Unica e inconfondibile, a partire dall'immagine che tradizionalmente lo identifica grazie al tipico e ormai familiare profilo, la figura di Dante Alighieri, del quale si celebra quest'anno il 750° dalla nascita (avvenuta tra il 14 maggio e il 13 giugno del 1265 a Firenze), rivela una grande complessità prismatica, se si considera tutta la ricchezza di spunti che offre allo studioso e al narratore la sua vicenda esistenziale e biografica, letteraria e autoriale. Qual è il ritratto ideale di Dante, ammesso che ve ne sia uno? Il Dante mistico e cerebrale innamorato di Beatrice nella Vita Nuova? Il Dante sognatore e stilnovista di "Guido i' vorrei che tu e Lapo ed io"? Il Dante combattente e impegnato nella vita politica di Firenze? Il Dante irriverente della tenzone con Forese? Il Dante idealista e profetico della Commedia, francescano, gioachimita e riformatore? Il Dante esiliato e profugo di lusso che scopre "come sa di sale /lo pane altrui e come è duro calle/lo scendere e 'l salir per l'altrui scale" (Par. XVII 58-60)? O magari il Dante nascostamente eretico e templare? Queste domande, ma altre potrebbero seguire, bastano ad accennarne la complessità.
Uomo e artista irregolare, nel senso di non
politically correct, capace però di mirabili sincretismi
nell'armonia dell'arte e della visione: poeta e prosatore filosofico (Convivio)
e scientifico (Quaestio de Aqua et Terra),
ragionatore e passionale, speculativo e contemplativo, spirito politico
e teologico, animo nobile e solitario ma attratto dal successo e da
tutto lo scibile e il linguaggio, anche quello umile e popolare. E
sappiamo quale cornucopia di spunti narrativi e di temi ispiranti sia
l'irregolarità per gli storyteller. La sua risiedeva anche e
soprattutto nella straordinaria ricchezza del linguaggio che abbraccia
tutta l'esperienza della vita, dall'umile dettaglio quotidiano alle
più ineffabili realtà celesti. Nel Cinquecento fu
escluso dal canone del bello scrivere da quel bacchettone del sapere
che fu il cardinal Pietro Bembo il quale nelle Prose della
volgar lingua (1525), pur ammettendo la grandezza poetica
dell'exul inmeritus, promuove a modello linguistico
e stilistico Francesco Petrarca per la poesia e Giovanni Boccaccio per
la prosa. Il Bembo paragona la Divina Commedia a un
“bello e spazioso campo di grano, che sia tutto di avene e di
logli e di erbe sterili e dannose mescolato” (Bembo,
1989).
Un irregolare, ma anche un uomo di rigore a
volte eccessivo (fu lui a esiliare, quand'era priore, il
“bianco” Guido Cavalcanti, suo amico), un uomo con
tanto di moglie e famiglia di cui, però, nelle sue opere
tace l'esistenza.
I suoi ideali mancati nella vita
terrena li proietta tutti nella poesia e nelle figure da lui create e
amate: per esempio, nel suo Virgilio ritrova quel rapporto che non
aveva avuto con i genitori, in ispecie con il padre, per cui Virgilio
non è solo guida nell'Inferno e nel Purgatorio, ma anche
padre e madre (e anche qualcos'altro, secondo letture freudiane
piuttosto tirate per i capelli).
In Beatrice, una
donna che tra l'altro era sposata a un ricco banchiere (e quindi
difficilmente corteggiabile e soprattutto inarrivabile), proietta,
sublima e purifica le sue frustrazioni di uomo maritato
nonché il suo spiccato interesse per lei, creando
un'immortale mitologia di donna angelo, anche se non disdegna di
cantare in versi la Pargoletta, la Montanina, o Gentucca (Purg. XXIV
43-45) che dovevano essere donne tutt'altro che immaginarie.
Ma Beatrice rimane parte essenziale del mito moderno e contemporaneo di Dante. Oltre che primo e massimo rappresentante del canone occidentale con William Shakespeare, il nostro è diventato nel corso del Novecento protagonista e testimonial di film, spot pubblicitari, trasmissioni radiofoniche, romanzi thriller e basati sul mistero (per esempio, Inferno di Dan Brown e La maschera di Dante di David Hewson), letture pubbliche e televisive, concerti, fumetti e animazioni, graphic novel. Una figura profondamente radicata nell’immaginario di massa, finanche consumistico, così come la sua opera maggiore, come testimoniano le linee di sneak, di T-Shirt, di giochi Lego, di carte per giochi di ruolo, stilografiche, carte di tarocchi e per giochi di ruolo. Inferno è anche la parola chiave che apre la mostra WOW, Dante che mito! al Wow Spazio Fumetto di Milano (12 settembre - 22 novembre 2015), dedicata alla figura di Dante nell'illustrazione e nel fumetto: la rassegna si snoda attraverso le principali tappe di una storia figurativa che tocca il suo picco con le illustrazioni di Gustave Doré, le più familiari ai lettori della Commedia anche perché le più pubblicate nelle edizioni del poema, per arrivare alle più recenti produzioni nel campo del fumetto, da La rovina in Commedia di Jacovitti per il giornale satirico Belzebù (1947), rilettura in chiave di satira politica e parodia sociale, a L’Inferno di Topolino disegnato da Angelo Bioletto (1949) e scritto in terzine incatenate (il metro della Commedia) reinventate con accuratezza da Guido Martina. Ecco un Virgilio-Pippo che entra in scena così:
“Alzai lo sguardo e, giuso dalla vetta
Vid’io calare in corsa ratta e folle
Un tal che pedalava in bicicletta”.
Gli faranno seguito nel 1985 L’Inferno di
Paperino e l’anno dopo la storia di Paperante
Alighieri, che cerca di sfuggire a fiamme e diavoli infernali portando
con sé il manoscritto de L’Anatrina
Commedia.
L’iniziativa milanese non
è la prima del genere. Ravenna ospitò nel 2004 la
mostra Nel Mezzo del Cammin di una Vignetta,
organizzata dal Centro Dantesco onlus dei Frati Minori di Ravenna, in
collaborazione con Cartoon Club, festival internazionale del cinema
d'animazione e del fumetto di Rimini, che era animata da analoghi
intenti.
Dante nella nona arte è storia non solo
italiana, anche se uno dei maggiori contributi è senza
dubbio la versione a strisce della Commedia di Marcello Toninelli, la
più completa mai realizzata. Pubblicata prima sulle pagine
di Off-Side nel 1969, e alla chiusura della
rivista, ripresa su Undercomics e in seguito su Il
Giornalino. In tempi più recenti (1994) Stefano
Santarelli (soggetto e sceneggiatura) e Rodolfo Torti (disegni) creano
per Bonelli Diavoli dell’Inferno episodio
n. 153 di Martyn Mystére, l’investigatore
dell’occulto, agganciandosi al filone esoterico dantesco. Il
fenomeno è però internazionale. È del
2010 il graphic novel di Seymour Chwast, Dante's Divine
Comedy: A Graphic Adaptation che si apre con un inquietante
interrogativo: “I, Dante, will tell you
the story of my trip to the after world… but will I come
back?’ (Chwast, 2010). Tutto disegnato a mano su carta
traslucida senza ausilio del computer. Tempo addietro, negli anni
Ottanta, prima di cimentarsi con Spider Man, Batman e i Simpson, il
canadese Ty Templeton opta per un taglio parodico con il suo Stig's
Inferno, (ora è disponibile free online, http://www.templetons.com/ty/stig/). Ancora più indietro nel
tempo (1971), troviamo la versione di Go Nagai (Mazinga Z per
intenderci) intitolata Mao Dante, incrocio
d’azzardo tra cultura manga e tradizione alla
Doré. Tornando nel nuovo millennio, dalla scena underground
statunitense, Gary Panter, intriso di genuina cultura punk, al punto di
essere incoronato “King of Punk Art”, pubblica Adventures
in Paradise (1988), Jimbo in Purgatory (2004),
Jimbo's Inferno (2006), narrando, a ritroso, cioè
dal Paradiso all’Inferno, bizzarre vicende
all’ombra di forti suggestioni dantesche del suo alter ego
Jimbo. Recentissimo è il raffinato e visionario Dante’s
Inferno (2012) di Hunt Emerson, ma annoverabile nei graphic
novel di ispirazione dantesca è anche Heck
(2013) di Zander Cannon, storia di una discesa agli Inferi.
Tutto
ciò per non dire dei fumetti per bambini, le versioni che
operano un mix di intrattenimento e didattica. Qui citeremo soltanto Il
viaggio di Dante. Un'avventura infernale di Virginia Jewiss,
rivolto ai bambini di età intorno ai cinque anni. Quanto
agli illustratori, di recente è da segnalare
l’imperdibile lavoro di due giovani artisti inglesi, Patrick
Waterhouse e Walter Hutton: L’inferno di Dante una
storia naturale, oltre trecento illustrazioni disegnate a
mano da Waterhouse e corredate dalle note di Hutton (per un ulteriore
approfondimento sulla relazione Dante/fumetto, si veda in questo numero
l’intervista a Luca Boschi, ndr).
Torniamo alla figura di Dante, inconfondibile a partire dall'abbigliamento e dai lineamenti somatici, come il volto e la sua espressione, divenuti cliché iconici: l'abito di panno rosso, il lucco, che lo copre interamente avvolgendogli il capo a mo' di moderno cappuccio, sormontato dall'immancabile corona di alloro che gli cinge le tempie e lascia in evidenza il volto, quasi sempre ritratto di profilo, scolpito nella pietra, improntato a serietà corrucciata e orgogliosa, sul quale spiccano il naso aquilino e il labbro inferiore un po' sporgente. Questa tipizzazione visuale della rappresentazione fisica di Dante deriva dai primi ritratti del XIV e XV secolo (ricordiamo quelli di Giotto e di Domenico di Michelino) a loro volta ispirati alla descrizione dell'aspetto di Dante tramandataci da Giovanni Boccaccio nei suoi scritti biografici sull'esule fiorentino (Trattatello e Vita di Dante). La maggior parte degli italiani conosce Boccaccio solo per il Decameron, ma fu anche un "Vittorio Sermonti" ante litteram: le sue conferenze fiorentine sulla Commedia (1374-75), cui dedicò un importante commento fermatosi ai primi diciassette canti dell'Inferno, costituiscono il primo esempio di lettura pubblica del poema dantesco. Ma ecco il ritratto di Dante fatto dal Boccaccio che vi aggiunge un breve racconto a testimonianza della fama, in questo caso un po' sinistra, dell'Alighieri:
“Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e poiché alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare grave e mansueto, di onestissimi panni sempre vestito in quello abito ch'era alla sua maturità convenevole, il suo volto fu lungo, e 'l naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e' capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno in Verona (essendo già divulgata per tutto la fama delle sue opere e massimamente quella parte della sua Commedia, la quale egli intitola Inferno, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne), che passando egli davanti a una porta dove più donne sedeano, una di quelle, pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse udita, disse all'altre donne: Vedete colui che va nell'Inferno, e torna quando gli piace, e quassù reca novelle di coloro che laggiù sono? Alla quale una dell'altre rispuose semplicemente: In verità tu dèi dir vero: non vedi tu com'egli ha la barba crespa, e 'l colore bruno per lo caldo e per lo fummo che è laggiù?".
(Boccaccio, 2013)
Questo Dante moro, occhi e incarnato scuri, barba e capelli crespi e neri ricorda più l'Otello che la sottile ed eterea figura delineata dal ritratto di Giotto, l'unico, tra l'altro, realizzato quando Dante era ancora in vita. Eppure il suo volto tipico, così come lo conosciamo dalle riproduzioni più diffuse (ivi incluse le due più famose "maschere di Dante" quella Kirkup a Palazzo Vecchio e la Torrigiani agli Uffizi, che deriverebbero da un presunto calco mortuario del poeta) non presenta tracce di barba: Dante l'aveva o no? Sembra che Boccaccio non alluda a un ornamento fisso, ma ai peli, che erano appunto neri e spessi come i capelli. Eppure nella Divina Commedia compare il termine “barba”:
“tal mi stav’io; ed ella disse: «Quando
per udir se’ dolente, alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando»
(…)
e quando per la barba il viso chiese [il soggetto è Beatrice]
ben conobbi il velen dell’argomento”
(Purg. XXXI, 67-69 e 74).
Anche in questo caso le spiegazioni della maggior parte dei
commentatori suonano come un'arrampicata sugli specchi:
“barba” sarebbe una metonimia per
“viso”, e dunque Beatrice si riferisce al volto e
perciò "alza la barba" equivarrebbe al nostro
“alza il mento” per significare solleva la testa.
Ma Boccaccio parla proprio di barba, perché questa parola
è ripetuta anche dalle donne veronesi nel commentare
l'incarnato scuro del volto e la chioma corvina del poeta, entrambi
anneriti dal fumo e dal caldo dell’Inferno.
Ė
un mistero anche questo, e non dei più importanti fra i non
pochi che aleggiano intorno alla figura e all’opera del
nostro, uno dei tanti che danno vita anche a un personaggio Dante sul
piano della fiction. L'illustrazione antica e tradizionale ci ha
tramandato un Dante glabro o ben rasato, forse influenzata da Giotto,
il cui ritratto fissa un Dante giovane, ai tempi della Vita
Nuova, prima dell'esilio; forse per evidenziare e
spiritualizzare i lineamenti del suo volto oblungo e scolpito. E noi
siamo abituati ormai a vederlo così nella galleria di
raffigurazioni che la tradizione ci ha consegnato, dai primi
miniaturisti (anche se qui a volte compare con la barba) per arrivare
agli artisti moderni e contemporanei, dai rinascimentali Sandro
Botticelli (1445-1510), Federico Zuccari (1542-1609), e Giovanni
Stradano (1523-1605), ai grandi interpreti ottocenteschi della Divina
Commedia, di diverse scuole (Dante attraeva tanto i
neoclassici come Ingres quanto i romantici alla Eugène
Delacroix), in primis lo svizzero Johann Heinrich Füssli
(1741-1825), gli inglesi John Flaxman (1755-1826) e William Blake
(1757-1827), il citato Delacroix (1798-1863), Gustave Doré
(1832-1883), il più famoso illustratore della Divina
Commedia, fino alle versioni di Francesco Scaramuzza
(1853-1886), Alberto Martini (1876-1954), Alberto Zardo (1876-1959),
Duilio Cambellotti (1876-1960), Amos Nattini (1892-1985), fino ai
disegnatori contemporanei come Lorenzo Mattotti, Milton Glaser e
Moebius che nel 2000 illustrano rispettivamente l'Inferno, il
Purgatorio e il Paradiso, solo per accennare a un elenco ben lungi
dalla completezza.
Senza considerare il
Dorè, che ritrae dinamicamente il poeta con Virgilio e
Beatrice nell'intero viaggio ultraterreno, i più famosi
volti di Dante rimangono quelli di Luca Signorelli (1445-1523), di
Domenico di Michelino (1417-1491), di Sandro Botticelli e di
Raffaello.
Con il ritratto di Dante Gabriel Rossetti
(Giotto dipinge il ritratto di Dante) entriamo
nell'atmosfera rarefatta, pensosa, spirituale dei Preraffaelliti, che
segnarono in campo pittorico e filosofico una rinascita di quel culto
dell'Alighieri del quale la seconda metà dell'Ottocento fu
instancabile laboratorio in termini di studi storici e filologici,
interpretazioni, miti, idealità. Il mito di Dante riprende
quota infatti nel XIX secolo sull'onda della rivalutazione romantica
del Medioevo e prosegue nel Novecento con intenso lavorìo
filologico ed esegetico. Torniamo al motivo di partenza: il profilo
fisico e la biografia complessiva dell'Alighieri come serbatoio di
spunti per la narrazione tradizionale e/o basata sui media audiovisivi.
Quella dell'Alighieri è una vita romanzesca con tanti
misteri. Di alcuni possiamo solo accennare, perché il loro
approfondimento ci porterebbe lontano. Per esempio, il quarto figlio,
oltre a quelli avuti da Gemma Donati (Jacopo, Pietro e Antonia). Un
atto notarile del 1308 menziona come teste un Giovanni, figlio di
Dantis Alagherii de Florentia, che sarebbe quindi il primogenito, nato
nel 1287, due anni dopo il matrimonio tra Dante e Gemma. Ma di questo
Giovanni non si hanno notizie certe.
Un altro
mistero degno di una trasposizione cinematografica: il trafugamento
delle spoglie del poeta, sepolto nella Chiesa di San Francesco a
Ravenna, le cui ossa furono ritrovate nel 1865 in una cassetta insieme
a una lettera del 1677 firmata dal priore del convento; i frati le
avevano forse riposte in quella teca per evitare che fossero portate a
Firenze nel 1519, quando i Medici reclamarono, e non era la prima
volta, la restituzione delle spoglie mortali del divin poeta.
E
poi il mistero dei misteri: la perdita totale dei testi originali. Non
è rimasta una sillaba scritta dal Poeta, un fatto
incredibile se consideriamo la diffusione del suo poema e la
notorietà che comunque aveva raggiunto anche a livello
popolare, come testimonia, fra gli altri, il succitato aneddoto
raccontato da Boccaccio.
La biografia di Dante, puntellata da pochi dati storicamente
accertati, oltre alle non abbondanti notizie autobiografiche che il
poeta stesso ci dà nella sua opera (segnatamente La
Vita Nuova e la Commedia, ma anche il Convivio),
è costellata da numerosi aneddoti e storielle, popolari e
leggendarie, verosimili (poche) e sospette (la maggior parte).
La
molteplicità delle chiavi di lettura è una
risorsa per i narratori contemporanei e del futuro, non importa se il
mezzo di comunicazione e di espressione è il cinema o il
fumetto, il teatro o la radio, la pubblicità o il graphic
novel. Questa varietà di approcci a Dante personaggio e alla
sua opera dipende in larga parte dal punto di osservazione che si
decide di prendere e cioè dal rapporto dell’autore
con alcune fasi salienti della sua vita: l’amore per Beatrice
o per lo studio e la poesia, la passione e
l’attività politica, le relazioni con i poeti del
suo tempo (Guido Cavalcanti, la scuola dello stil novo), le
vicissitudini esistenziali soprattutto dopo l’esilio (1302) e
i luoghi stessi visitati dal poeta: Bologna, Verona, Treviso, Sarzana,
Casentino e Lunigiana, Lucca, forse Parigi, poi ancora Verona, la Val
di Magra, Padova, e infine Ravenna, solo per citare alcune tappe del
suo forzato e incessante itinerario nel Nord Italia. Fu anche a Roma,
due volte: la prima forse in occasione del Giubileo del 1300: un
ricordo di questo viaggio si avverte nei versi 28-33 del canto XVIII
dell'Inferno, dove Dante paragona l'enorme numero di peccatori della
prima bolgia (ruffiani e seduttori) alla grande folla accorsa al
Giubileo; la seconda volta fu nel fatidico 1301 quando venne inviato a
trattare con Papa Bonifacio VIII per scongiurare l'invio di Carlo di
Valois a Firenze: la missione non andò a buon fine
perché da Roma non fece probabilmente ritorno a Firenze che,
tramite l'allora Podestà Cante dei Gabrielli da Gubbio, lo
condannò prima in contumacia come barattiere (la baratteria
era un reato analogo alla nostra corruzione), poi, visto che Dante non
s'era presentato per il pagamento dell'ammenda, all'esilio perpetuo e
alla morte per rogo se catturato.
Si tratta di un
capitolo chiave nella formazione anche del personaggio Dante,
dell’uomo Dante, al di là della fiction operata
nella Commedia. Un’evoluzione che si
è resa sempre più partecipe di quel mix di
cultura popular e di ricerca storica, di incrocio
che ha assunto piena legittimità soltanto oggi, frutto di
“una cultura fondamentalmente partecipativa dove vecchi e
nuovi media collidono, la narrazione romanzesca si è spinta
ancora oltre: le storie emigrano e si sviluppano attraverso
più piattaforme mediatiche e diventano partecipate e
collettive grazie all’interazione con
l’audience” (Brook, Patti, 2015; www.quadernidaltritempi.eu/numero55).
Nelle vite dantesche di più agevole lettura scritte in epoca moderna (da quella di Paget Jackson Toynbee all'ormai classica Vita di Dante di Giorgio Petrocchi, fino alle più recenti di Marco Santagata e Giorgio Inglese, solo per citarne alcune), alla maggior parte degli aneddoti leggendari riguardanti la vita di Dante viene dato zero o scarso valore. A dire il vero, Toynbee dedica un apposito capitolo del suo libro ai caratteri personali di Dante, nel quale sono esposte alcune notizie relative a quella che possiamo definire la vita apocrifa dell'Alighieri. Due di questi racconti provengono da Franco Sacchetti, il novelliere fiorentino nato vent’anni dopo la morte del Nostro, e appartenente a una famiglia, gli Adimari, ostile a Dante, visto che uno dei Sacchetti aveva ucciso Geri del Bello, un cugino del padre di Dante, fatto di sangue del quale il nostro fa menzione anche nella Divina Commedia (Inf. XXIX, 27-36). Nella prima storiella Dante, passando accanto al laboratorio di un fabbro, sente recitare malamente alcuni versi del suo poema; allora, con reazione quasi isterica, prende i vari utensili e li butta per strada; al che il fabbro, esterrefatto, gli chiede che gli è girato nella testa: Dante risponde "Se tu non vuoi che io rovini le tue cose, tu non rovinare le mie" (Papini, 1909). La novella dell'asinaio ricalca più o meno nella sua dinamica narrativa quella del fabbro, solo che al posto di questi, c'è un asinaio battuto e rimbrottato da Dante per aver messo una parola in più del dovuto in un suo verso. Entrambi gli aneddoti sono un'amplificazione popolar-leggendaria di alcuni difetti, o peculiarità caratteriali del nostro: come la pignoleria e l'orgoglio, figlio di una deflagrante autostima, del quale il poeta fa chiara professione nel poema:
“«Li occhi» diss'io «mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, chè poca è l'offesa
fatta per esser con invidia volti.
Troppa è più la paura ond'è sospesa
l'anima mia del tormento di sotto,
che già lo 'ncarco di là giù mi pesa»”.
(Purgatorio XIII 133-138)
In questi versi del Purgatorio Dante, rispondendo
alla senese Sapia (siamo sul 2° ripiano, invidiosi), ammette di
essere più preoccupato dall'eventualità di
scontare la pena dei superbi, perché l'invidia non fu per
lui peccato così grave da fargli temere una lunga espiazione.
L'episodio
raccontato da Boccaccio delle due donnette che cianciano sulle gite
infernali di Dante, potrebbe suggerire la nomea e l'alone misterioso e
inquietante, quasi negromantico, che doveva presumibilmente contornare
l'autore della Divina Commedia. E che cosa
c'è di più simpaticamente popolare di due donne
che si scambiano sottovoce, ma neanche tanto, commenti e gossip
sull'aspetto sulfureo e dark di un Dante annerito dal suo recente
viaggio nell'Inferno?
Di questi episodi se ne
contano a decine. Giovanni Papini ne ha raccolti molti in un libretto,
pubblicato all’inizio del secolo scorso, dal quale emerge,
oltre al Dante più ufficiale e storicamente accertato
(orgoglioso, superbo, votato allo studio, pronto di spirito), anche un
suo alter ego polemico, velenoso, maleducato, irrispettoso,
non-convenzionale, diremmo borderline: permaloso, canzonatore e
motteggiatore, attaccabrighe e verbalmente aggressivo, soprattutto
quando si trova di fronte a incompetenti e ignoranti, come il fabbro e
l'asinaio di cui sopra.
Alcuni aneddoti sono
francamente poco credibili: che Dante guardasse le donne per strada ci
può stare (il nostro era proclive alla lussuria, secondo
quanto racconta lo stesso Boccaccio), ma che fosse stato pure spione,
ladro e cleptomane, e che addirittura praticasse le
meretrici, è obiettivamente materia da lasciar nel
campo della fantasia e dell'invenzione dissacrante.
Seria
è invece la questione del Dante mago. È uno degli
aneddoti più scottanti della crestomazia di Papini, problema
ancora aperto: Dante Alighieri compare nelle carte di un processo
istruito per indagare sulla congiura ordita da Matteo e Galeazzo
Visconti contro papa Giovanni XXII e finalizzata al suo avvelenamento.
Dante non c'entra niente con questa vicenda, il cui protagonista
negativo è invece un prete milanese, Bartolomeo Cagnolati,
famoso per le sue arti di stregoneria, chiamato perciò da
Matteo Visconti per attuare il piano venefico contro il pontefice.
Dalle carte emerge che il Visconti, per convincere un Cagnolati sempre
più timoroso e recalcitrante, lo stimola dicendo che, se si
fosse ritirato, avrebbe affidato il compito a Dante Alighieri, il noto
scrittore dell'Inferno.
Ma de hoc satis.
Abbiamo citato questo aneddoto solo per indicare che tra i tanti volti
dell'Alighieri, non manca quello di presunto esperto in stregoneria: si
tratta di una palese leggenda, è ovvio, nata molto
probabilmente dalla sua familiarità con l'Oltretomba tramite
un altro poeta in odor di magia: Virgilio.
Diversi filoni culturali si diramano dal profilo complessivo dell'Alighieri, alimentati dalla sua biografia e dalle interpretazioni non canoniche e spesso fuorvianti della sua opera. Abbiamo quindi più Danti, se ci è concesso questo plurale, dai quali defluisce un delta fittissimo di sotto-profili che alimenta tutti i canali della cultura, da quelli tradizionali agli attuali mezzi di comunicazione audiovisivi. Ne identifichiamo quattro:
1.0 è il Dante serio, ufficiale e istituzionale, padre della patria e della lingua italiana, anticipatore del Risorgimento, sommo e divino poeta, il Dante insomma, delle accademie, della scuola, delle università, dei filologi e degli studiosi;
2.0 è il Dante eretico, esoterico, segretamente templare, gioachimita e mistico, fieramente anticlericale, presunto membro di sette segrete come i Fedeli d'Amore: e anche questo è un Dante serio, ma che divide molto gli studiosi dell'1.0, non tutti propensi a riconoscere validità storica alle biografie e alle interpretazioni di marca settaria o genericamente esoterica;
3.0 è il Dante mistico-romantico, innamorato a vita e a prima vista di una sola donna, che non lo ricambia e che Dante cerca di dimenticare con altre donne, inutilmente, poiché Beatrice è insostituibile, perché in Beatrice la donna vera e terrena non è distinta (né facilmente distinguibile) da quella idealizzata e sublimata: è il Dante della Vita Nuova e della Divina Commedia, e, in ambito pittorico, dei Prearaffaeliti. Dante (un dottor Živago ante litteram) e Beatrice sono la prima grande storia d'amore della letteratura italiana, un'occasione imperdibile per la cultura di massa e per il fumetto in particolare: si pensi alla recente (2014) storia di D'Uva, Rossi e Astrid, Dante Alighieri, dove Beatrice svolge un ruolo fondamentale nella narrazione visuale;
4.0 è il Dante leggendario e popolare: si noti che alcuni episodi raccontati da Boccaccio nel Trattatello (Boccaccio, 2013), come l’avventuroso ritrovamento dei primi sette canti dell’Inferno, o quello del Paradiso rivelato dallo stesso Dante apparso al figlio poco dopo la morte, vivono in quella affascinante dimensione sospesa tra realtà o verosimiglianza e invenzione.
Cinema, fumetto, musica, letture televisive e radiofoniche
attingono da tutte e quattro le macro-categorie: le letture dantesche
di Vittorio Sermonti (con il suo ciclo di conferenze radiofoniche
tenute dal 1987 al 1992 con la consulenza di due autorità
indiscusse della filologia romanza come Cesare Segre e Gianfranco
Contini) e Roberto Benigni, rientrano a pieno titolo nel Dante 1.0,
quello serio; così come altri
esperimenti televisivi e radiofonici come le Interviste
impossibili (1973-1975) della Rai; idem per le performance
recitative di Carmelo Bene, uno dei più originali interpreti
di Dante, insieme a Vittorio Gassman. Per tacere della musica colta che
si è spesso ispirata alla Divina Commedia,
dalle composizioni di Luciano Berio (1981 e 1993) a quelle di Salvatore
Sciarrino (per esempio l'opera radiofonica del 1981, La Voce
dell'Inferno, con testi curati da Edoardo Torricella) fino alla musica
di Nicola Piovani per la Vita Nuova, cantata per
soprano e piccola orchestra, voce recitante di Elio Germano, eseguita
per il Ravenna Festival il 6 giugno 2015, solo per citare due estremi
temporali e stilistici significativi. La pubblicità, la
comunicazione di massa, il fumetto rientrano preferibilmente (ma non
necessariamente) nel Dante 3.0 e 4.0.
A parte il
suo caratteristico e inconfondibile profilo, che già lo
rendono di per sé personaggio potenzialmente esposto alla
curiosità, non sempre benevola, della caricatura e del
fumetto, la vita di Dante come si è cercato di illustrare ha
un notevole portato romanzesco, anche solo considerando i dati
biografici storicamente accertati: in lui s'incontrano e convivono gli
aspetti, apparentemente contrastanti, dell'introverso dedito allo
spirito e allo studio, all'arte e alla poesia, e dell'uomo passionale e
pragmatico, immerso nella storia, con le sue passioni politiche,
l'impegno civico, la tragica esperienza della guerra, l'esilio. Nella
sua opera principale, Dante dispiega tutta la gamma dei sentimenti,
delle sensazioni e delle idee, umane e sovrannaturali, partendo dalla
sfera terrena fino alle più alte regioni del Paradiso
celeste (e quindi dello spirito), da dove ci riporta la visione diretta
di Dio: dalla dannazione dell'Inferno alla sublimazione della
beatitudine spirituale i cui gradi celesti Dante ascende con Beatrice
fino all'Empireo e alla Candida Rosa dei Beati, dopo essere salito con
Virgilio per i ripiani del "mondo di mezzo" (la Montagna del
Purgatorio), sui quali le anime si purificano per rendersi
belle e salire a Dio.
La Divina Commedia
è un'enciclopedia dello spirito, è un poetico itinerarium
mentis in Deum, ma nel contempo l'antesignana del
novecentesco Bildungsroman: Dante getta le basi del
moderno romanzo autobiografico, fonde più generi in un nuovo
supergenere o meglio in un trans-genere che unisce poesia, narrazione,
allegoria, epica, teatro, visioni, teologia, utopia, profetismo. Forse
solo James Joyce è riuscito, nel Novecento, a fare qualcosa
del genere con l'Ulisse. Ecco il motivo per cui
l’interesse nei suoi confronti non scema in piena post
modernità, tempo di commistioni senza confini, epoca di
quella “che Henry Jenkins ha definito «cultura
convergente» nel suo omonimo libro nel 2006, Convergence
Culture” (Brook, Patti, cit.).
Esule per
buona parte della sua vita (dai 37 anni – anche se il viaggio
ultraterreno comincia nel proverbiale “mezzo del cammin di
nostra vita” a 35 anni: nel 1300 – ai 56 anni,
quando morì a Ravenna), per vent'anni lontano dalla sua
città natale, Firenze, odiata e sempre rimpianta, dalla
quale era stato (ingiustamente, secondo il Boccaccio) esiliato e poi
condannato a morte, in perenne e tormentato rapporto con l'amore e le
donne (dalle quali era fortemente attratto, ma che non riuscivano a
colmare l'immenso vuoto lasciato dall'unica vera donna della sua vita,
Beatrice, che amava e dalla quale non era in realtà
riamato), e in particolar influsso pendolare tra amor sacro (Beatrice)
e amor profano (si pensi alle donne cantate nei suoi versi), diviso tra
lavoro e studio, due campi nei quali eccelleva, anche se il primo lo
distraeva troppo dal secondo, vero ambito di elezione del suo spirito;
figura di intellettuale a tutto tondo (poeta, filosofo, teorico della
politica e teorico della lingua, epistolografo, trattatista
scientifico), avrebbe Dante immaginato, nei momenti di solitudine e
sconforto (tantissimi, soprattutto dopo l'esilio) che sarebbe diventato
un mito della cultura italiana e mondiale e un'icona della cultura pop?
Avrebbe immaginato che a tirarlo fuori dalle catacombe del sapere
scolastico sarebbero arrivati Vittorio Sermonti o Roberto
Benigni?
Più che la biografia in se
stessa (già di per sé movimentata e avventurosa),
a ispirare generazioni di artisti di ogni tempo, dai miniaturisti del
Medioevo ai fumettisti del Duemila, passando per cinema e videogiochi,
è soprattutto la Divina Commedia. A
consacrare Dante presso il largo pubblico dei posteri, a farne un
successo di ascolti televisivi (i picchi di audience registrati dalle
letture di Roberto Benigni superano i 2,2 milioni di spettatori)
è la Divina Commedia. D'altronde, anche
un bravo attore come Benigni farebbe fatica a sdoganare presso il
grande pubblico il Convivio o il De
Vulgari Eloquentia, per tacere della Quaestio de
aqua et terra. Le Rime e la Vita
Nuova hanno maggiori speranze di coinvolgere un pubblico
più ampio, con particolare riferimento a quello televisivo e
radiofonico.
Si può immaginare un viaggio che ci porti più in là di dove è andato Dante? Proprio come il suo Ulisse nel canto XXVI dell'Inferno, Dante è un viaggiatore estremo, supera con la fantasia i limiti geografici e spazio-temporali conosciuti, crea e visita un altro mondo, anzi l'Altromondo per eccellenza; e nella Divina Commedia Dante autore-viator-viaggiatore in ambienti estremi e ostili (Inferno) si confronta, esattamente come farà in seguito la fantascienza, con il fattore umano e alieno, quest'ultimo rappresentato dalle fiere, dai mostri, dai diavoli, e dagli stessi peccatori qualora la loro forma corporea sia stravolta rispetto all'originaria natura umana. D’altra parte, questo successo a settecentocinquanta anni dalla sua nascita, non è una cosa dell’altro mondo?
LETTURE
VISIONI