“Un telefono squillò nel buio. Quando ebbe suonato tre volte, le molle di un letto gemettero, le dita di una mano si mossero a tentoni sul legno, un piccolo oggetto pesante cadde con un rumore sordo su un tappeto, le molle gemettero ancora, e una voce d’uomo disse:

«Pronto… Sì, con chi parlo… Morto?… Sì… Un quarto d’ora. Grazie»


Un interruttore scattò e un globo bianco appeso al centro del soffitto con tre catene dorate riempì di luce la stanza” 

(Hammett, 1980).

Primi piani. L’uno dopo l’altro: un telefono, una mano che si muove tastoni, una cornetta che viene presa e sollevata (la immaginiamo: è anche inutile richiamarla per iscritto). Suoni: lo squillo di un telefono (di quel telefono), cigolii, un leggero tonfo, una voce umana. Fotografia: il buio, con qualche lama di penombra che filtra dall’esterno attraverso una veneziana, giusto per illuminare le dita che brancolano alla ricerca del telefono; poi il campo si allarga, il quadro si illumina: la luce, forte, di un lampadario centrale.
Un brano di sceneggiatura, giusto da rifinire, si direbbe. E invece no: è il frammento di un romanzo, una scrittura costruita per essere stampata e venduta in libreria o in edicola. 
Pure, è già pronta per fare da sorgente della scrittura per il cinema, a riprova di quanto, già dopo poco più di un trentennio di vita, il cinema ispirasse le modalità con cui immaginiamo e trascriviamo le storie, nella loro trasformazione in racconti. E che infatti verrà trasferita letteralmente nella sceneggiatura di un film. 
L’estratto proviene da Il falcone maltese (The Maltese Falcon), pubblicato fra il 1929 e il 1930 su rivista, e poi, sempre nel 1930, in volume da libreria, il terzo romanzo di Dashiell Hammett, il “fondatore” del poliziesco hard-boiled, che costruì la sua fama proprio a partire dalle riviste pulp, in questo caso Black Mask, e da cui vennero tratte ben tre versioni cinematografiche: nel 1931, nel 1936, poi nel 1941, la più famosa, uno dei monumenti del cinema classico americano, se non del cinema tout court. E il fatto che nell'arco di un solo decennio la produzione, sempre la Warner Bros., decise per ben tre versioni dello stesso film è una prima prova di come questa narrazione fosse destinata a occupare una posizione stabile nell'immaginario collettivo, a diventare un vero monumento della cultura di massa, denso com’è di elementi e luoghi dell’immaginazione cui allude, grazie alla fedeltà con il romanzo, d’altra parte, ma con in più la straordinaria potenza evocatrice del cinema in uno dei suoi momenti di massima espansione.  
In Italia il romanzo sarebbe stato poi pubblicato nel 1953 da Longanesi, e solo nel 1984 da Mondadori, che però ne cambiò, chissà perché il titolo in Il falco maltese, in una traduzione totalmente nuova e finalmente scorrevole e realistica, rispetto alla legnosità e alla rozzezza della prima. 

 


 

 


 

La prima versione (The Maltese Falcon, stesso titolo del romanzo), diretta da Roy Del Ruth, fedele al romanzo fin nella riproduzione di molti dei dialoghi, incappò nelle maglie del “Codice Hays” (il codice di autodisciplina che si imposero le case di produzione cinematografiche hollywoodiane per governare i riferimenti al sesso nei film), così che nel 1934 alcune sequenze furono tagliate (quella con la protagonista femminile, Bebe Daniels, nuda sotto la doccia, quelle con dialoghi vagamente allusivi sull'omosessualità) e quando, nel 1936, la Warner provò a ridistribuire la pellicola nelle sale nella sua versione originale la censura la bloccò, inducendo la produzione a girare un nuovo film, un adattamento ampiamente distante dal romanzo diretto da William Dieterle (uno dei tanti profughi di talento arrivati dalla Mitteleuropa per sfuggire ai macellai nazisti) con Bette Davis: Il diavolo e la signora (Satan Met a Lady, girato in uno stile leggero, piuttosto lontano dallo spirito del noir), che però non lasciò particolari tracce.
E così, alla fine, la Warner nel 1941 decise di produrre un nuovo film facendo tutto daccapo; prova decisiva di quanto l’apparato hollywoodiano puntasse sulla forza di quella narrazione.
Come a volte capita, il mito nasce anche dalle circostanze e dalle coincidenze: così, per la nuova pellicola fu scelto come sceneggiatore un giovane John Huston, e il suo lavoro piacque tanto che gli fu proposta la regia del film. Huston, che non aveva mai fatto il regista, accettò, regalandoci un capolavoro, e avviando una carriera che ne avrebbe fatto uno dei giganti del cinema di tutti i tempi. Discorso simile vale per Humphrey Bogart, scelto per ripiego, e destinato a diventare per sempre il volto dell’investigatore Sam Spade,  dopo che George Raft aveva rifiutato la parte di protagonista non fidandosi di uno sceneggiatore alla sua prima regia…
La trama ruota intorno ad una favolosa statuetta dal valore inestimabile: un falcone d’oro tempestato di pietre preziose e ricoperto di una patina di vernice per nasconderne il valore, donato nel XVI secolo dai Cavalieri di Malta all’imperatore Carlo V. Un gruppo di avventurieri è a caccia del falcone da anni, e pensa di averlo finalmente individuato. Questa caccia provocherà l’assassinio di Miles Archer (Jerome Cowan), il socio di Sam Spade che, indagando, scoprirà tutta la trama e individuerà l’omicida del socio, Brigid O'Shaughnessy (Mary Astor) la femme fatale di cui si è innamorato, anche lei a caccia della statuetta, donna che nel finale consegnerà alla legge.
L’andamento della sceneggiatura è estremamente fedele all’intreccio del romanzo, e riesce a renderne il tono teso, urgente, veloce, scarno, come peraltro nella tradizione della hard-boiled school, la scuola narrativa “dei duri” promossa e ospitata da Black Mask

Rivelazioni, colpi di scena e sorprese che permettono di ricostruire gli intrighi e il marcio sottostanti alla ricerca scandiscono il flusso della narrazione, girata pressoché tutta in interni a causa del basso budget concesso a John Huston, ma che permise a quest’ultimo e al suo direttore della fotografia, Arthur Edelson, di assicurare il timbro claustrofobico e cupo che il regista voleva creare.   
Così, dopo un testo pseudostorico che fa da introduzione dotta e scorre subito dopo i titoli di testa, in cui viene narrata la storia della preziosa statuetta, l’ingresso nell’ufficio dei due private eyes della O'Shaughnessy che li ingaggia cercando di ingannarli con una storia inventata, l’omicidio di Archer e la sequenza che abbiamo citato (dal romanzo) più sopra, la vicenda comincia a viaggiare e si dipana seguendo Sam Spade. Noi spettatori, sembra, sappiamo tutto quello che sa lui, quello che vede, ciò che gli viene raccontato. Alla fine, scopriremo che c’è dell’altro: alla individuazione dell’omicida del suo socio Spade è arrivato col ragionamento, e forse nello stesso modo ha capito che la statuetta di cui si è ritrovato in possesso è un banale falso. Non lo dichiara esplicitamente, per lui lo fanno i due avventurieri che la cercavano, ma il sospetto in noi rimane…
La fusione di azione e ragionamento era un tipico tratto dell’hard-boiled school, che alla tradizione del giallo “all’inglese” aggiungeva la consuetudine al movimento, al duello, al confronto fatto di pugni e pistole presi dal western, e che farà la fortuna del cinema delle “giungle urbane”. Los Angeles, prima di tutte le altre, quando il miglior allievo di Hammett, Raymond Chandler, reincarnerà Sam Spade in Philip Marlowe trasferendo l’hard-boiled crime nella “città degli angeli” e rifinendone e prosciugandone i tratti in un personaggio disincantato, nichilista, solitario, e scolpendone definitivamente il mito.
Ecco, la dimensione mitica che avvolge la pellicola di John Huston è fatta sicuramente della purezza elementare della storia che viene raccontata, degli idealtipi che mette in scena, l’eroe, la donna fatale, la ricerca, l’esotismo, ma anche dell’aura che tutti i materiali appartenenti più al profilmico che al film in sé gli conferiscono, dalla circostanza della prima regia di Huston all’inaugurazione di un genere narrativo e cinematografico che poi sarebbe stato sacralizzato dall’incontro di una città (Los Angeles) e di un personaggio (Philip Marlowe) che si sarebbero poi spinti fino alla contemporaneità con i romanzi di James Ellroy e una pellicola come Blade Runner (1982).
La stessa statuetta usata nel film (siamo sempre nel profilmico) è diventata un oggetto di culto. Realizzata in due copie, una delle due è stata venduta in un’asta per diverse migliaia di dollari, quasi a replicare nella realtà la vicenda raccontata nel film.
La statuetta del falcone è un classico “Mac Guffin”, come lo avrebbe definito Alfred Hitchcock: il maestro spiega con cura cos’è un “Mac Guffin” a François Truffaut in Il cinema secondo Hitchcock (1997), la lunga intervista condotta dallo stesso Truffaut al regista inglese parlandogli di Il prigioniero di Amsterdam (1940):

“A.H. La famosa clausola segreta era il nostro Mac Guffin. Bisogna che parliamo del Mac Guffin?

“F.T. Il Mac Guffin è un pretesto, non è così?

“A.H. È una scappatoia, un trucco, un espediente.

[…]

“In tutte le storie di spionaggio scritte in questa atmosfera, c’era sempre il furto della pianta della fortezza. Questo era il Mac Guffin.

[…] La cosa non è importante in se stessa e i logici hanno torto a cercare la verità nel Mac Guffin. Nel mio lavoro ho sempre pensato che le «carte», i «documenti», i «segreti» … debbano essere estremamente importanti per i personaggi del film, ma di nessun interesse per me, il narratore… in realtà il Mac Guffin non è niente”

(Truffaut, 1997).

In effetti, il falcone compare tardi, nel film, quando il capitano della nave su cui era stato portato da Istanbul a San Francisco, ferito da alcuni colpi di pistola, lo porta a Spade nel suo ufficio, per poi abbattersi sul pavimento, morto. Nave che è stata intanto incendiata.
Gli elementi dell’intrigo, dell’esotico, del misterioso ci sono tutti, aleggiano nel film come nel romanzo, dandogli corpo e senso, e riconnettendo il racconto a almeno due secoli di immaginazione narrativa, dal romanzo gotico al racconto di viaggio e di avventure, nodi dell’immaginario romantico senza cui il cinema di Hollywood non esisterebbe. 
Materiali che si coagulano nella statuetta, e nella sua “biografia”, che sono anticipati, se si vuole, dal testo che introduce il film, conferendo alla vicenda il tono colto – e evocativo – di una ricostruzione storica che si perde nei nebbiosi abissi del tempo e nelle misteriose terre dell’Oriente. Un po’ come era avvenuto, circa un decennio prima, col capolavoro di Tod Browning, Freaks (1932) al quale la produzione, per rispondere alle proteste scandalizzate degli spettatori, aveva appunto anteposto un testo a scorrimento che conferiva alla pellicola una dimensione storico-antropologica, peraltro fantasiosa e improbabile. Un’ulteriore allusione, per la memoria degli spettatori, alle sfere del misterioso e dell’esotico.
Il calco su cui sono costruiti romanzo e pellicola ha un doppio tracciato: le vicende che vengono rappresentate sullo schermo, e quelle che ne sono per così dire alle spalle (l’oggetto delle indagini di Spade), che rimangono opache, e che sarà compito dell’autore (lo scrittore, il regista) svelare nel finale della storia attraverso la voce dell’investigatore protagonista. Assicurando così il colpo di scena di chiusura – la rivelazione della colpevolezza di Brigid – e lo scioglimento dei nodi della trama. 
Pratica in cui Hammett era diventato maestro, avendo composto alcuni dei suoi romanzi assemblando insieme parti di trame dei suoi racconti, ritrovandosi a gestire catene di eventi e cause sovrapposte, ingarbugliate, contraddittorie, che poteva sgrovigliare solo assegnando ai suoi investigatori il compito di mettere in ordine nel finale dei suoi romanzi gli eventi noti ai lettori con quelli che gli aveva taciuto creando ad hoc catene plausibili di cause ed effetti. 
Brigid O’Shaugnessy, un altro elemento cruciale. Una donna fatale idealtipica, manipolatrice, bugiarda, ambigua, letalmente seducente. Ma che non riuscirà alla lunga a ingannare il suo bersaglio. E che si riproporrà in tante altre vesti. Come nel caso della Phyllis Dietrichson (Barbara Stanwick) di La fiamma del peccato (Double Indemnity 1944) di Billy Wilder, sceneggiato dallo stesso regista con, guarda un po’, Raymond Chandler partendo dal romanzo omonimo di James Cain (in italiano, La morte paga doppio, 1998, cfr. in questo numero)…

Siamo nel periodo del trionfo dello star system hollywoodiano, l’epoca dei divi, in cui ci si poteva perdere guardando sullo schermo i propri miti, e magari incontrarli nei locali dei dintorni di Los Angeles: mito e realtà si confondevano, dando corpo alle riflessioni che Edgar Morin sviluppò nel 1957 in Le star sulla cultura di massa e la potenza immaginativa del cinema: “… le star sono più che oggetti di ammirazione: sono soggetti di culto […] L’uomo da sempre proietta su delle immagini i suoi desideri e le sue paure. Proietta nella propria immagine – il suo doppio – il bisogno di superarsi nella vita e nella morte. Questo doppio è detentore di potenze magiche latenti; ogni doppio è un dio virtuale. Le cose e le persone dell’universo cinematografico sono immagini, doppi” (Morin, 1995). 
“Le cose e le persone”. Come la statuetta del falcone: Mac Guffin di nome e di fatto: come per il film è un pretesto, così dentro il film è un falso. Un oggetto privo di valore, se non per l’immaginazione dello sceneggiatore e dello spettatore. 
Un innesco, insomma. Il vero divo del film: materia vile, che però regge e nutre il sogno di gloria e di ricchezza degli avventurieri che lo braccano da diciassette anni (e, nel mondo reale, dei collezionisti), e che, scoprendo che è falso, invece di rassegnarsi o arrendersi, schizzano via a riprendere la loro Quest infinita: la stessa materia di cui è fatto il cinema, che usa i materiali del mondo per dare vita a mondi immateriali, fatti di sogni, di magia. 
Qui, nel finale, romanzo e film divergono bruscamente: lì dove, nel romanzo, vediamo Sam prepararsi rassegnato ad una discussione con la moglie di Archer, di cui era stato amante e che aveva lasciato, riportando tutta la vicenda sul piano prosaico e faticoso della vita quotidiana e delle sue miserie, nel film, al poliziotto che soppesando la statuetta gli chiede di cosa è fatta, pesante com’è, Spade risponde citando William Shakespeare, dalla Tempesta: “È della materia di cui son fatti i sogni”. L’aggiunta di John Huston, la chiusura della sua sceneggiatura, rimanda direttamente alla natura stessa del cinema: impalpabile, evanescente, come i nostri sogni, luogo di una ricerca infinita, di un inseguimento continuo ai nostri doppi immaginari, capace però di trasfigurare e consacrare le vili materie dell’ordinario e del banale in qualcosa di magico, di simbolico, di mitico.

 


 

LETTURE

  James Cain, La morte paga doppio, Adelphi, Milano, 1998.
  James Ellroy, Los Angeles nera (include i romanzi Le strade dell'innocenza, Perché la notte, La collina dei suicidi),
  Mondadori, Milano, 2001.
  Dashiell Hammett, Il falcone maltese, Longanesi, Milano, 1980.
  Dashiell Hammett, Il falco maltese, Mondadori, Milano, 1984.
  Edgar Morin, Le Star, MCF, Milano, 1995.
  François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Nuova Pratiche Editrice, Milano, 1997.

 


 

VISIONI

  Tod Browning, Freaks, Dynamic Italia - Dynit, 2015 (home video).
  Alfred Hitchcock, Il prigioniero di Amsterdam Corrispondente 17, CG Entertainment, 2016 (home video).
  John Houston, Il mistero del falco, Warner Bros, Entertainment Italia, 2000 (home video).
  Ridley Scott, Blade Runner The Final Cut, Warner Home Video, 2016 (home video).