Le estetiche e
il modo originale di rileggere la fantascienza dello scrittore James
Graham Ballard e del regista David Cronenberg hanno molteplici punti di
affinità. Affrescano paesaggi distopici di alienazione
metropolitana in cui emergono invalicabili solitudini e patologie
interiori che la scienza, la tecnologia e tutto ciò che si
ascrive alla modernità non sono in grado di sanare.
Sfoderano con freddezza e lucidità una serie di coesistenze
forzose che danno luogo a perversi meccanismi di comunicazione indotta.
Dietro le atrocità messe in mostra da Ballard o dietro le
raccapriccianti morfogenesi che Cronenberg utilizza per raffigurare
un’interazione a dir poco invasiva, si nasconde la
sovversione e lo scombussolamento dell’essere umano nel
proprio mondo interno, nella propria coscienza e nel modo in cui viene
interiorizzata l’esperienza. Fantascienza è
quindi, sia per Ballard che per Cronenberg, la spietata analisi dello
spazio interno, di ciò che viene metabolizzato e assorbito
dalla spiritualità dell’uomo contemporaneo
proiettato in una realtà dalle mille sfaccettature, dalle
mille possibilità e contraddizioni.
Crash viene scritto nel 1973 e si colloca a pieno titolo tra i romanzi che anticipano e precorrono la post modernità. Il futuribile che ci consegna è quello di aver saputo leggere le insidie già latenti del proprio presente, di aver tessuto con grande potenza immaginifica l’incubo e il senso di imminente catastrofe imputabili a scienza e tecnologia, alla proliferazione di linguaggi che continuamente influenzano il nostro modo di pensare e agire e che necessariamente devono essere assorbiti e compenetrati per evitare di perdere voce e identità. La trasposizione cinematografica del regista canadese avviene nel 1996, ben 23 anni dopo, e quel presente che offre è uno dei tanti frammenti di presente amplificato offerto dalla fervida immaginazione di Ballard. Ancora oggi la storia concepita è perfettamente trasponibile nella nostra realtà ulteriormente accresciuta da un ventennio di duplicazioni uguali a se stesse e forse giunta al parossismo estremo. Quello che Ballard racconta non è una storia inverosimile, non è uno sforzo per dipingere un mondo puramente astratto o favolistico, ma una cruda sfaccettatura del nostro esistere, una delle inclinazioni possibili delle infinite inquadrature di un’oggettività svuotata di parametri morali e sentimentali e da filtri emotivi.
Non ci sono grandissime differenze tra racconto scritto e film se non delle evidenziazioni e delle sottolineature che, nel libro, sono giocate nel tratteggio psicologico dei personaggi e, nella pellicola, nel maggiore indugio verso lo stimolo visivo. La storia è narrata da un personaggio che ha lo stesso nome dell’autore: James Ballard. Lui e sua moglie appartengono a due mondi che riflettono nello stesso modo due tipologie di realtà preconfezionata e mistificata offerta al pubblico per ottenere consenso. Sono un produttore televisivo e una manager della compagnia turistica Pan American. Ruoli che nel film emergono solo superficialmente e in maniera contestuale, mentre nel romanzo il protagonista sminuisce deliberatamente la propria mansione, relegandola a produzioni secondarie e parlando di televisione commerciale, mentre riferendosi alla moglie Catherine, parla di carriera ben avviata con responsabilità relazionali in tutto il mondo e ulteriormente rafforzata da attività imprenditoriale nel campo dell’organizzazione autonoma di voli turistici. I due coniugi portano avanti un rapporto svogliato e del tutto anaffettivo che viene ravvivato dalla consuetudine di raccontarsi, reciprocamente e senza pudori, le loro rispettive esperienze con amanti occasionali, al fine di trovare nuovi stimoli sessuali per tenere vivo il desiderio e risvegliare la complicità in un sottile gioco di provocazioni. Una sera come tante altre, James sta rincasando dallo studio cinematografico di Shepperton, turbato dalla piega burrascosa che sta prendendo la sua relazione con Renata, una montatrice che lavora presso il suo stesso studio.
Viene coinvolto in uno spaventoso scontro frontale con una autovettura in cui viaggiano la dottoressa Helen Remington e suo marito, che morirà nel terribile impatto. Ferito con fratture multiple e lesioni, James sarà ricoverato per alcuni giorni presso l’ospedale di Ashford, situato proprio vicino all’aeroporto dove è avvenuto l’incidente e destinato alle vittime di eventuali disastri aerei o per tutte le situazioni di emergenza conseguenza del traffico incessante di quel punto strategico della città di Londra. Il trauma arrecato dall’incidente non avrà solo conseguenze fisiche, ma soprattutto psicologiche, risvegliando nel protagonista una serie di psicopatologie dell’inconscio che cambieranno per sempre il suo modo di rapportarsi al mondo circostante. A questo punto si innestano una serie di reazioni incontrollate e apparentemente ingovernabili e imprevedibili che lo porteranno a identificarsi con l’altro grande protagonista del racconto, una specie di alter ego delle sue perversioni: Robert Vaughan.
Vaughan è la figura accentratrice dietro la quale ruotano tutti gli altri personaggi della saga in un macabro alternarsi di meccanismi repulsivi e attrattivi. Non a caso la sua figura ambigua e dai contorni sfumati, volutamente lasciata sospesa tra un passato indefinito e un futuro rimesso a una serie di visioni ossessive, è spesso riassunta con l’appellativo di scienziato pazzo. Come a voler mettere ancora una volta in rilievo la dicotomia e la contraddizione che caratterizza la nostra contemporaneità: un matrimonio tra ragione e incubo, l’allestimento delle fobie e delle tentazioni, il luogo imprecisato dove si colloca la nostra natura depravata e la facilità con la quale questa stessa offerta a basso costo di voglie da soddisfare, finisce a sua volta per snaturarci. Tutto viene spettacolarizzato, tutto viene svenduto e tutto perde valore in un immenso palcoscenico dove la recita si traspone alla vita vissuta, dove gli effetti speciali sono rappresentati dai nostri spaccati urbani di violenza, di velocità, di indolenza; in un baraccone in perenne mutazione.
Nel film si insiste su inquadrature di piloni di cemento, ambientazioni cupe, ombrose o prevalentemente notturne, una fotografia che predilige il blu e le tonalità fredde.
Dopo l’incidente di James e con
l’incitazione subdola, da manovratore di inconsci di Vaughan,
si accenderà una carica di erotismo incontrollato dei
personaggi che prenderà piede a partire proprio dallo
scontro, ovvero dall’evento traumatico che li accomuna. James
Ballard finirà per accoppiarsi con la sua vittima, la
dottoressa Remington, nei sedili posteriori della sua auto incidentata.
Le sue piaghe e le sue ferite deturpanti susciteranno nella moglie un
interesse morboso che paradossalmente risveglierà, nella
monotonia del loro ordinario, nuove attenzioni e rivoli di
affettività che, proprio attraverso il sangue e la
commistione di liquidi umorali, stempereranno la freddezza e
l’apatia delle loro emozioni. Gli amplessi si ramificheranno
in nuove turbolenze e in nuove disperate vibrazioni allargandosi anche
alla cerchia di figure torbide e inquietanti introdotte da Vaughan. Lo
stuntman Seagrave che sfida la propria morte in ardite prove
automobilistiche in cui vengono simulati gli scontri di personaggi
famosi morti in incidenti stradali: James Dean, Jayne Mansfield, Albert
Camus e John Kennedy. Le altrettanto ambigue figure della moglie di
Seagrave, Vera, e della storpia Gabrielle, amica della coppia,
orrendamente mutilata agli arti inferiori e costretta a deambulare con
una serie di sofisticate protesi al busto e alle gambe.
Quest’ultima finirà per avere rapporti sessuali
con James e con la dottoressa Remington. Nello stesso modo Vaughan
è spettatore passivo e protagonista diretto di una
altrettanto lunga serie di rapporti sessuali unicamente voyeuristici e
strumentali che non sono altro che la messa a punto tecnica e asettica
dei suoi grovigli mentali, delle inclinazioni deformi delle sue
fantasie e le linee di collisione in cui i suoi sogni vanno
inevitabilmente a frantumarsi.
Nel libro di J.G. Ballard, Vaughan è presentato
come “un ex specialista di elaboratori
elettronici”, con “una convinzione assoluta nei
riguardi dell’argomento trattato: l’applicazione
delle tecniche elettroniche al controllo dei sistemi internazionali di
traffico”, questa descrizione lascia davvero stupefatti se si
pensa che viene scritta nel 1973. Lo stupore aumenta se poi a questa
descrizione si prova anche a dare una declinazione profetica, legata al
concetto stesso di controllo elettronico. Se l’associazione
auto/corpo e sesso/scontro, portata morbosamente avanti nel romanzo,
prevede una sempre maggiore univocità è chiaro
che la previsione avanzata dallo scrittore è quella di
controllo della mente e dell’agire da parte
dell’elettronica. Un’elettronica che
troverà terreno fertile di attecchimento in menti inaridite
dall’incapacità di sognare e immaginare e quindi
deprivate dei sentimenti. La forzatura che nelle immagini della
pellicola diventa quasi disturbante, ovvero i continui rapporti
sessuali consumati con distacco e con gestualità meccaniche
e impassibili è una metafora che accentua il bisogno
disperato delle persone di ritrovare la propria natura, di amare e di
sentirsi in comunione con i propri simili. Ovviamente laddove i
meccanismi sociali sminuiscono questi desideri, offrendo una serie di
surplus materiali a domande interiori, generando una serie di risposte
automatiche a disponibilità immediata, avviene lo
smarrimento. Tutto si riduce a merce e tutto viene spettacolarizzato in
un crescendo di violenza e aggressività, in un implacabile
bombardamento mediatico. Si finisce per rimanere apatici e indifferenti
alla crescente proliferazione di immagini a effetto. La penetrazione
dell’attenzione è legata alla violenza e al
sensazionale. È come se tutto finisse per essere mosso da
una volontà subconscia di abbattere il superfluo e la
mercificazione del corpo, divenuto ennesimo oggetto funzionale,
attraverso uno scontro/riappropriazione che sia capace di rendere
manifesta la propria autonomia/deviazione con un atto rivoluzionario e
sovversivo, in grado di elevarsi dall'ordinario attraverso
l’imprevedibilità. Questa idea, come ci ricorda
Ballard nella postfazione del romanzo, nasconde anche, in commistione
con l'insidia tecnologica, l'insidia politica, l'idea di omologazione
pilotata e istituzionalizzata. Ecco quindi che la pornografia, la
perversione, la lucida follia che sta dietro questi comportamenti
asettici è un'idea di schianto liberatorio, di morte
catartica. Pura creazione artistica. Per riprendere ciò che
filosoficamente sostiene Jean Baudrillard, tutto ciò che si
estetizza e si classifica, annienta il processo creativo.
Una prima significativa deviazione filologica tra libro e film è quella che va a tutti gli effetti interpretata come un omaggio di ammirazione personale che Cronenberg fa a Ballard, attraverso una serie di citazioni del suo precedente romanzo del 1970, La mostra delle atrocità. Vengono messe in scena tutta quella serie di ossessioni, metafore che legano il cinema con la vita reale, la sottile linea che separa la finzione dalla realtà. James e Helen si recano insieme a delle corse organizzate dai cascatori che di giorno lavorano presso gli studi cinematografici. I due spettatori non riescono a capire se la scena a cui assistono è vera o finta. Vaughan commenta ai microfoni la ricostruzione dettagliata dell’incidente di James Dean, particolare non presente nel romanzo Crash ma nel precedente, The Atrocity Exhibition, in cui la narrazione procede per frammenti e l’ambientazione cyberpunk intesse una fantascienza interiore, in cui la follia diventa l’incapacità di scindere l’evento mediatico dall’evento interiore. Vaughan starà nel prototipo della Porche di James Dean interpretato da Seagrave. C’è un particolare pronunciato da Vaughan mentre Helen, James e uno stordito Seagrave cercano di allontanarsi, dopo una brusca irruzione sul luogo delle forze dell’ordine: non è la polizia che effettua i controlli ma il ministero dell’interno. Come a voler sottolineare che qualcuno dall’alto ha interesse a tastare le reazioni e le sollecitazioni del pubblico di fronte a un fenomeno appositamente allestito e veicolato. Ed è proprio questa scena che restituisce la comunione di intenti e le coincidenze espressive tra regista e scrittore. L’anticipazione del nuovo potere mediatico del linguaggio visivo. Il tentativo di abbattere il senso critico attraverso una visione totalizzante mente/corpo e corpo/società.
David Cronenberg in Videodrome aveva preconizzato il potere fascinatorio dell’immagine, la scomposizione reale/virtuale e il delinearsi di un nuovo paesaggio sociale. Così come Ballard con puntiglio quasi maniacale si sofferma sull’ibridazione dell’immaginario, su logiche non sequenziali che tendono a far assorbire come familiare qualcosa che in realtà è estraneo, facendo leva sul rimosso e sulle perversioni. Nei due autori sembra non essere secondaria l’influenza di Guy Debord e delle concezioni riportate nel suo libro La società dello spettacolo. Lo spettacolo e la spettacolarizzazione sono mossi dal sistema capitalistico che mercifica la vita moderna. Finalità dello spettacolo sono quelle di escludere il senso critico, cancellare i ruoli attivi di chi osserva, eludere dialogo e interazione. In una società che si è nutrita per secoli di ideologie individualiste e sogni romantici per darsi senso avviene una nuova spersonalizzazione, quella del superfluo, quella della proiezione verso l’oggetto feticcio dei desideri, poi la delusione, infine l’apatia e la sterilità. Le vie di fuga sono la follia o un ideale utopico di Internazionale Situazionista che consenta a tutti di riappropriarsi della propria coscienza gettando le basi per una cultura dinamica mai ingabbiata in tassonomie e rigidismi.
Altro punto di scostamento che si affida al metalinguaggio cronenberghiano è la scena in cui James e Gabrielle stanno osservando con voluttà feticistica alcune lussuose automobili esposte presso un concessionario. Gabrielle rapporta la sua andatura distorta alla meccanica perfetta delle automobili e cerca di adattare la sua aerodinamica diversa agli spazi e alle linee standardizzate. Quello che risalta è una forzatura quasi disturbante. Gli attriti delle sue protesi che finiscono per lacerare la pelle immacolata della carrozzeria in una paradossale inversione tra uomo macchina, sensibile insensibile. Nello stesso tempo le movenze di Gabrielle catturano l’attenzione di uno dei commessi dell’autosalone che ne rimane rapito e affascinato fino a spingersi a compiere la forzatura/adattamento tra il corpo di Gabrielle e il corpo dell’automobile. La denuncia che appare evidente nelle lungimiranti anticipazioni di Cronenberg e Ballard è contro il potere capitalistico che veicola la comunicazione visiva. Si è ancora ancorati a una visione post esistenzialista che cerca di difendere l’umanesimo e l’unicità di ciascuno provando a forzare l’immaginario su un catastrofismo ineluttabile, dovuto alla metamorfosi antropologica e sociologica della società. Allo stesso tempo però, attraverso la provocazione e l’esasperazione i due autori sono già in grado di anticipare possibili reazioni per non essere permeati/assorbiti dal nuovo corpo massmediatico dilagante. I personaggi di Vaughan, nel romanzo di Ballard, così come Max Renn, nel film Videodrome, sono baluardi di resistenza estrema che si immoleranno in una morte catartica, in una sorta di disperata rivendicazione della loro unicità/follia. I paesaggi alieni, le noosfere cibernetiche sono i luoghi angusti e claustrofobici in cui può essere condotto lo spettatore sprovveduto attraverso il potere e la forza delle immagini.
Alcuni filosofi e antropologi contemporanei come Mario Perniola in Sex Appeal dell’inorganico e Contro la Comunicazione o Massimo Canevacci in Antropologia della comunicazione visuale, teorizzano l’implosione globale del fenomeno di degenerazione in atto. Il potere digitale è destinato a prendere il sopravvento sulle vecchie categorie dicotomiche del potere stesso. La comunicazione non è più solo un’insidia che può farsi risalire alla dialettica ormai superata teorizzata da Theodor W. Adorno che vedeva, per forza di logica e in ragione di una pretesa morale dell’ordine dato delle cose, una contrapposizione tra aura e riproducibilità. Adesso si può e si deve accettare la sfida del mutamento partendo dall’assunto che questo non precluderà il rimanere se stessi di ciascuno. Con le nuove tecnologie l’individuo diventa ubiquo e va oltre le categorie spazio/tempo. Attraverso la nuova comunicazione visuale si supera il concetto familiare/straniero, soggetto/oggetto anche se il nostro senso comune, che ha sempre ragionato attraverso categorie e paradigmi ben definiti, fatica a superare il dualismo materiale/immateriale. I fantasmi e le ossessioni feticistiche denotano l’incapacità di saper attraversare la nuova sfida avanzata dalla nuova era. Non è la comunicazione che scalza la società ma sono questi due stessi concetti che si evolvono. Non esiste più un concetto di massa né un concetto di medium capace di mediare tra industria culturale e pubblico socialmente compatto. L’etnografia del digitale è la vera rivoluzione globale e, la risposta vincente che le nuove tecnologie ci consentono, è quella di aprire nuovi scenari all’auto-determinazione. Sta quindi nella capacità di ciascuno scegliere il modo in cui ritagliarsi nuovi ruoli nella nuova configurazione di classi sociali, nella divisione che determina chi comunica e chi è comunicato. L’autorappresentazione consente a ciascun soggetto collocato in qualsivoglia parte del globo di sviluppare e mettere a punto la “propria” narrativa. Questo meccanismo finisce per mettere in mano a tutti il potere di mettere in discussione il vecchio potere di chi produce e vuole inquadrare l’altro, la vecchia dittatura delle immagini paventate da Ballard e Cronenberg.
Le distopie configurate in Crash sono rimasugli dell’apocalisse post esistenziale. Un’ibridazione dell’immaginario sempre più permeante, la frantumazione delle categorie, le nevrosi e le vertigini di una resistenza ancorata a forme latenti di dittatura culturale, gli ultimi feticci e gli ultimi bastioni di chi vuole imporre non capendo più che la morte delle categorie ha finito per cancellare la differenza tra narrante/pensante, attore/spettatore. Ballard cerca di destabilizzare e sabotare, attraverso la sua logica non sequenziale, chi è prigioniero di cliché interpretativi. Per capire e vedere attraverso bisogna in qualche modo riappropriarsi della creatività, abbattere la convenzione legata dietro a ciascun linguaggio. Il protagonista di Crash, Vaughan, lo fa mettendo a punto la sua collisione finale. I figli della contemporaneità possono farlo cercando di dominare il fenomeno e le potenzialità della reificazione visuale eliminandone i fantasmi, i feticci metodologici ed erigendo nuovi simulacri capaci di decentrare le soggettività e sbriciolare la compattezza dei punti di vista monologici.
Nella sua postfazione Ballard sostiene che Crash vuole essere un monito. I prodromi di un possibile ribaltamento delle pastoie ideologiche si ravvisano nel finale sia del libro che del film: due finali aperti, anche se in due modi diversi. Nel libro tramite l’effusione del seme di Vaughan che si propaga “alle plance e alle griglie dei radiatori di mille auto in fase di schianto, alle posture crurali d’un milione di passeggeri”, quasi a rompere le linee di omologazione e segnare una possibile inversione di rotta. Nel film è l’eloquenza della scena finale, il ritrovarsi dei due protagonisti che finalmente stabiliscono una comunicazione corporale in mezzo a uno scenario indecifrabile fatto di simboli e cripticismi che per la prima volta si discostano, diventano contorno di un’esteriorità che i due protagonisti ridisegnano e adattano se stessi.
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