E così è nato Robi, il robot 3.0,
“una nuova generazione di androidi per le
famiglie”. A guardarlo, rimanda ai pupazzetti Lego
o Playmobil, ai puffi, e alla prima generazione di
esseri puramente digitali dopo il prototipo tamagochi,
gli emoticon. Rassicurante e affettivo, nella sua
espressione, nei suoi gesti. Sempre più approssimato
all’umano, certo, per l’aspetto antropomorfo, ma
prima di tutto per la somiglianza con i pupazzi di una volta, e per
l’espressione del “viso”, tenera anche se
fissa.
Pure, sotto sotto, inquietante, proprio per la sua
mimesi dell’umanità. Perché fin quando
il robot è stato evidentemente diverso
da noi, sintetizzato in un arto meccanico, o in generale in una
funzione, come nelle sue prime generazioni, era facile riconoscere e
valutare la distanza fra “noi” e
“loro”, ma man mano che “loro”
hanno cominciato a umanizzarsi, hanno iniziato a serpeggiare i dubbi
– sulla loro fedeltà, sulla loro sottomissione a
noi, i creatori.
Su questa dinamica la fantascienza
ci ha insegnato molto, ha già scritto il suo futuro
– il nostro presente – a partire dai suoi
“anni d’oro”, e ha provato a metterci in
guardia.
Ma si sa, se da una parte, come sosteneva
William Burroughs, “la fantascienza ha la cattiva abitudine
di avverarsi”, dall’altra, nascondendo le sue
(poche) intuizioni acute dentro il rumore di fondo delle troppe
profezie rivelatesi strampalate, non è riuscita a metterci
in guardia, come una moderna Cassandra dalla voce afona e raschiante.
La
storia degli uomini artificiali è lunga, ed è ben
più antica della fantascienza. In principio ci sono gli
automi, pupazzi meccanici più o meno truffaldini (a volte
gli artefici ci nascondevano dentro un nano, o un bambino) che venivano
costruiti per il diletto e la meraviglia degli aristocratici e degli
ingenui (cfr. quadernidaltritempi numero43).
Siamo
già dentro il mondo che cresce attorno ai paradigmi
razionali della scienza e della tecnica, radicato ancora,
però, dentro il sapere artigianale, percepito come fatto in
parti uguali di mestiere e magia. Un'epoca chiusa con la creatura del
dottor Frankenstein, il tentativo di sussumere la potenza del sacro
all'intelligenza dell'uomo, che però finirà con
il distruggere il primo e alienare il secondo nelle fabbriche
(cfr. quadernidaltritempi numero47, Moretti, 1978).
Solo dopo Frankenstein,
a partire dalla nascita della fabbrica e della metropoli,
può avvenire il primo radicale salto di grado nel percorso
che conduce a Robi, con l'affermarsi del paradigma seriale:
catena di montaggio, produzione in serie, operai di linea, che si
sintetizzano nel 1920 nei robot, quelli di R.U.R.
di Karel Čapek, per intenderci, che ha anche il merito di battezzarli.
Che però sono metafora degli uomini agganciati alla catena
di montaggio, non alludono ancora alla minaccia di sostituirsi a noi.
Anzi, sono come degli araldi, simboli del rischio di annullamento della
nostra individualità, quella di cui scrive sempre nel 1920
Evgenij Zamjatin in Noi. A pensarci, due percorsi
convergenti, con al centro sempre l’umano, però, e
i rischi di disumanizzazione che corre con l’affermarsi della
modernità. Un tema mai sopito, e che periodicamente
riemerge, mutatis mutandis.
Dobbiamo aspettare il 1927 e Metropolis
di Fritz Lang e di Thea von Harbou perché il primo
robot prenda sembianze umane e si sostituisca ad uno di noi, alla
protagonista del film – naturalmente con intenti malvagi.
Più tardi, leggiamo nel “Paris-Midi”
del febbraio 1939 un brano intitolato Fabrication
des Robots in cui si legge, a proposito
dell’Esposizione universale di New York:
“… le public pourra admirer toute une
série d’automates se rapprochant
extraordinairement de l’étre humain […]
le cerveau de cet automate réagit aux ondes sonores
qui, transformées en courant
électriques, actionnent des relais cachés dans
son corps…” (cfr. Mabille, 1962).
Nonostante
la mimesi perfetta il robot di Lang è ancora meccanico,
interamente dentro il regime della macchina, seppur emancipata da ogni
illazione soprannaturale. Per passare al livello successivo, il 2.0,
potremmo dire, dopo le anticipazioni di
“Paris-Midi” bisognerà aspettare la fine
della Seconda guerra mondiale, e la combinazione di
elettricità, meccanica e calcolo che
sarà la cibernetica.
E, insieme a questa, la
neutralizzazione del rischio che i robot potrebbero rappresentare: le
“tre leggi della robotica” istituite da Isaac
Asimov nella lunga serie di racconti e romanzi dedicati fra il 1940 e
il 1982 al tema per i suoi robot “positronici”, per
disinnescarne l’eventuale potenziale di pericolo nei
confronti degli umani – proprio quando cominciano a diventare
indistinguibili da noi, quando cominciano a rischiare di
pensare.
Tanto che Robert Sheckley nel 1953 decide
di avvertirci in Mai toccato da mani umane che
“i robot non hanno un’anima (per) risparmiare loro
l’angoscia e il dolore” (Sheckley,1962). Anche se
è lecito sospettare altro: l’angoscia e il dolore
hanno come contrappunto il desiderio, la gioia, l’amore,
l’odio, il riscatto…
I robot di Asimov sono blindati, non possono fare
del male agli umani. E diventano il calco di tutti i robot successivi.
Almeno fin quando si sviluppano e sopravvivono la modernità
e l’organizzazione fordista del lavoro – e
soprattutto le ultime derive moderniste del mito del progresso
alimentate dal benessere del secondo dopoguerra.
Ma le cose
sono destinate a cambiare. La modernità si esaurisce nel
tardo moderno, la fabbrica taylorista come paradigma sociale
complessivo si trasforma, e – soprattutto – la
cibernetica, l’elettronica mutano in informatica,
digitale, virtuale. Non
è un semplice cambio di nome, ma di paradigma, appunto.
È il calcolo, dei tre elementi della
cibernetica, a diventare egemone, a prendere il sopravvento:
l’immateriale e il sintetico, il segno privo di referente.
L’universo della realtà sintetica diventa sempre
più grande, profondo, rischia di diventare autonomo
dai suoi creatori (Caldieri, 2011). E con lui le sue
periferiche, che ora sono non più robot, ma cyborg,
androidi, sintesi simbiotiche di carne, metallo,
plastica. Terminator e replicanti. O addirittura esseri fatti di pure
stringhe di codice, come gli agenti del cyberspace nel Matrix
del 1999.
Se vogliamo anche qui – con un
esercizio comunque artificioso – fissare un anno di nascita
per questi robot già 3.0, possiamo scegliere il 1973, che lo
storico dell’economia David Harris sceglie per battezzare il
passaggio dal moderno al postmoderno: è l’anno
della crisi petrolifera globale, e – nello stesso anno
– dell’uscita sugli schermi di Il mondo
dei robot di Michael Crichton, in cui i robot che popolano
il grande villaggio-vacanze multitematico che li ospita per il piacere
degli esseri umani, copia perfetta di questi, improvvisamente si
ribellano agli uomini.
Questi androidi, i primi a
essere progettati e costruiti da altri robot, si ribellano
cominciando ad avere una propria volontà, emozioni,
autonomia. Fra loro, forse si è diffuso un virus capace
di mutarli in profondità? Di dargli una sorta di
autocoscienza? E badiamo bene: ce l’ho zampino di altre
macchine, in questa trasformazione? Quelle che li hanno progettati? Che
si emancipano attraverso la propria progenie? Propendiamo per il
sì.
Il mondo dei robot si
rivela come un punto di arrivo per le prime generazioni di robot, ma
anche un punto di partenza da cui si dipartono due opzioni: la prima,
quella del 1982 del Blade Runner firmato da Ridley
Scott, per così dire, in cui sono gli stessi umani che, in
una arrogante e ossessiva ricerca prometeica, realizzano artefatti
talmente perfetti – i replicanti –
da dargli senza volere anche emozioni, quindi umanità;
la seconda, che viene dal Terminator del 1984 di
James Cameron e Matrix, che
siano le stesse macchine a produrre propri avatar del tutto privi di
empatia, macchine di distruzione totale per annichilire o soggiogare
gli esseri umani.
E alla fine tutti gli aidoru
immaginati dalla science fiction di ispirazione cyberpunk per la
letteratura e il cinema, più o meno affascinanti,
più o meno pericolosi, da quello di William Gibson alla
S1m0ne che Andrew Niccol gira nel 2002 (cfr. quadernidaltritempi numero19),
i più ambigui, i più suadenti, i più
seduttivi.
Ma davvero è soltanto la totale
fungibilità fisica con gli esseri umani
da farci percepire i robot 3.0 come così inquietanti e
pericolosi? Il rischio di confonderli con noi? E magari di provare
empatia per loro – in fondo i nostri servitori, nostre
creature vicarie – di stringerci amicizia, di innamorarcene
addirittura, per poi scoprirne la vera natura, rimanere delusi, o
peggio essere traditi e sottomessi o eliminati da loro, una volta
abbassata la guardia, come succede in L’invasione
degli ultracorpi, anche se per mano di creature
aliene?
Tutto ciò avviene puntualmente, ed è quello il punto focale, il vero scacco: è quando questi artifici animati – da noi, in prima battuta (come nel film di Crichton) o indirettamente (come in quelli di Cameron e dei fratelli Wachowski) – acquistano consapevolezza, autocoscienza, autonomia, un Sé riflessivo (Giddens, 1999), e quindi emotività e affettività che il gioco si fa troppo duro, intollerabile, ingestibile.
A meno che non diventino i nostri doppi,
i nostri sosia, come in Il robot che sembrava me di
Robert Sheckley, pubblicato nel 1974 (Sheckley, 1979) o in Il
mondo dei replicanti del 2009 (Mostow, 2010), poco
più però, questi ultimi, che mezzi di trasporto
superaccessoriati che portano in giro la nostra identità, il
nostro Sé. Quasi un modello iperperfezionato, ma privo di
qualsiasi parvenza di coscienza, della Supercar della
serie Tv degli anni Ottanta del secolo scorso, in cui, per inciso, non
solo compare in un episodio (1x9, 1982) un “gemello
cattivo”, ma di cui in parallelo alla serie fu messo in
commercio negli Usa anche un kit di montaggio, come per il nostro
Robi.
Sono tempi di incertezze e disincanto, di
interrogativi sulla natura della propria identità, del Sé,
che si riflettono ampiamente nella letteratura e nel cinema, lungo il
corso di un’onda che ha marcato tutto il Novecento (Fattori,
2013) – e che si riflette sulle creature a noi più
vicine, i nostri simulacri, come li
battezzò nel 1965 sintetizzando il tema Philip Dick,
addirittura trasferendo in loro i nostri interrogativi (Dick,
2007), come nel magistrale, vertiginoso Impostore
pubblicato nel 1953 (Dick, 1994), in cui il protagonista, convinto che
quella di essere un robot-kamikaze, un nemico, sia un’accusa
ingiusta, morirà stupefatto dalla scoperta della
verità nel momento in cui esplode. Un Dick seguito a ruota
da Richard Matheson che nel 1963 pubblica Deus ex machina (Matheson,
1984), in cui il protagonista, tagliandosi una mattina mentre si fa la
barba, scopre con raccapriccio che invece di sangue perde
olio…
Uno dei luoghi comuni della
“cultura” fantascientifica ruota intorno alla
convinzione che Philip Dick, maestro indiscusso del dubbio sullo
statuto della nostra percezione della realtà e di chi la
abita, abbia sempre visto con sospetto i robot e il loro possibile
avvento. E da alcuni racconti quest’idea viene confermata. Ma
Dick è anche l’autore, nel fatidico 1968 di Il
cacciatore di androidi (Dick, 1971), da cui verrà
tratto Blade Runner, un inno, crediamo,
all’umanità dei nostri simulacri artificiali, i
“replicanti”: feroci con i loro nemici, ma capaci
di emozioni profonde, di generosità, di dolore –
di empatia, insomma. Ed è prima di tutto maestro
nell’instillare il dubbio sul nostro intero rapporto con il
reale, di cui i robot sono solo un dettaglio, se si vuole, che
partecipa delle nostre incertezze.
Allora il dubbio diventa
un’altro: attribuiamo ai nostri simulacri (robot, androidi,
cyborg) una pericolosità per così dire, genetica,
connessa alla loro natura artificiale, o proiettiamo, su questi nostri doppi,
i dubbi che abbiamo su noi stessi?
Li temiamo
perché sono diventati troppo simili a noi: indistinguibili
nell’apparenza, certo, ma anche nella sostanza. Plastica,
metallo, gomma smettono di essere una prigione, diventano corpo,
luogo di un’anima, che non può
essere sottomessa, obbedire, agire senza pensare, sentire, scegliere. E
quindi diventano pericolosi – per la nostra
incolumità fisica, certo, ma prima di tutto per la salute
della nostra anima, di cui riflettono il dolore, la sofferenza, le
incertezze. Sono lo specchio in cui ci riflettiamo.
Gli
“uomini” artificiali hanno, in pratica,
accompagnato tutta la storia della modernità. Emergendo dal
soprannaturale ed evolvendosi dal golem, si sono proposti come automi,
come robot, come simulacri fatti di organico e artificiale (Fattori
2003 [a cura di], etc.dal.ca/belphegor), contrappuntando
l’evoluzione del rapporto degli umani col mondo, con il
sociale, con se stessi. Fino a attualizzare secolarizzandola la figura
mitica del doppio, che ci copia completamente, che
potrebbe sostituirsi a noi, che è noi:
il simbionte (De Feo, 2009) o il clone
(Baudrillard, 2007).
E che comincia a insinuarsi di soppiatto
nelle nostre case, rivolgendosi ai bambini, usando come cavallo di
Troia il piccolo, buffo, tenero Robi, assemblato da noi stessi. Chi ne
sospetterebbe?
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