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Si trova in un luogo dove non era mai stato, e quando
non era mai stato. Conosce il posto, ma solo dai racconti dei suoi genitori,
magari di qualche persona anziana. Perché Marty, dal 1985, è stato proiettato nel passato.
E, se ne avesse il tempo e la serenità, potrebbe verificare quanto questo posto
corrisponde ai racconti che gli sono stati fatti in termini di edifici, di
strade, certo, ma anche di abbigliamento, di comportamenti, di linguaggio, di
musica, di design. Lui non può farlo, perché è occupato in faccende ben più
importanti, ma noi sì: noi spettatori fuori del tempo e nello spazio, in quel
luogo sospeso altrove che è la sala cinematografica, protetti dagli eventi
dalla membrana dello schermo cinematografico, possiamo seguire tutta la storia e
guardarci intorno, per vedere come erano i nostri padri, cosa facevano, come
vivevano, approfittando della forza di quella versione dell’artiglio temporale
immaginato da Philip K. Dick che è il cinema. La macchina del tempo. Che ci permette non solo di vedere
il futuro, ma anche il passato. Riproducendo la Storia. E permettendoci di cercare le
nostre radici. Anche -se non specialmente- attraverso la fantascienza. Che quindi non guarda solo avanti, nel tempo, ma anche
indietro. Perché è l’unica tecnologia che ci permette di farlo davvero.
Arricchendo continuamente il nostro museo dell’inattuale. Perché se ragioniamo sul Novecento
e sullo spirito del tempo che ha prodotto, a ben guardare, non osserviamo
un oggetto unico, lineare e continuo, ma almeno due. C’è uno spartiacque, che
costituito dalla II guerra mondiale. Non solo per i disastri che ha sparso per
il mondo, ma perché ha prodotto un nuovo ordine mondiale, e una nuova
dimensione delle tecnologie. In una prima versione della sceneggiatura di Back to the
Future, la macchina del tempo era un frigorifero, solo in seguito fu sostituita
dalla De Lorean. E il frigorifero, forse più dell’automobile, può
marcare il passaggio fra le due parti del secolo scorso. Qualcuno di noi
ricorderà ancora quando il primo frigidaire è arrivato in casa propria,
seguito o accompagnato da televisore, telefono, e poi in rapida successione
frullatori, lavatrice, lavastoviglie… fino al web. Oggetti carichi di contenuti simbolici per noi, e in
qualche oscura maniera affini ai B.E.M. al laser, alle astronavi. Oggetti quasi
di natura, invece, per i nostri fratelli minori, figli, nipoti. Questo è il vero passaggio di stato. Perché segna
indelebilmente la percezione del mondo, il senso che gli si dà, quindi le
identità, e che produce la differenza fra le ultime generazioni del Moderno e
quelle della Postmodernità. Ed è questo che ci mette sotto scacco: la sensazione di
vivere in un mondo che cammina per suo conto, secondo ritmi imprevedibili,
algoritmi di un’algebra aliena, fuori della nostra portata – e invece del
tutto familiare ai nostri figli. Che peraltro tornano a noi, alla nostra generazione –
almeno alcuni – attraverso il recupero della nostra cultura, dei nostri gusti
– in campo musicale, narrativo, anche dell’impegno sociale, producendo uno
strano fenomeno: ciò che per noi era trasgressione e estremismo per loro è
classico e cult. Grazie ai nuovi media, naturalmente e alle possibilità di
conservazione e riproduzione che offrono. Allora possiamo forse correggere l’affermazione di
Baudrillard: forse la Storia, piuttosto che tornare indietro, in questo “…
momento imprecisato degli anni Ottanta del XX secolo” – l’ottobre 1985 di
Valley Hill? – si è spostata di lato, e si è messa a contemplare gli eventi,
il suo futuro. C’è un’altra storia che vale la pena riportare. L’anno è il 2020, il mercato sotto forma di network
globale governa il destino dell'umanità. I cittadini e le imprese accettano i
rischi di una libera competizione in continuo mutamento e la conseguente
flessibilità e capacità di adattamento richiesti. Una società elitaria,
polarizzata: i cittadini premium e quelli discount, ricchi e poveri. Gli affetti
- famiglia, amicizia - vengono sostituiti da profittevoli reti di interessi
(social networking). La vita è gestita come un impresa. Si lavora sempre di più
e ogni istante ottimizzato grazie a modalità di consumi che semplificano la
vita. Tutto è marchiato dai brand e trasformato in lifestyle. Trionfano il
tecnoshopping, l'Rfid, il retailtainment e l’e-commerce che fa guadagnare
tempo al consumatore senza tempo. I consumi alimentari marcano le differenze di
classe, caratterizzati da una netta preferenza per i cibi che costano sempre
meno (classe povera) e dai cibi bio funzionali high-tech che promettono
prestazioni superiori (classe agiata). Ci si ingozza di pharma sanity food e si
acquista convenience food. Terrorismo, disastri ambientali, disoccupazione e
povertà, i continui scandali alimentari suscitano solo indifferenza. Mobilità, velocità e simultaneità, sono i valori che
dettano il ritmo del cibo. Si mangia al volo, non si cucina più a casa
(servizio catering anche per single), si mangia nei fast food e si compensano le
carenze nutrizionali con integratori. Al ristorante atmosfera e intrattenimento
sono gli unici ingredienti richiesti. Non è un inedito incubo di Robert
Sheckley, o Thomas Disch, ma un macroscenario elaborato lo scorso anno da TNS
Infratest per conto della multinazionale Siemens AG, lo studio Horizons 2020,
che pone l'economia e la società di fronte a due scenari contrapposti. Nel
primo, di sapore arcadico, lo stato riacquista potere e impone un modello di
società basata su maggiore uguaglianza, libertà e sobrietà. Nella seconda
ipotesi, beh, che altro aggiungere. |
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