di battute è identico, compresa la contrita, si fa per dire reazione di Rose:
“«Sai cosa mi sarebbe piaciuto fare a quel lurido bastardo, Nick? Quello schifoso figlio di puttana, mi sarebbe piaciuto pigliare un attizzatoio rovente e schiaffarglielo su per il…
Ehi, cosa c’è tesoro?»
«Niente, cioè forse dovremmo mostrare un po’ più di rispetto per il vecchio Tom»” (ibidem).
Successivamente Lucien farà fuori anche il giovane
di colore Vendredi (Zio John nel romanzo, si notino i due nomignoli
all’altezza del sud razzista e del potere coloniale) e
Tavernier conserverà l’intero cinismo, forse nel
suo punto più alto, capendo che qui intervenire avrebbe
significato erodere il nichilismo di fondo della storia.
Infine,
se mancano dei personaggi, come Sam Gaddis, ma anche il signore che sul
treno si fa beffe di Nick nel suo viaggio per consultarsi con Ken Lacey
(sostituito da un cieco piuttosto spiritato), ne compaiono altri,
assenti nella storia di Thompson, come il bizzarro gemello di Le
Péron, che per un attimo attenta a tutta la trama tessuta da
Lucien. La vera invenzione di Tavernier è però la
maestrina Anne, con scene del tutto ripensate/ricreate rispetto alla
Amy del romanzo, le più autonome dal romanzo insieme alla
eclissi iniziale. Non poteva essere altrimenti, a iniziare dal loro
incontro sul treno nel viaggio di ritorno di Lucien al villaggio, e la
scena della proiezione di un film all’aperto: Lucien incontra
al botteghino Anne. Lei conduce con sé alcuni scolari che
muoiono dalla voglia di vedere il mare, pazienza che si tratti in
realtà di un film di guerra a base di marinai e corazzate e
che nonostante il tuonare dei cannoni Lucien si addormenti sulla spalla
di Anne, mostrandolo per qualche attimo davvero indifeso. Una bufera di
vento scatenerà un fuggi fuggi generale, lasciando per un
istante i due da soli, teneramente uniti dalla sabbia che soffia
furiosa: quasi una versione equatoriale dei fidanzatini di Raymond
Peynet. Niente di tutto questo è presente nel romanzo di
Thompson, così come è assente il ballo tra i due
in una festa all’aperto. Qui Lucien spiega ad Anne
perché non può impegnarsi con lei (altrimenti
come farebbe a ripulire dal crimine il suo mondo) prima che
sull’ultimo giro di pista si sovrapponga l’eclissi
iniziale e la conclusione del film. Degna conclusione di un film che
azzarda un matrimonio alchemico tra noir e surrealismo.
L’indizio è in un fulmineo cameo. Il breve filmato
pubblicitario (autentico) che precede la proiezione del film
all’aperto è Au petit jour a Mexico on
va fusiller un homme, girato da Paul Grimault nel 1932.
Pubblicizzava i prodotti de Les Galeries Barbès, storica
industria del mobile e a far da testimonial a una sedia
Barbès c’è Max Ernst in persona. In
fondo, anche quella vissuta da Lucien/Nick è una settimana
di bontà.
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