Nihon e no kaiki è il 1938 visto da Hagiwara Sakutarō, è il suo Ritorno al Giappone, un poema incasellato nella modernità del Sol Levante, sparso nel continente asiatico in una cruenta invasione della Cina e prossimo al farsi strada a suon di bombardamenti nel secondo conflitto mondiale. Il ritorno al Giappone è un’idea tipicamente moderna, il lamento di uno scrittore e dei suoi intellettuali contemporanei schierato contro il processo di occidentalizzazione avviato dalla restaurazione dell’era Meiji, colpevole di aver tolto al Giappone proprio ciò che lo rendeva, appunto, Giappone, con la sua inamovibile storia millenaria. L’idea stessa di uno stato nipponico scomparso nell’approssimarsi della piena globalizzazione è nata dalle incredibili comodità importate dall’Ovest. Con la schiena poggiata sui cuscini di un divano europeo si è formata una tradizione filtrata con occhi diversi da quelli di chi quello stato lo visse prima dell’apertura forzata imposta dall’Ammiraglio Perry nel 1853. Il “ritorno al Giappone” fu un tratto che accomunò vari scrittori, non tutti disposti come Jun’ichiro Tanizaki (1886 – 1965) a riconoscere, ma non per forza accettare, la ferma presenza della cultura Occidentale, statunitense più di altre, nel Giappone del XX secolo. Dall’alto del presente guardare questo specifico aspetto del passato rende ancor più curiosa la lettura di Norwegian Wood di Haruki Murakami, pubblicato in patria nel 1987 e arrivato in Italia solo nel 1993 col titolo Tokyo Blues, prima di essere riassestato nei suoi caratteri originali nella nuova edizione Einaudi. Murakami scrive un romanzo che rispecchia l’Occidente letterario e anziché abbracciare la propria fascinazione per l’Europa e gli Stati Uniti la fa sua con sottigliezza. Citandola a gran voce ne prende gli schemi e con un calcolo elegante dà come risultato un’opera giovanile di pregevole fattura. La nostalgia è la chiave d’apertura, Toru Watanabe è in viaggio in Europa quando sente delle note a lui molto familiari, quelle dei Beatles e della loro Norwegian Wood dall’album Rubber Soul (1966), su cui si troverà a viaggiare per tornare indietro nel tempo ai suoi giorni a Tokyo. Gli anni Ottanta cedono il passo ai Sessanta della contestazione studentesca, successiva all’evento che cambiò per sempre la sua vita: la morte di Kizuki, l’amico dell’infanzia, con cui aveva saldato un sottinteso patto per un futuro in compagnia, insieme alla sua fidanzata, Naoko. Una felicità e un futuro sottratti per il suo improvviso suicidio. Sfuggire al vuoto per lui è possibile allontanandosi dalla sua città e facendosi accogliere da Tokyo, un college qualsiasi, non importa la qualità né la materia di studio, quanto basta sono i libri in cui affondare e un’esistenza diretta verso il futuro per semplice inerzia. A interrompere il passaggio è l’amore, la riscoperta di un rapporto nuovo con Naoko, ragazza frantumata dal suicidio di  Kizuki in ritiro spirituale in montagna, e Midori, giovane indipendente e collega di studi di Watanabe; tra le due divide la sua storia, con sincerità per entrambe e scarsità di sogni da raccontare. Mai senza un libro tra le mani o nei pensieri. Toru Watanabe è Il giovane Holden, il libro e non solo il protagonista, è l’incarnazione delle pagine di Jerome D. Salinger e allo stesso tempo il Nick Carraway de Il grande Gatsby, l’uomo che condivide l’intimità timida tra due persone finché una di queste non è strappata a questa terra. È in viaggio verso La montagna incantata di Thomas Mann, lassù dove Naoko cerca in qualche modo di ricucire la propria mente. Norwegian Wood è un mosaico letterario posto sullo sfondo di un Giappone che da poco ha superato gli anni raccontati da Nagisa Ōshima col classico Racconto crudele della giovinezza (1960). È pura passione messa in scena. Il fine lavoro di Murakami è parte di un largo intreccio, una lettura collegata alla propria educazione che rende il mondo personale come scrisse Cormac McCarthy in The Sunset Limited (2008). La vita di Watanabe è il riflesso della sua educazione. Di qui la grande difficoltà: come trasferire un lavoro così personale, come del resto ogni opera letteraria degna di questo nome, in un’opera cinematografica che ne sia adattamento? Per molti anni Murakami si è rifiutato di far avvicinare chicchessia ai suoi lavori, finché Tony Takitani non fu ceduto e trasposto sul grande schermo e un promettente regista vietnamita si è affacciato alla sua porta. Tran Anh Hung si offrì per potersi sedere sulla spalla del gigante Murakami, con un curriculum fatto di allori raccolti nei maggiori festival europei: il suo esordio Il profumo della papaya verde vinse la Camera d’Or al Festival di Cannes, il successivo Cyclo fece suo il Leone d’Oro alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il quarto gli riempì il set di star internazionali e panasiatiche come Josh Hartnett, Elias Koteas, Shawn Yue e Lee Byung-hun. Sulla carta Tran Anh Hung era destinato al successo e forse grazie a questo sopportò con facilità le ritrosie dei giapponesi a cui un regista vietnamita non andava giù. Nihon e no kaiki, ancora lui, resuscita sulla bocca del pubblico a cui interessa vedere un giapponese trasporre sul grande schermo un loro classico contemporaneo, un po’ come negli Stati Uniti si levò subito un gran chiasso non appena la prominente mascella di Kurt Russell fu oscurata all’idea che l’inglese Tom Hardy potesse prendere il ruolo di Snake Plissken nel remake di 1997: Fuga da New York. Adattare è un lavoro a cui si giunge da autori e spettatori attraverso un bivio: soddisfare le aspettative e i desideri del pubblico o tentare la più impervia via lastricata dal proprio mondo personale. Il solito dilemma. Fedeltà alla linea oppure sperare di poter arrivare in cima alle spalle del gigante non da nano come vorrebbe la citazione in una delle sue tante sfumature, ma da gigante a sua volta. Il rischio fa parte di entrambi, la storia del cinema ha visto dalle poltroncine miriadi di fallimenti e tonnellate di successi. Tran Anh Hung con Norwegian Wood ha optato all’apparenza per la fedeltà: seguire pedissequamente la narrazione scritta di Murakami e trasformarla in immagini, scegliendo di rinunciare però ai tratti esteriori che sulla carta caratterizzano i personaggi e la storia, rendendo la fedeltà uno sbiadito atto d’amore. Spaccando il film in mille pezzi per cercare una scena fedele fin nel midollo è un’impresa degna di Noè. Esistono frammenti identici, come l’interruzione della lezione sulle tragedie greche, ma talmente piccoli da essere irrilevanti. Sono immagini svuotate, volti umani privi di connotati definiti, solo ombre delle pagine di Murakami, personaggi estratti e gettati in luoghi decontestualizzati: il periodo storico, la natura stessa del ricordo sono annullati in favore di luoghi che non siano altro che la cornice della loro attività mentale. Chiusi tra quattro mura oppure tra i quattro lati dello schermo quando sguinzagliati negli spazi aperti. 
Uno degli esempi più vicini al concetto di fedeltà è l’equivalente del seguente passaggio dal libro di Murakami:

“In quella vecchia casa solo la cucina sembrava da poco ristrutturata e tutto, dal lavandino ai rubinetti ai mobili, era nuovo e luccicante. Midori era lì occupata a preparare il pranzo. Qualcosa bolliva nella pentola gorgogliando, e si sentiva un odore di pesce arrosto”.

 


 

 


 

È il pranzo tra Midori e Watanabe, un lungo incontro sentimentale fatto di convenevoli, chiacchiere casuali e soprattutto uno scambio di vuoti: né Midori né Watanabe possono dire di avere una vita piena, entrambi con tragedie a pesare sul cuore, a schiacciare il futuro. Si parla della cucina del Kansai da cui Watanabe proviene e di come Midori, originaria della capitale nipponica, abbia imparato a dominare i fornelli, della fuga in Uruguay del padre di lei, di un’adolescenza passata a volte con lo stesso reggiseno per mesi pur di avere soldi per comprare le padelle giuste. I due ragazzi conversano, arrivano persino a cantare tra un sorso di birra e l’altro, sull’orlo del baratro: un incendio vicino l’abitazione di Midori sembra avvicinarsi, ma nessuno dei due ne è spaventato. Il Giappone è nel caos delle rivolte e loro rispondono col loro presente svuotato di senso. Tran Anh Hung cambia le carte in tavola, però lascia identico il menù servito nella casa di Midori: il tema delle loro discussioni non cambia, è ristretto per ovvie necessità derivate dal lavoro di adattamento, ma quando si tratta di dare voce all’esterno si zittisce. Poco è cambiato rispetto al romanzo se non nel loro rapporto con la società: non è più un incendio ad assediare a breve distanza l’edificio di Midori, non è sulla terrazza che cantano e bevono, bensì è di fronte a una balconata, invasa in conclusione da una forte pioggia. Al fuoco contrappone l’acqua, una forza della natura che alla distruzione del fuoco risponde con malinconia. Il regista opta per l’incrocio di sguardi, evita con forza di portare i suoi attori a relazionarsi con attività altre da loro, limitandone peraltro le potenzialità. Annulla il rapporto con i media, creando una versione cinematografica del romanzo dona allo schermo di destinazione lo status di medium incontrastato sia dall’interno che dall’esterno della storia. Le letture su cui Watanabe continua a concentrarsi sono meri oggetti scenici, occupano il profilmico per raccontare un singolo tratto del carattere del proprietario, non reagiscono con le mille sfumature con cui potrebbero descrivere il mondo: Watanabe legge perché chiuso in sé stesso. 

Seguendo il filo del discorso una scena in particolare è da considerarsi forse la più importante, la manciata di secondi che davvero racconta le decisioni stilistiche di Tran Anh Hung e sottolinea il grosso lavoro di sottrazione effettuato. Così si presenta nel libro di Murakami l’incontro tra Watanabe e il suo amico più stretto, sempre che così si possa definire un rapporto basato sulla stima, senza particolare affetto: “In quel periodo intorno a me c’era una sola persona che aveva letto Il grande Gatsby, e fu questa la ragione per cui stringemmo amicizia. Si chiamava Nagasawa, studiava legge all’Università di Tokyo ed era due anni avanti a me”. Nagasawa è agli antipodi rispetto a Watanabe. È ambizioso, sognatore, desideroso di costruirsi una posizione di potere da cui esercitare il suo volere con regolarità. Persegue la strada delle relazioni internazionali, sognando una posizione nel mondo della diplomazia, un percorso difficile da afferrare che richiede un enorme sforzo da parte degli studenti. La disciplina è fondamentale, gli errori devono essere annullati. Ecco perché Nagasawa non legge libro che non abbia almeno trent’anni di vita, avvicinarsi a testi giovani può portare a commettere un “errore di gusto”, come lui lo chiama, e a porsi in cattiva luce di fronte ai superiori. Galeotto fu Francis Scott Fitzgerald e il suo Il grande Gatsby, ammirato tanto da Watanabe quanto da Nagasawa, avido lettore di grandi classici, da cui lui stesso nasce, come dimostra la felice intuizione di Giorgio Amitrano, autore della prefazione dell’edizione Einaudi. Nagasawa altri non è se non lo Steerforth ammirato dal giovane David Copperfield di Charles Dickens, un idolo all’occhio del più giovane, un uomo di fascino e statura sociale, macchiato da un animo viscido. L’attrazione palpabile nel romanzo di Dickens sarà sostituita dal loro andare a caccia di ragazze con cui condividere inutili notti in hotel degradanti. Il Norwegian Wood filmico trasforma Nagasawa: il primo incontro è su due poltroncine nella hall, sigarette tra le dita e voce narrante a descriverlo, finché al secondo nelle stanze di Watanabe il buon Nagasawa non scioglie la gloria presentandosi con poche battute in cui la lettura è definita una perdita di tempo. Frase accompagnata dal gesto della sua mano di sfogliare il libro di Watanabe e subito dopo gettarlo nel cestino più vicino. Niente Gatsby, Nagasawa al cinema non commetterà mai alcun errore di gusto perché tutto ciò che ora lo rappresenta è il suo incredibile potere sulle donne. Tran Anh Hung condanna a morte il personaggio. Watanabe è privato del mondo materiale, secondo il regista vietnamita l’esistenza del suo protagonista è data solo dal contatto fisico con l’unica persona con cui riesce a sentirsi sé stesso, a riscoprire il futuro di un passato uccisosi dentro un fetido garage.
Il sesso con Naoko, il sorriso di Midori, l’amore insomma è l’unica linfa vitale del film, il resto assume il ruolo di contorno, come se a farci compagnia dovesse essere solo una voce fuori campo, una mente dotata di una memoria fin troppo selettiva dedita ad accompagnarci solo là dove ha piacere di occupare il suo tempo. Così un dialogo avvenuto per Murakami nella stanza su nel ritiro di Naoko, con tanto di testimone nella fumatrice Reiko, anche suonatrice della Norwegian Wood da cui arriva il titolo, è scaraventato sui fili d’erba al vento: dove niente e nessuno può interromperli, con i confini imposti dalla macchina da presa a difenderli da ogni possibile distrazione. Un’immagine stupenda che tradisce il talento di Tran Anh Hung, l’unica forse in cui la presa di distanza rende con efficacia uno dei momenti più forti e toccanti dell’opera di Haruki Murakami.
L’autore de Il profumo della papaya verde è insomma arrivato da esterno: né giapponese né figlio degli Stati Uniti d’America. Nato a Đà Nẵng, vissuto in Vietnam fino ai dodici anni, quando vide Saigon cadere e chiudere la guerra che martoriò il suo paese per lunghissimo tempo, ha presentato una visione per certi versi apocalittica della riduzione necessaria per rendere un’opera non universale, ma globale. Spoglia dei riferimenti che la collocano nello spazio e nel tempo, identificata solo dalla lingua. Tran Anh Hung in un certo senso ha cercato di essere fedele al messaggio di Murakami dimenticando come alla mente debba corrispondere un corpo. Il suo Norwegian Wood ne è privo, è appunto una voce narrante senza immagini capaci di parlare da sé, in coro, se non con poche brevi eccezioni.

 


 

ASCOLTI

  The Beatles, Rubber Soul, EMI, 2009

 


 

LETTURE

  Charles Dickens, David Copperfield, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2003.
  Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, Mondadori, Milano, 2011.
  Cormac McCarthy, Sunset Limited, Einaudi, Torino, 2008.
  Haruki Murakami, Norwegian Wood, Einaudi, Torino, 2013.

 


 

VISIONI

  Nagisa Ōshima, Cruel Story of Youth, Eureka, 2015 (home video).
  Trần Anh Hùng, Norwegian Wood, Soda Pictures, 2011 (home video).