Ci si dovrebbe chiedere quale sia il motivo per cui, ormai dalla fine degli anni Settanta, l’immaginario del manga e degli anime coinvolga il pubblico europeo in maniera così rilevante, dando luogo ad autentiche comunità, fortemente identificate e fidelizzate, che intorno ai caratteri peculiari di quel consumo culturale si aggregano e moltiplicano generando uno dei segnali più forti del declino che investe i tradizionali meccanismi dell’industria culturale. È una domanda che gli studiosi – ad esempio, i sociologi dei processi culturali e comunicativi – dovrebbero porsi. Eppure, nella maggior parte dei casi, ciò non avviene, ed anche chi dovrebbe produrre – per statuto – la consapevolezza del senso del presente, si limita per lo più a trincerarsi dietro l’ostracismo nei riguardi dell’altro e della sua in-comprensibilità.
Il punto è che il Giappone, nel mondo inclusivo della globalizzazione, è altro solo in un’accezione molto vecchia della storiografia e dei suoi miti eurocentrici. Sebbene posto all’estremo oriente dell’Occidente, il Giappone ne costituisce nei fatti la propaggine estrema, poiché con questo condivide la scelta di abbracciare il processo di industrializzazione e di identificarsi catastroficamente in esso. Si realizza un bizzarro sincretismo, narrato in film come Il barbaro e la geisha del 1958 di John Huston o L’ultimo samurai di Edward Zwick uscito nelle sale nel 2003, dal tono assai moderno poiché della modernità è il riflesso, in cui due tradizioni impattano tra loro generando i termini di un’inedita trasformazione sociale, una crisi dai caratteri strutturali che non accenna a spegnersi, a riassettarsi sul terreno stabile di una nuova tradizione.
L’Occidente non ha invaso il Giappone: è il Giappone che se ne è appropriato, dandogli una versione del tutto originale, incamerandolo in sé fino a mutarlo, portandolo alle propaggini estreme della propria esperienza storica. Per essere più espliciti: il Giappone costituisce il contesto più appropriato della società industriale poiché è lì che questa assume i suoi caratteri più autenticamente moderni, ovvero la qualità di far coesistere nell’ambito del proprio orizzonte di senso le proprie indispensabili catastrofi. Ed è forse questa una delle possibili risposte alla domanda che ci si poneva in apertura, spostando l’asse paradigmatico dai temi adorniani della colonizzazione culturale (il dominio della tecnica) a quelli benjaminiani del ribaltamento delle prospettive sociali (la tecnica del dominio).
Se il Giappone costituisce la nazione occidentale più a oriente del pianeta, allora comprendiamo meglio le sue espressioni culturali, insieme così modernamente europee e così (esoticamente e quindi eroticamente) dissonanti rispetto al nostro sentire. Ci spieghiamo, in questa prospettiva, la letteratura decadente e fuori asse di Yukio Mishima, oppure la musica tardo-pucciniana di Ryuichi Sakamoto, o ancora i treni che attraversano l’orizzonte oltre i pergolati infiorati nei film di Yasujirō Ozu. Ma la linea della lunga frattura fra tradizione e innovazione che investe il cuore stesso dell’identità culturale giapponese si coglie molto meglio nell’immaginario disegnato, nella massificazione delle forme espressive del manga e degli anime, dove coesistono i retaggi iconici e scritturali – nella cultura nipponica, ovviamente, questi tessono tra loro relazioni di differente natura rispetto alla nostra – che si esplicitano in narrazioni dai caratteri insieme locali e proiettati verso la dimensione internazionale dei mercati audiovisivi.
Forse per questo la figura che ha maggiormente caratterizzato la cultura di massa del dopoguerra in Giappone è Osamu Tezuka, il grande riformatore delle relazioni tra tecnologia e cultura implicite nella sfera dell’immaginario. Ma se Tezuka costituisce il punto di ri-partenza delle narrazioni grafiche, attraverso le quali il paese cominciò a ricostruire una propria immagine identitaria, il punto di arrivo è oggi riassunto nel lavoro e nelle stessa figura – l’anomala autorialità – di Hayao Miyazaki.
Da qualche anno a questa parte, specie dopo l’Oscar a La città incantata, di Miyazaki si parla molto e per lo più in quei termini agiografici che spesso servono a pacificare il rapporto tra l’arretratezza istituzionale della critica e le figure anomale dell’industria culturale, quelle votate allo slittamento progressivo dei suoi linguaggi, all’esplorazione dei nuovi spazi di senso. Sebbene non figuri spesso tra i più citati, Kurenai no buta (1992) è probabilmente il film più radicale di questo autore, l’opera in cui le ossessioni che nutrono la sua cifra estetica assumono una forma estrema, fondendo i codici espressivi sino al surrealismo o, meglio, a una singolare interpretazioni delle istanze dadaiste. Come capita a tutte le prime produzioni dello Studio Ghibli, nato per consentire alla creatività di Miyazaki di sottrarsi alle logiche costrittive della Tokuma Shoten, il progetto di quello che in Italia è noto come Porco rosso (anche se la traduzione del titolo non è tra le più precise) nasce e si sviluppa attraverso molte difficoltà, nel tentativo complesso di coordinare la visione del regista alle strategie di marketing dell’impresa.
Nato, come spesso accade nel sistema nipponico della comunicazione, sullo spunto di un manga di aviazione del 1985 (Hikoki Jidai), questo film doveva essere in principio un mediometraggio da trenta minuti, prodotto per essere proiettato unicamente durante i voli internazionali della JAL, la compagnia di bandiera giapponese. Cosa che, tutto considerato, non sarebbe stata priva di una sua elegante logica. Il film invece si espanse fino a diventare un lungometraggio distribuito nelle sale, ed ottenne un notevole successo nonostante alcuni avessero previsto un flop. Previsione non peregrina, sebbene poi smentita dai fatti, perché è davvero difficile immaginare di essere coinvolti da una narrazione animata il cui protagonista è un aviatore italiano della Grande Guerra, Marco Pagot, cui un sortilegio ha dato le fattezze di un maiale antropomorfo, che pilota nei cieli dalmati un idrovolante rosso per combattere contro una banda di pirati dell’aria.
Eppure questo plot ha funzionato e ancora funziona, reggendo un bizzarro film d’animazione che sarebbe piaciuto ad Attilio Micheluzzi, il più grande comic-maker europeo di aviazione, che probabilmente costituisce per Porco rosso – almeno a giudicare dal gusto compositivo dell’immagine, dall’estetica adottata, dai tagli e dalle inquadrature del volo – uno degli ispiratori di Miyazaki, da sempre molto attento alla cultura grafico-narrativa occidentale. D’altra parte, questi due autori hanno in comune un padre aviatore (Micheluzzi) e un padre costruttore di aerei (Miyazaki), due figure che probabilmente li hanno spinti a raccontare storie centrate su visioni e prospettive fondate nella cultura dell’aviazione.
La dimensione aerea delle storie di Miyazaki è il vero punto d’origine dell’immaginario di questo straordinario affabulatore. Come in Laputa (1986), altro capolavoro che costringe a ridefinire la relazione culturale con il cinema di animazione, il tema del volo fantastico e del punto di vista aereo sul mondo è al centro della narrazione, anzi ne è il pretesto: come conferma la scena dei titoli di testa di Laputa (Il castello nel cielo), con la discesa leggera della protagonista nello spazio minerario del Galles, non a caso un altro luogo delle genesi industriale.
Anche Porco rosso è ricco di scene del genere, scene in cui a essere rimesso in gioco è costantemente il punto di vista dello spettatore, il suo posizionamento nel quadro strategico del racconto, il suo stesso ruolo nell’economia narrativa. Per realizzare questa sinergia con il corpo del consumo, fondata sulla stretta partecipazione del fruitore al piano emotivo del testo, Miyazaki ricostruisce un’Europa surreale, in cui lo sviluppo industriale ha dato vita a un universo laterale, dai toni quasi steampunk, dove la tecnologia – la seduzione della macchina volante e dei suoi ruggenti motori – assurge a centro della scena estetica, in una sorta di ritorno alle suggestioni del futurismo: non a caso, i luoghi in cui agisce Marco Pagot sono più o meno gli stessi delle imprese aeree di Gabriele d’Annunzio, i luoghi di confine in cui si edifica il mito di un’Italia rinnovata, sebbene sempre sospesa su un tono fra operetta e tragedia.
L’alba del Novecento immaginata da Miyazaki è uno spazio di suggestioni deformate dalla distanza – geografica e culturale – ma proprio per questo capaci di far emergere un significato altro dell’esperienza storica. Le letture metaforiche di Porco rosso rischiano di limitarne il piano discorsivo, semplificandolo entro le coordinate di senso delle ideologie novecentesche. Pagot è sì un italiano antifascista, in esilio da un paese totalitario ed a stento sopravvissuto alle rovine esistenziali della prima guerra mondiale, ma sarebbe errato voler leggere a tutti costi una presa di posizione di ordine politico: è nella distanza da quel mondo, infatti, che si muove il racconto di Miyazaki. In altre parole, agendo sulla dimensione espressiva dei linguaggi audiovisivi, lo sguardo aereo di questo grande narratore giapponese ridefinisce il rapporto prospettico con il passato, reperendo nella forma e nelle sue mutazioni più di quanto sia possibile fare nelle ormai attardate rappresentazioni della modernità.
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