Sono poche le anime
di un libro, se di anime si può parlare, che sopravvivono
allo spietato gioco di allontanamenti e lotte messo in atto
dall’interpretazione. Sull’altare
dell’adattamento avviene il sacrificio
dell’illimitato: l’immaginazione incontra i
margini, si scontra contro di essi, li riempie. Ciò che
poteva avere mille forme ne ha da scegliere poche, restituendo solo una
delle infinite possibili visioni.
Avviene ancora oggi, migliaia di volte, che si aggiungono a quelle passate, ciò che nel 1980, per mano del regista Stanley Kubrick, valse una trasposizione filmica a Shining (1977), secondo, celeberrimo romanzo di Stephen King: un caso piuttosto unico, e non per niente noto, di dichiarata incomprensione fra due autori, attenti a prendere le distanze l’uno dall’altro ancora prima che il ciak si chiudesse sulla scena (e, soprattutto, dopo).
Perché King, mai come in tale occasione, fu più pubblico che scrittore, quasi anticipando la reazione di una platea inferocita davanti al tradimento figurato della pagina stampata, qualcosa a cui si assiste tutt’oggi quando ci si imbatte nei commenti dei detrattori della Torre Nera cinematografica, ad esempio. E tuttavia aveva le sue ragioni, in parte suscitate dall’atteggiamento dichiaratamente ostile del regista statunitense, che ammetteva con candore di non considerare Shining “un’opera letteraria seria” (Moscati, 2014) e di servirsene soltanto per enucleare un intrigo ben costruito, in parte fondate sul suo personalissimo modo di intendere e valutare l’operato dell’industria del cinema.
Sul binario di una doppia disapprovazione, dunque, va a verificarsi quella “collisione di miti” (Ascione, 1996) che mette a confronto due grandi (e diversissime) personalità autoriali, amplificandone la popolarità in direzioni che, forse, restano sconosciute agli autori stessi. Lo Shining in pellicola, a soli sei anni dall’esordio dello scrittore che ne ha immaginato la storia, traina lo Shining libro con modalità inconsce, consolidando la sua posizione nell’industria culturale entro la cangiante cornice del genere.
E, d’altro canto, il ben costruito intrigo è lo stesso, sia sullo schermo che sulla carta: la storia di Jack Torrance, uomo affetto da una crisi profonda, che nell’ambito di una “seconda possibilità” concessagli dalla famiglia accetta l’impiego di guardiano invernale dell’Overlook Hotel, imponente struttura alberghiera annidata fra le montagne del Colorado, e vi si isola, in compagnia della moglie Wendy e del figlioletto Danny, fino ad impazzire.
Ma, come si diceva, interpretare e adattare significa combattere per scegliere, sacrificare per selezionare; e molte delle cosiddette anime del romanzo kinghiano, nel passaggio dal mondo dell’autore a quello dell’interprete, sono rimaste sulla sponda opposta del fiume, o, per dirla con semplicità, dentro la copertina.
Più precisamente, a Kubrick interessava ridurre all’osso il già citato intrigo/intreccio, lasciando intatto giusto l’apparato iconico del romanzo, le suggestioni di superficie; i segni riconoscibili, per l’appunto, tratti dall’apparato del genere.
Perciò i nomi e i ruoli dei personaggi sono stati rispettati, i dialoghi rielaborati, là dove non riprodotti fedelmente, gli ambienti rappresentati nei limiti di quanto descritto o suggerito dal racconto; soprattutto, è evidente la preoccupazione di restituire parte dell’orrore latente, di quella memoria o sensazione di morte nascosta dietro ogni angolo dell’albergo, per uno scopo, sì, diverso, di cui si dirà più avanti, che nel libro assume forme palesemente inquietanti, disgustose, mostruose.
“C’era qualcosa dietro la tenda di plastica rosa della doccia. C’era qualcosa nella vasca. […] Una donna morta da tempo e distesa nell’acqua del bagno, una saponetta Lowila in una mano irrigidita, mentre attendeva paziente che arrivasse il suo amante”.
Dentro la stanza 217 (237 nel film), in compagnia della donna della vasca, King e Kubrick si incontrano: è un attimo, un urto elettrico, una labile condivisione; eppure, è la dimensione necessaria, seppur non sufficiente, a creare un territorio veramente comune, oltre che una cifra di condivisa riconoscibilità, per i due autori.
Perché la donna della stanza non è che uno dei tanti, orrendi burattini manovrati dal King “puparo”; rientra tra i frutti della sua concezione dell’Orrore, tra i sembianti che la sua vena creativa ha pensato di assegnargli. E quando Kubrick decide di abbracciarne la rappresentazione, per un istante l’intrigo supera se stesso, cessando di essere il centro esclusivo dell’adattamento. Così, all’interno di quest’ultimo, si risveglia anche l’anima di Shining più intimamente “kinghiana”, quella legata ai “meccanismi della paura” (Ascione, 1996) su cui lo scrittore di bestseller ha costruito la propria sconfinata fama.
In parallelo, il regista s’impegna a rileggere anche un altro tema: quello, fondante, della “luccicanza”. Il dono di guardare all’interno e al di là delle cose, che nella visione di King è prerogativa dei bambini, viene qui ripulito da qualsiasi residuo del lirismo con cui lo scrittore suole caratterizzare la figura infantile, non solo di Danny, basti pensare ai giovani protagonisti di It (1986), sua nota epopea: nello Shining kubrickiano, il potere del ragazzino è inspiegabile e resta inspiegato, non lascia né apre tracce al di fuori della cornice narrativa, ma si limita a innescare motivi e situazioni necessarie al suo riempimento; in poche parole, nasce e muore con il film, senza creare possibili collegamenti inter-testuali o suscitare ipotetiche riflessioni spirituali.
Questa freddezza che ammanta l’estrema e razionalissima sintesi di Kubrick, su cui peraltro l’autore letterario di Shining si è basato per sferrare uno dei tanti attacchi nei confronti del regista, di certo non riduce, come poc’anzi si diceva, la carica di angoscia posseduta dal testo, sia di partenza (narrativo) che di arrivo (filmico). Piuttosto, ciò che crea distanza fra le due versioni è la motivazione a monte, il senso dell’impianto: se da un lato, infatti, c’è un protagonista con un passato da scontare e la netta paura di ricadere nel vizio che lo ha causato, dall’altro il Jack Torrance del film, e a sottolinearlo, stavolta giustamente, è King in persona, al momento del colloquio che lo trasformerà nel custode dell’Overlook Hotel ha già passato l’orlo del baratro; la sua follia non è destinata a essere risvegliata da assurde e ripetute sollecitazioni esterne, perché in verità già dorme (o finge di dormire) sul fondo degli occhi dell’interprete di Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975).
Anche la scelta dell’attore Jack Nicholson per il ruolo di Jack Torrance, dunque, infastidisce Stephen King, che in tal modo vede privato il suo racconto dell’elemento strutturale, secondo lui imprescindibile, della gradualità: se Shining intende essere la rappresentazione di una lenta discesa negli abissi della disperazione umana, narrarla mettendo al suo centro una persona già folle e disperata in partenza equivale a farne implodere il senso, a cambiarlo, perfino ad annullarlo.
Eppure l’Overlook di Kubrick riesce egualmente a togliere il respiro: perché? L’analisi di Enrico Ghezzi ci aiuta in parte a trovare la risposta, individuando nell’enigma, anziché nel graduale disfacimento dell’essere umano, il reale fulcro della narrazione kubrickiana, la vera misura della sua interpretazione e, di conseguenza, della distanza dal romanzo di King.
Dominano il film di Kubrick un’ottica e un’estetica profondamente votate al dualismo: dualismo psicologico, dualismo relazionale, dualismo ontologico. Si parte dall’interiorità di Torrance per estendersi ai rapporti fra gli attanti della messinscena, sviluppati sulla base di vere e proprie corrispondenze biunivoche: la relazione Danny/madre, quella Danny/padre, Danny/Dick il cuoco, Jack con la moglie, e anche l’hotel Overlook rispetto a tutti i personaggi, in quanto luogo personificato e schiacciante allegoria di un Male che attecchisce nella mente. Ma il dualismo non è limitato a questi campi: il suo scheletrico propagarsi arriva a lambire prima e inglobare poi i concetti di Spazio e di Tempo, biforcandosi e diramandosi fino ad assumere un’inquietante apparenza di frammentazione, rafforzata dalla strutturazione in sezioni temporali della pellicola, che riconduce a una sostanziale ciclicità; per l’appunto, a un “cerchio enigmatico”. “In ogni immagine del film si incrociano (come appunto avviene fisicamente in ogni punto dello spazio) mille infinite immagini-puzzle. Ovvero, il puzzle viene dichiarato impossibile poiché esistono il tempo e il cinema – che apre nello spazio la possibilità di innumerevoli sguardi. Shining irride apertamente alla possibilità di comporre e chiudere il puzzle: i buchi restano sempre aperti, assolutamente non curanti della precisione diegetica con cui si svolge il modesto libro di Stephen King da cui è tratto il soggetto. Kubrick sembra infine suggerire che la ricerca del senso è vana; […] se si dà un senso in Shining, è solo nella figura stessa dell’enigma, e nel modo in cui si pone” (Ghezzi, 2007).
Fra queste simmetrie di non-significato, che dal contenuto narrativo del lungometraggio rimbalzano armonicamente sulle sue inquadrature per dar luogo a un organismo conchiuso e autosufficiente, non v’è spazio per il sistema di connessioni intime e viscerali attuato da King nel romanzo. Come evidenziato dallo stesso scrittore, il regista “ha avuto grandi difficoltà nel concepire, anche accademicamente, un mondo sovrannaturale. […] Perciò il film non ha centro e non ha cuore, nonostante le brillanti, vigorose angolazioni della cinepresa e l’uso sorprendente della steadycam” (Moscati, 2014). L’enigmatica e gelida ciclicità teorizzata e apprezzata da Ghezzi assume dunque per King un senso di segno diametralmente opposto: costituisce la ragione a monte del (supposto) fallimento dell’operazione di rilettura cinematografica effettuata da Kubrick.
E questo, andando oltre i giudizi di carattere meramente estetico, esprime un dato che chiunque abbia letto il libro di Shining si ritroverà a confermare: qualsiasi forma di paranormalità, al pari dell’aura di cui il piccolo Danny e, in misura minore, l’amico e cuoco dell’hotel Dick Hallorann sono dotati, risulta privata del suo oscuro background come una sagoma di legno contro uno sfondo bianco. Ancora una volta è la spiegazione a mancare, e l’enigma a vincere: vediamo i fantasmi, conosciamo la storia delle loro vite passate, però ignoriamo cosa e quale causa li abbia destinati a quell’inferno; sappiamo soltanto che c’è un hotel, sperduto fra i monti del Colorado, che d’inverno viene ingoiato dalla neve e costringe chi vi alloggia ad immergersi in un turbine di memoria e folle isolamento. Il cimitero indiano di cui condivide il terreno, le entità rimaste a riposare al di sotto delle sue fondamenta e che ronzano fra le siepi del giardino o attraverso i tubi di estintori prodigiosamente animati, sono nient’altro che un pallido ricordo, tagliato via dall’accetta di Torrance in quell’ormai palese citazione de Il carretto fantasma (1921) di Victor Sjöström che da tempo abita la dimensione del cult.
Si ha quindi la sensazione che Kubrick abbia voluto estrapolare dall’immaginario di genere esclusivamente le proiezioni che la mente avrebbe potuto di fatto concepire nel corso di un’escalation di alienazione, rabbia e istinto omicida. Nessuna maledizione al di là del Male stesso, nessun altrove orrorifico, nessuna porta pronta a spalancarsi e vomitare mostruosità nate da una voragine spazio-dimensionale: l’enigma rappresentato, e il labirinto che ne va a fondare l’angosciante metafora conclusiva, corrisponde al mistero di un pensiero umano aggrovigliato su se stesso, di un’interiorità già corrotta che condivide con il suo corrispettivo cartaceo unicamente l’intenzione di distruggere e autodistruggersi in via definitiva, intravedendo in altri corpi simili al suo, e non in oggetti animati o insetti parlanti, il bocciolo del seme della follia.
“I cinque comignoli dell’Overlook eruttarono colonne di fuoco verso il cielo sparso di nubi. […] Urlò, ma ormai non aveva più voce e urlava di panico e condanna e dannazione solo nel suo orecchio, dissolvendosi, perdendo pensiero e volontà, e il tessuto connettivo si sbriciolava, cercava, non trovava, sbiadiva, si disfaceva, spariva, svaniva, nel vuoto, nel nulla, sbriciolandosi. La festa era finita”.
Così si dissolve Jack fra le pagine della sua storia, mentre la festa continua sul grande schermo, si imprime su carta fotografica, lascia intendere che il “cerchio dell’enigma” ha avviato un loop di orrore del quale l’ultimo guardiano dell’Overlook è entrato, quasi felicemente, a far parte.
All’esplosione infuocata e al coacervo di emozioni messe in scena da Stephen King, Kubrick contrappone letteralmente il ghiaccio: prendendo a prestito il titolo italiano di un famoso blockbuster, lo slancio autodistruttivo di Jack diventa trappola di cristallo che non ucciderà più nient’altro al di fuori di lui. L’albergo non esplode sotto i colpi della ribellione dei suoi spiriti, è Jack Torrance l’unico, e chissà se ultimo, sacrificio utile. Lui, che nel libro temeva il disastro, nel film lo ha desiderato o, almeno, condiviso con i propri fantasmi, “propri” nel senso di “personali”, senza implorare se stesso e Mr. Grady, il vecchio guardiano assassino dell’hotel, di non commettere l’irreparabile.
E adesso, sullo schermo, aleggia anche lo spettro di quella tragedia familiare imbevuta in egual misura di realismo e magia nera: un fantasma quasi identico e al contempo diverso, come quei casi di omozigosi dove, a ben guardare, i punti in comune sono meno di quanti sembrano. Eppure, ancora, quella che Ghezzi ha definito “interpretazione delle interpretazioni, discorso dell’interpretazione […] impresa folle e meravigliosa, impossibile” (ibidem), malgrado la sostanziale infedeltà alla sua fonte di ispirazione e, d’altro lato e per certi versi, proprio in virtù della medesima, reca il merito di aver messo in comunicazione due mondi all’apparenza contrapposti, una gelida ma “divina” cattedrale e il suo infiammato postribolo gemello, attraverso un corridoio invisibile e precario. Dove, per il fatto stesso di aver osato riscriverle, riecheggiano ancora le parole dell’uno e dell’altro mondo, nell’improbabile, illusoria ed estemporanea fusione di due culture d’opposta provenienza.
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