Hayao Miyazaki aveva già progettato in passato di dire addio al mondo del cinema d'animazione: nel 1997 Principessa Mononoke doveva essere, almeno nelle intenzioni iniziali del regista, la sua pellicola di commiato. E invece ha cambiato idea (fortunatamente) e ha continuato a regalarci ancora capolavori come La città incantata (2001), Il castello errante di Howl (2005) e altri, fino alla sua ultima opera, Si alza il vento (2013), uscita nelle sale italiane nel settembre 2014. L'ultima per davvero, stavolta, stando all'annuncio ufficiale dato alla 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia in occasione della presentazione del film. È ormai vana la speranza di un ulteriore ripensamento (frenato anche dall’età, forse), ma se l'idea ci lascia con l'amaro in bocca, possiamo consolarci un po' andando indietro nel tempo fino al suo primo lungometraggio, Nausicäa della Valle del Vento (1984), la prima di una serie di opere lasciateci in eredità dal maestro dell'animazione giapponese, capolavori di indicibile bellezza e profondità, che in un modo o nell'altro hanno influenzato prepotentemente la storia del cinema tout-court.
Sebbene si tratti di un'opera prima (escludendo il flop Cagliostro no shiro del 1979), in Nausicäa della Valle del Vento sono già ben presenti e ben definiti gli elementi che nel corso degli anni avrebbero reso unica e riconoscibilissima ogni sua singola opera: da un lato il tratto grafico inconfondibile, asciutto e al tempo stesso ben strutturato, dal design surreale e ammantato di un'aura onirica; dall'altro, le tematiche più care al regista e che ritroviamo declinate in tutta la sua filmografia, come il pacifismo, l'ecologismo e l'utopia di un mondo giusto ed equilibrato; e infine il volo, che come un fil rouge attraversa ed unisce in vario modo ognuna delle straordinarie narrazioni del maestro della japanimation.
Il film è la parziale trasposizione dell'omonimo manga di Miyazaki (la cui gestazione, molto più lunga e travagliata, terminerà solo nel 1994) e la trama è di marcata matrice epico-ambientalista: in un futuro molto lontano, la Terra è un mondo desolato, distrutta da un catastrofico conflitto globale. Il pianeta è ricoperto quasi totalmente da mari acidi e giungle tossiche, mentre l'umanità (tecnologicamente regredita) è ridotta in piccole e sparute comunità, confinate nei pochi territori ancora abitabili, che lottano per la sopravvivenza difendendosi dagli attacchi di spore velenose e giganteschi insetti mutanti. Come se non bastasse, gli ultimi superstiti della razza umana sono continuamente in guerra tra loro – del resto la stupidità rimane sempre una prerogativa della nostra specie, anche quando è sull'orlo dell'estinzione. La giovane protagonista Nausicäa, figlia di re Jhil della pacifica Valle del Vento, sembra invece essere completamente fuori dal coro: a differenza dei suoi simili, instaura con la natura ostile un rapporto “empatico”, comprendendo che la tossicità delle piante deriva in realtà dall'inquinamento lasciato dall'uomo secoli prima, durante la guerra nucleare. Ed è Nausicäa a tentare di mediare tra il regno di Tolmechia e il regno di Pejite, le due nazioni impegnate nella battaglia per accaparrarsi il cuore del guerriero invincibile, un robot biomeccanico dall'eccezionale potenza distruttrice, ultimo esemplare di una tecnologia pre-apocalittica ormai perduta. Il volo, seppure qui sembra avere un carattere marginale rispetto ad altre pellicole, è invece un fattore molto importante per l'economia del racconto: non solo aerei e macchine alate sono pressoché l'unico mezzo di trasporto, ma addirittura la salvezza e la successiva rinascita del genere umano passeranno attraverso i mezzi volanti.
In questa pellicola gli elementi tipicamente miyazakiani ci sono già tutti, compresa l'attenzione che il regista riserva per il mondo dell'adolescenza e per l'universo femminile. L'amore che Miyazaki nutre nei confronti delle nuove generazioni si traduce sempre in un percorso di crescita interiore che i suoi giovani personaggi si trovano ad affrontare (pensiamo anche alla piccola Chihiro de La città incantata e alla sua maturazione lampo); tuttavia è con Nausicäa che viene inaugurata l'”epoca delle donne”: nettamente controcorrente rispetto al genere fantasy a cui si ascrive la pellicola in esame, dove i protagonisti sono sempre maschili, è una ragazza ad avere qui il ruolo di eroina. Questa sarà una costante e quasi sempre nelle sue opere successive i personaggi femminili ricoprono comunque un ruolo di importanza cruciale, dotate di notevoli capacità che hanno imparato ad affinare nel tempo. Il motivo per cui c'è quasi sempre un'eroina dipende probabilmente dal fatto che, se tradizionalmente la società nipponica affidava il controllo all'uomo, il punto di vista femminile, dotato di una maggiore flessibilità, sono invece più al passo con i tempi attuali: giovani principesse guerriere, tanto fragili quanto impavide, che riescono a sconfiggere cavalieri invincibili con la loro grande forza d'animo.
Nausicäa della Valle del Vento è dunque un'opera fondamentale nella vita e nella carriera di Miyazaki sotto vari aspetti, dal punto di vista della forma tanto quanto dei contenuti, ma segna anche una tappa cruciale nello sviluppo dell'animazione giapponese. Il successo straordinario (e inaspettato) di Nausicäa ha infatti permesso al regista di fondare nel 1985 (insieme al suo collega e mentore Isao Takahata) una propria casa di produzione, lo Studio Ghibli, che nell'arco di breve tempo si sarebbe imposto nel panorama nazionale ed internazionale dei cartoon con una serie di pellicole memorabili, contribuendo alla diffusione e rivalutazione degli anime anche al di fuori della cerchia dei soli appassionati. Grazie soprattutto al livello altissimo dell'animazione: la caratteristica distintiva dello Studio Ghibli è infatti l'attenzione maniacale per i dettagli e per la qualità in ogni fase della produzione. Ciò emerge ancor più spiccatamente se si paragona a quello che era lo standard dei cartoni animati nipponici realizzati negli anni Ottanta, l'epoca dell'anime boom e dell'industrializzazione del mondo dell'animazione. Epoca in cui la stragrande maggioranza delle produzioni era destinata alla serialità televisiva, con esigenze nettamente differenti in termini di tempi e di costi (e di qualità) rispetto ad una pellicola cinematografica.
Vediamo innanzitutto a livello contenutistico: sia Nausicäa quanto le opere successive pongono l'accento sulla spiritualità, richiedono al fruitore un notevole impegno cognitivo, a cui segue un lento processo di sedimentazione. Le avventure fantastiche messe in scena dalle maestranze dello Studio Ghibli hanno lo scopo non solo di divertire ma anche di far riflettere il pubblico. In particolare il cinema di Miyazaki unisce la funzione didattica, morale ed educativa alla visionarietà di un immaginario epico, riuscendo ad entrare nei cuori e nelle menti di spettatori che di volta in volta ne rimangono incantati. Il senso di straniamento, di spaesamento e la sua singolare sensibilità artistica sono proprio le armi che utilizza per far crollare in chi guarda ogni tipo di resistenza, per far sì che attraverso la dimensione fiabesca sia possibile trasmettere messaggi politici e sociali senza alcuna forma di pregiudizio.
Tutt'altra storia invece per l'animazione giapponese dell'epoca, completamente proiettata verso l'entertainment con strategie volte ad azzerare qualsiasi tipo di rischio di insuccesso: sono questi gli anni del genere robotto (sicuramente il più popolare anche da quest'altro lato del pianeta, con personaggi come Gundam e Jeeg robot d'acciaio) e delle avventure sportive che si somigliano un po' tutte; gli anni in cui tutti i manga più in voga (e più venduti) vengono puntualmente affiancati dalla rispettiva serie animata – a completamento del “corredo” insieme a gadget e merchandising vario. Una modalità dunque di fabbricazione dei cartoni animati, in cui ad un'incredibile mole di risorse (economiche ed umane) impegnata nel processo produttivo fa da contraltare una spensieratezza e una vacuità di contenuti tipiche dell'intrattenimento fine a se stesso.
La situazione non è delle migliori neanche dal punto di vista più strettamente “tecnico”. Per riuscire a rispondere ad una richiesta sempre crescente da parte dei network televisivi del paese del Sol Levante, letteralmente sempre più affamati di nuove serie, l'animazione giapponese degli anni del boom aveva un solo modo per poter sostenere dei ritmi così serrati: abbassare drasticamente la qualità. Quindi meno disegni, cioè meno fotogrammi per secondo – a discapito di una minore fluidità delle immagini – e più movimenti di macchina, e l'utilizzo di stratagemmi per riciclare il maggior numero di rodovetri possibile, in un'ottica del “minimo sforzo, massimo risultato”. Il confronto con Nausicäa è completamente fuori questione: la proverbiale meticolosità con cui controlla e corregge personalmente ogni singolo fotogramma, la professionalità e l'indiscutibile talento di Miyazaki e dei suoi collaboratori fanno sì che il prodotto finale sia sempre una vera e propria opera d'arte.
Una menzione particolare va fatta per l'estetica di Nausicäa, a partire già dal manga da cui è tratto, che rompe con i canoni del fumetto tradizionale, attingendo dalle tecniche occidentali quanto da quelle orientali. Lo stile è del tutto proprio e libero, sia nelle tavole sia sul grande schermo. Come in tante altre produzioni del regista, anche qui ritroviamo una certa atmosfera steampunk, che in questa pellicola connota principalmente il mecha design, cioè lo stile con cui sono concepiti e disegnati i meccanismi di ogni tipo, dagli utensili alle macchine volanti (ad esempio gli aerei tolmechiani hanno le fattezze di gigantesche libellule di ferro): è curiosa infatti la commistione tra elementi medievali ed elementi fantascientifici, che tra l'altro è tipica delle narrazioni post apocalittiche, un contrasto teso a sottolineare un deciso e definitivo “regresso” della civiltà umana.
Per come sono concepiti i personaggi e le ambientazioni, non si può far a meno di notare una forte analogia con un altro grandissimo disegnatore, fumettista e scrittore, Jean Giraud, meglio noto come Mœbius (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero43). Si tratta, a dirla tutta, di un'influenza reciproca, tra due artisti così geograficamente lontani eppure così vicini, sia per tematiche che per stile, da essere addirittura presentati insieme in una mostra allestita nel 2004 all'Hôtel de la Monnaie di Parigi, dall'emblematco titolo Miyazaki, Mœbius: deux artistes dont les dessins prennent vie.
In un'intervista del 2005 (www.nausicaa.net) il “Kurosawa dell'animazione” ha confessato di aver conosciuto Moebius attraverso Arzach (1975), rimanendone folgorato ad un punto tale da dirigere Nausicäa sotto la sua influenza: oltre al character design – essenziale ma al tempo stesso connotato di una ben precisa “atmosfera” – ciò che è davvero impressionante è infatti la somiglianza tra il mezzo di trasporto utilizzato dalla principessa della Valle del Vento e lo pterodattilo del fumetto francese. Non a caso, il vero punto di contatto tra i due autori è la passione per tutto ciò che vola, dalle navicelle interstellari alle meravigliose bestie alate.
Le vent se lève!... / il faut tenter de vivre: la citazione di Paul Valéry (Si alza il vento!... / bisogna tentare di vivere) che compare sul grande schermo, come una sorta di epigrafe conclusiva della carriera dell'animatore giapponese, può esserne al tempo stesso la chiave di lettura. Il vento quale metafora del sogno, che “soffia” su un'esistenza che viene continuamente sospinta, fino ad arrivare su in alto, alla realizzazione del sogno stesso. Il proprio sogno Hayao Miyazaki deve averlo decisamente realizzato, avendo conquistato un enorme successo in patria (pari forse solo a quello di un'altro grande predecessore, Osamu Tezuka), accolto sempre con entusiasmo da pubblico e critica. Diversamente fuori dai confini nazionali, dove per lungo tempo è rimasto sconosciuto ai non addetti ai lavori, almeno fino ai primi anni del Duemila. Già a partire dal 2002-2003 – merito della “doppietta” Oscar-Leone d'Oro de La città incantata – l'Occidente ha intrapreso un percorso a ritroso alla scoperta della sua filmografia, che ha finito con il porsi come una sorta di ponte tra il nostro mondo e il mondo della cultura giapponese: una strada spesso percorsa nei due sensi, verso una cinematografia dal respiro più internazionale e costellata di riferimenti alla cultura europea, accanto a cui però ritroviamo elementi della tradizione orientale, come gli “spiriti” (kami) della religione shintoista, onnipresenti nelle opere dell'autore giapponese, o come la “benevolenza” con cui dipinge i suoi villain (anche questa di derivazione shintoista), che non sono mai dei cattivi in senso stretto, quanto piuttosto vittime della fragilità umana.
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