* La Divina Commedia e
il progressive rock incrociarono i loro destini quarant’anni
fa a Roma. “A mio avviso c’è un momento
preciso in cui il mondo del rock e il Sommo Poeta si sono incontrati
– testimonia Daniele Nuti – e lo hanno fatto nel
1971, in via Margutta a Roma. In quell’occasione epocale, il
rock scelse le sembianze di un giovane di ventidue anni circa, biondo,
barba e capelli lunghi. Un ragazzo di nome Joe Vescovi, tastierista
virtuoso del gruppo The Trip, che si trovava lì per cercare
l’immagine giusta per la copertina dell’album del
gruppo che si sarebbe intitolato... Caronte, come
il nocchiero infernale dagli occhi infuocati” (Galvagni,
2012). The Trip è il gruppo fondato a Londra nel 1966 da
Ricki Maiocchi, già membro dei Camaleonti (en passant,
ricordiamo che nei The Trip militò un giovanissimo Ritchie
Blackmore, futuro chitarrista dei Deep Purple).
Caronte
(1971) riporta in copertina l’incisione di Gustave
Doré, legata ai versi 82-84 del canto III
dell’Inferno: “Ed ecco verso noi venir per nave /
un vecchio, bianco per antico pelo, / gridando: «Guai a voi,
anime prave!»”. La cover dell’album,
riprodotta in un’apposita appendice del libro dove si possono
vedere fra le più belle sleeves dedicate
a La Divina Commedia, merita una descrizione: cielo
di colore giallo che sfuma sul verde-azzurro verso l’alto; la
figura imponente e minacciosa di Caronte domina la scena: indossa solo
un drappo succinto che gli copre l’inguine e riproduce i
colori della bandiera britannica. In basso, a sinistra, in una sorta di
cammeo, è ritratta la band in abbigliamento hippie. Il retro
della copertina riporta l’incisione di Doré legata
ai versi 109-111, sempre del III canto: “Caron dimonio, con
occhi di bragia, / loro accennando, tutti li raccoglie; / batte col
remo qualunque s’adagia”. Questa volta
l’Union Jack sventola sul remo di Caronte. Al centro della
barca, sulla quale si accalcano i dannati da traghettare al di
là dell’Acheronte, una donna indossa un bikini
arancione: uno dei peccatori imbarcati, ritratto di spalle, tiene in
alto un cartello bianco con la scritta “The Trip”.
In basso a sinistra si sovrappongono all’incisione rami e
foglie verdi. Nell’angolo opposto, in alto a destra, contro
il cielo giallo, che sovrasta paurosi profili di montagne, un
aeroplano: forse una citazione di Zabriskie Point
di Michelangelo Antonioni (1970), uscito pochi mesi prima nelle sale
cinematografiche.
Il primo brano è Caronte
I, strumentale, della durata di sette minuti, un mix tra prog
e rock, con una delle più originali intro di organo mai
incise, e ampio spazio dato alla voce della chitarra elettrica.
L’album è chiuso da Caronte II,
epilogo breve (circa quattro minuti), ma denso di suggestione e,
strumentalmente parlando, più organ-led
rispetto alla prima traccia.
Caronte
dei The Trip non è un esempio isolato. Il rock italiano dei
primi anni Settanta è disponibile al corteggiamento con la
letteratura e la filosofia fino al connubio più intimo e
intellettualmente fecondo che porta dall’anticamera, a volte
civettuola, del citazionismo, al ben più impegnativo ma
appagante talamo degli album concept e/o narrativo-poematici. Uno dei
migliori esempi di questa felice ibridazione tra rock e letteratura
è Inferno (1973) dei Metamorfosi, gruppo
romano di cinque elementi, nato nel 1970. In questo disco le cupe
atmosfere musicali si fondono alla “solenne voce
operistica” (la definizione è di Augusto Croce)
del cantante Jimmy Spitaleri, con i testi del poema dantesco
rielaborati per adattarsi alla realtà contemporanea, fino a
includere figure moderne come politicanti, razzisti e spacciatori. Un
assaggio di Inferno dei Metamorfosi si
può gustare ascoltando il primo brano (Introduzione,
Selva Oscura) del cd allegato al libro di Galvagni.
Gli altri nove brani provengono, invece, da quello che si
può definire il più ambizioso dei progetti di
rilettura musicale in chiave “progressive” della
Divina Commedia, il finlandese Colossus Project,
fondato dal romano Marco Bernard (direttore della rivista Colossus),
che, trasferitosi nel paese dei laghi nel 1987, ha promosso alcune
rilevanti iniziative discografiche in collaborazione con
l’etichetta francese Musea. Fra le quali, appunto, la
monumentale rilettura della Divina Commedia: Inferno
(2008), Purgatorio (2009) e Paradiso
(2010), dodici cd (quattro per ogni cantica) in cui 61 band (un terzo
delle quali italiane) provenienti da tredici paesi, si confrontano con
il testo della Divina Commedia: un canto, un
personaggio, una situazione. “La varietà delle
proposte, che è poi uno dei pregi dell’operazione,
fa sì che, accanto ai canti e ai personaggi più
noti (che spesso sono anche quelli storicamente più
frequentati) si incontrino anche quelli che il grande pubblico
solitamente ignora…
Così, per esempio, accanto alle citazioni più note (cd 1 brano 1: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate, canto III, 9; cd 1 brano 4: Fuor de la queta, nell’aura che trema, canto IV, 150; cd 1 brano 5: come corpo morto cade, canto V, 142, e così via) troviamo passaggi meno noti, quali l’epitaffio di papa Anastasio (cd 2, brano1):
Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin per la via dritta
(Alighieri, 1993, Inf. XI, 8-9)
o canti quali il XVI (Garamond, cd 2, traccia 6) o il XXI (Ozone Player, cd 3 traccia 2) e gli esempi potrebbero continuare”.
La formazione fiorentina dei Nuova Era, fondata dal tastierista Walter Pini, accanto a Davide Guidoni (batteria) e Guglielmo Mariotti (basso), apre l’opera con Lasciate ogni speranza voi ch’entrate: “Complessivamente si tratta di un’ottima apertura di album: un brano perfettamente progressive, sinfonico e aggressivo nel contempo” (Galvagni, 2012), chiuso da un originale assolo del sax di Alessandro Papotto. Non si deve infatti credere che Colossus Project sia un monolitico trionfo del progressive rock, con le sue peculiarità strumentali, in primis il protagonismo delle tastiere (pianoforte, organo, mellotron, moog). Anzi, domina l’eterogeneità di stili dovuta non solo alla varietà geografica delle band chiamate a partecipare, ma anche alla libertà interpretativa lasciata al singolo gruppo, fermo restando il rispetto filologico-tematico per il testo. Per esempio, un’atmosfera latina permea il brano A li occhi belli (ispirato al verso 154 del canto XXII del Paradiso: Poscia rivolsi li occhi alli occhi belli) degli argentini Jinetes Negros che cantano gli stessi versi di Dante: il testo riprende letteralmente le prime sei terzine del canto XXII, ne cita poi i versi 112-114 (“O glorïose stelle, o lume pregno / di gran virtù, dal quale io riconosco / tutto, qual che si sia, il mio ingegno”) e riprende poi la sequenza 124-132 (che inizia con “Tu se’ sì presso all’ultima salute”, cioè, dice Beatrice a Dante, tu sei così vicino a Dio) e il segmento finale del canto XXII (versi 145-154), che include la famosa metafora de “l’aiuola che ci fa tanto feroci”, ossia il nostro misero mondo terreno, misero soprattutto se contemplato da una posizione così elevata, quale quella in cui si trovava Dante nel passaggio dal settimo cielo (Saturno) al cielo delle stelle fisse:
“L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli alle foci.
Poscia rivolsi li occhi alli occhi belli”
(Paradiso, XXII, 151-154).
Ma torniamo ai primi anni Settanta. Se la copertina di Caronte
è inequivocabilmente dantesca, con quel gusto della
contaminazione che ricorda il kitsch più originale (il
nocchiero infernale che indossa a mo’ di perizoma la bandiera
della Gran Bretagna), ben più sobria, addirittura
minimalista, è quella di Ut, il quarto
album dei New Trolls, pubblicato nel 1972. La cover è
dominata dal nome della band, stampato a sinistra in verticale, e dal
titolo, il monosillabo Ut, denso di significati
(fra l’altro, con “ut” Guido
d’Arezzo denominò nel secolo XI il primo grado
dell’esacordo, equivalente al futuro do)
che campeggia su fondo bianco, ed è separato dal
nome del gruppo musicale da due bande verticali, una più
stretta di colore rosso scuro, l’altra nera. Sul retro della
copertina si vedono le foto numerate dei componenti del gruppo,
“appese” all’immagine di una
fortificazione che simboleggia la lingua italiana;
nell’angolo, in alto a destra, è riportata una
citazione dal Convivio (1° trattato, cap.
XI, parr. 1-2) di Dante: “A perpetuale infamia e depressione
de li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare
altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da
cinque abominevoli cagioni. La prima è cechitade di
discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza,
cupidità di vanagloria; la quarta, argomento
d’invidia; la quinta e ultima, viltà
d’animo, cioè pusillanimità”
(Alighieri, 1921).
Dante fece una scelta di rottura: scrivere
in lingua “volgare” (ossia lingua madre o
materna), un’opera, il Convivio, che, per
la sua natura di trattazione filosofica, di piccola summa del sapere,
avrebbe richiesto, secondo gli intellettuali del tempo, il ben
più illustre e nobile latino. Il passaggio citato dai New
Trolls in cui Dante difende il volgare come strumento linguistico ed
espressivo non meno nobile ed efficace del latino o di altri volgari
stranieri, assume nell’intenzione del gruppo una nuova
valenza apologetica, questa volta in chiave più
squisitamente musicale: per rivendicare
un’identità nazionale al rock italiano,
considerato, a torto, meno nobile od originale rispetto a quello
anglo-americano. “E quella dei New Trolls fu una
rivendicazione a pieno diritto: se fino ad allora, nel corso degli anni
Sessanta, il beat aveva goduto del suo momento di gloria brillando di
luce riflessa e riproponendo perlopiù in versione nostrana
le cover dei complessi anglosassoni, in quel momento finalmente era
nato un movimento che, pur traendo ispirazione da quanto accadeva
Oltremanica, sapeva produrre qualcosa di nuovo e di autenticamente
nazionale; e soprattutto ne aveva coscienza” (Galvagni, 2012).
Insomma,
attraverso la citazione dantesca, i New Trolls sembrano voler dire:
“è tempo di ricercare una via italiana al rock,
alla faccia dei detrattori e degli esterofili di ogni specie”
(ibidem).
In Ut si
può ascoltare anche un brano dedicato a Paolo e Francesca,
protagonisti del quinto canto dell’Inferno. I due amanti
romagnoli ritornano, a distanza di pochi anni, in Compagno di
scuola di Antonello Venditti, il cui Dante resta una delle
versioni pop più rinomate nella canzone italiana:
“E la Divina Commedia, sempre più commedia,
al punto che ancora oggi io non so
se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito.
Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene
perché, ditemi, chi non si è mai innamorato
di quella del primo banco,
la più carina, la più cretina”
(Venditti, 1975).
“Qui si vola decisamente più basso: si
tratta, come si vede, di una citazione coscientemente
giovanilista e un po’ scontata” (Galvagni, 2012). I
versi di Venditti sono scontati in apparenza: rispecchiano, in
realtà, quello che è, forse ancora oggi, il
vissuto prevalente di Dante nel mondo studentesco. E nel dubbio del
cantautore romano (Dante fu un uomo libero, un fallito o un servo di
partito?) si può avvertire una sottile critica
all’insegnamento e alla lettura tradizionale di Dante nelle
scuole, ponendo indirettamente una domanda per nulla oziosa, che allude
all’esigenza di inquadrare con più chiarezza e
senza retorica il percorso biografico e intellettuale
dell’Alighieri.
Il Dante vendittiano
rimane, nell’ambito della canzone d’autore italiana
(se non vogliamo includere la rockwoman Gianna Nannini che ha
liberamente interpretato la figura di Pia dei Tolomei, la sfortunata
donna che compare alla fine del quinto canto del Purgatorio),
l’esempio più memorizzato di citazione dalla Divina
Commedia, soprattutto in un pubblico over 40. Ai
più giovani verrà, invece, in mente la citazione
jovanottiana, in Serenata Rap (1994), di
“amor ch’a nullo amato amar perdona”
rafforzata da un energico “porco cane”, che il
cantante dichiara di voler scrivere sui muri e sulle metropolitane. Qui
siamo decisamente nel campo del citazionismo disinvolto e scanzonato,
agli antipodi della serietà e
dell’originalità con cui i musicisti di un certo
heavy metal hanno affrontato monograficamente Dante: uno dei migliori
esempi è quello dei Sepultura, un gruppo che, ironia della
sorte, viene dal Brasile (e con loro una pletora di gruppi metal, con
gli Angra in testa), il paese della bossa nova e del samba, di
atmosfere musicali agli antipodi del metallo duro. I testi del
chitarrista Andrea Kisser sono molto vicini al dettato e allo
spirito di Dante; eccone un esempio (Dark Wood of Error,
ovvero la cupa selva dell’errore), molto bello, ispirato al
canto primo dell’Inferno:
“I’ve lost my way
in a dark wood of error
in a crisis inside deep terror.
With fear in my mind I spot a light”
(Sepultura, 2006).
Per le sue immagini ora cupe, ora estreme, ora violente e disperate, per la sua atmosfera irrimediabilmente avvolta dal buio e dal dolore, l’Inferno è la cantica prediletta dai musicisti che gravitano nell’ambito del metallo pesante nelle sue plurime declinazioni musicali ed estetiche che vanno dal dark gotico e satanico fino al death metal dei messicani Transmetal: la copertina del loro El Infierno de Dante (1993) riproduce in modo originale le immagini del canto XIII dell’Inferno, con i suicidi trasformati in piante e divorati dalle Arpie.
Dante non era musicista nel senso professionale del termine. Conosceva, però, la musica (e forse la praticava a livello strumentale), e i suoi rapporti tutt’altro che sporadici e superficiali con il mondo dei musicisti sono testimoniati, solo per limitarci all’esempio più famoso, dall’episodio di Casella, nel II canto del Purgatorio. L’incontro con il musicista e amico fiorentino dà origine a uno dei momenti più belli e liricamente toccanti del poema. Dante chiede a Casella di cantargli “Amor che ne la mente mi ragiona”, il primo verso della canzone dantesca commentata nel terzo trattato del Convivio:
“E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie voglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la mia persona
venendo qui, è affannata tanto!»
«Amor che ne la mente mi ragiona»
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi sona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
alle sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto»”
(Purgatorio, II, 106-123).
Dante e gli altri spiriti ascoltano rapiti la melodia di
Casella: il brusco intervento di Catone (il “veglio
onesto”) rompe l’incanto della musica, riportando
Dante alla realtà, alla dura necessità del
cammino da proseguire su per i ripiani della sacra Montagna.
Il
canto di Casella, come nota Galvagni, deve essere musica “che
prende”, la musica giusta, ma proprio per questo non adatta
all’impegno, alla ricerca della perfezione. Come ricorda
Vittorio Sermonti, in purgatorio non si va con il walkman:
“al purgatorio i penitenti arrivano cantando in coro il salmo
dell’esodo nell’eternità del futuro, e
cento altri cori canteranno su per la montagna, finché non
saranno assunti nel coro dei santi – così racconta
la favola della fede – e loro stessi saranno musica delle
stelle” (Sermonti, 2012).
Nel Purgatorio
dantesco la musica non può essere, come sembrerebbe
suggerire il brusco rappel à l'ordre di
Catone, pretesto e motivo di escapismo, di sogno, di fantasticheria. La
musica è sempre legata al canto e al testo biblico, per
richiamare il dovere in senso etico e spirituale.
È lo stesso tema che svilupperà Thomas Mann ne La montagna incantata, in particolare nel dialogo tra Hans Castorp, il protagonista del romanzo, e l’italiano Settembrini: il primo, rivendicando alla musica finalità e valori puramente estetici e contemplativi, la considera balsamo e sollievo dell’anima, veicolo di evasione dalla realtà; Settembrini sostiene, al contrario, il pericolo insito nella musica che non sia finalizzata all’impegno, al progresso, all’attività (“Io nutro un’avversione politica contro la musica”). Il parallelo Dante-Hans Castorp e Catone-Settembrini conferma l’attualità della Divina Commedia e l’importanza della musica ai versi 109-114 del canto XII del Purgatorio, come precisa lo stesso Dante:
“Noi volgendo ivi le nostre persone,
«Beati pauperes spiritu! » voci
cantaron sì, che nol dirìa sermone.
Ahi quanto son diverse quelle foci
dall’infernali! ché quivi per canti
s’entra, e là giù per lamenti feroci”.
(Purgatorio XII, 109-114).
“Lamenti feroci” e “canti”, le due cifre acustico-musicali che sintetizzano emblematicamente Inferno e Purgatorio. Nel Paradiso la musica si spoglia delle sue connotazioni terrene, risolvendosi in termini più astratti e trascendentali nell’armonia delle sfere celesti, come Dante ricorda nei versi 76-81 del I canto del Paradiso:
“Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo accesodella fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece mai tanto disteso”.
(Paradiso, I, 76-81).
L’amore di Dio che presiede i cieli (“amor che ’l ciel governi”) è come se regolasse (“temperi”) la diversa intensità dei suoni opportunamente distinti (“discerni”) di sfera in sfera, in una sorta di luminosissima sinfonia dei cieli, difficilmente trascrivibile in parole (“la novità del suono e ’l grande lume”), come altrettanto complesso, per non dire impossibile, esprimere verbalmente il passaggio a una condizione fisico/spirituale superiore a quella umana (“trasumanar significar per verba / non si porìa”). La Divina Commedia racchiude tutta la gamma sonora, dal rumore alla musica delle sfere celesti, la Kosmische Musik, per usare la fortunata e tanto discussa espressione coniata da Rolf-Ulrich Kaiser per definire il genere dei Tangerine Dream e di altre formazioni coeve, autori di una trilogia dedicata al divino poema.
La definizione
di musica cosmica venne coniata proprio in occasione
dell’uscita del secondo album, Alpha Centauri (1971),
in cui il loro profilo musicale prende corpo in sonorità
psichedeliche e trasognate che nell’immaginario collettivo
rimandano ai suoni dello spazio. The Dante Trilogy
è una delle produzioni più recenti, pubblicata
separatamente in tre album corrispondenti alle tre cantiche del Poema: Inferno
(2002), Purgatorio (2004), Paradiso
(2006). La musica dei Tangerine Dream fa anche da colonna sonora
all’edizione restaurata (2004) del film italiano Inferno
(1911), di Francesco Bertolini, Adolfo Padovan (registi) e Giuseppe De
Liguoro (collaboratore alla regia), prodotto dalla Milano Films, basato
su tutta la prima cantica del Poema, e riproposto in nuova edizione
dalla Cineteca di Bologna (2011), questa volta con musiche di Edison
Studio.
L’orbita dantesca però nel tempo
è diventata più ampia, coinvolgendo anche le
musiche del nuovo millennio. Si pensi agli spagnoli Hypersunday e la
loro techno elettronica nel disco Inferno (2014),
esplicitamente quello dantesco, mentre Inferno
(2007) di Professor Fate punta su un rock orchestrale
piuttosto marziale e c’è pure la disco piuttosto
groovy della Rice & Beans Orchestra nel disco Dante’s
Inferno (2006). Alighieri fa capolino anche
nell’indie rock dei Throwing Muses con Purgatory/Paradise
pubblicato nel 2013, ma le vertigini colgono inevitabilmente
l’ascoltatore alla prese con The Rap Translation
(2013) del rapper australiano Hugo, che per ora ha triturato le prime
sei cantiche dell’Inferno. L’album fa il paio con The
Inferno Rap, album del 2005 firmato da Eternal Kool Project.
C’è anche il rapper italiano Caparezza che in Argenti
vive, nell’album Museica (2014)
offre a Filippo Argenti, che Dante collocò tra gli iracondi
del V cerchio dell’Inferno (Canto VIII), la
possibilità di dire la sua, di rivalersi senza
peli sulla lingua. “Le tue terzine sono carta straccia,
le mie cinquine sulla tua faccia lasciano il segno” ruggisce
Caparezza, che nel luglio 2015 ha realizzato per il brano anche un
videoclip di fuoco, infernale naturalmente. Si torna al metal, o meglio
al gothic rock dei finlandesi Him che articolano Venus Doom
(2007) in nove brani come i gironi infernali e rimandano esplicitamente
all’Inferno dantesco nel brano Sleepwalking Past
Hope. Affascinante la ripresa cinese del testo dantesco:
The Divine Comedy nella versione di Ai Weiwei, artista
dissidente che coglie l’occasione anche per manifestare le
sue posizioni antigovernative con un mix di elettronica dark e rock
piuttosto metallico.
Passando dalla musica
elettronica e sperimentale al jazz, non si può non ricordare
il disco dei Risonanza Magnetica, Andante (2008).
Cinque dei nove brani che compongono l’album traggono spunto
dalla Divina Commedia, gli altri quattro da
altrettanti sonetti di Dante, fra i quali il celeberrimo Tanto
gentile e tanto onesta pare. I testi di Dante sono
“vestiti con raffinata leggerezza di una brillante ma pacata
atmosfera jazz”. La copertina ritrae Dante con il classico
lucco rosso (l’abito degli antichi fiorentini) alla guida di
una moto gran turismo stile Harley Davidson: sullo sfondo la vista
panoramica dell’odierna Firenze. Un ottimo mix di antico e
moderno, omaggio originale e per nulla irriverente. Infine, ci sono le
citazioni fugaci, appena un accenno, come fa Ligabue che infila nel bel
mezzo di Siamo chi siamo dall’album Mondovisione
(2014) questi versi: “nel mezzo del cammin di nostra vita /
mi ritrovai a non aver capito”. Altrettanto dicasi del
floydiano David Gilmour che per lanciare il suo nuovo album Rattle
That Lock (settembre 2015) confeziona un video per il brano
eponimo ricorrendo ad animazioni che pagano pegno alle illustrazioni di
Dorè per il poema dantesco. Forse Dante li avrebbe collocati
nell’ottavo cerchio dell’Inferno, dove si
incontrano “Adulatori e lusingatori”, ma
chissà.
ASCOLTI
LETTURE
VISIONI