I protagonisti assoluti delle prime scene di Guerre
stellari del 1977 sono due robot. Uno è alto,
dorato, dinoccolato e parla come un essere umano; l’altro
è basso, tozzo, senza alcun attributo umanoide e si esprime
con cinguettii e cigolii. C-3PO e R2D2 rappresentano alla perfezione le
due diverse facce della robotica. Quella dei robot
“belli” che ha alimentato per decenni
l’estetica fantascientifica e ispirato gli ingegneri nel
realizzare automi quanto più simili agli umani, con tratti
rassicuranti e affidabili, come nel caso di Robi (presentato appunto
come un “androide”, ossia un robot dalle sembianze
umane); e quella dei robot “brutti”, che
generalmente non associamo al concetto stesso di robot e che, tuttavia,
sono ovunque intorno a noi, come spiega anche Illah Reza Nourbakhsh,
docente di robotica alla Carnegie Mellon University nel suo ultimo Robot
fra noi (Nourbakhsh, 2014).
Nel settore della
domotica, per esempio. Il termine, che sottintende una penetrazione
della robotica nelle nostre case, indica un vasto insieme di
innovazioni tecnologie per la gestione intelligente della casa che
generalmente non associamo all’immaginario dei robot. Eppure,
nei centri commerciali sono etichettati come “robot da
cucina” le grosse apparecchiature che fungono da frullatori,
spremiagrumi, tritatutto, sminuzzatori e grattugie. Più
costosi e recenti sono i robot aspirapolvere a forma di disco: dotati
di quel po’ di intelligenza necessaria a costruirsi una mappa
mentale dell’abitazione, la ripuliscono a fondo in autonomia
e, quando scaricano le batterie, tornano da soli alla base per
ricaricarsi. A lungo annunciato, l’ingresso trionfale dei
robot nelle case è ancora lontano, mentre per converso
è da tempo che la robotica domina i luoghi per eccellenza
della produzione: le fabbriche. I primi bracci automatici hanno fatto
la loro comparsa nelle industrie automobilistiche negli anni Settanta
del secolo scorso, e oggi si occupano di quasi tutti gli aspetti
più complessi e delicati della costruzione di
un’automobile lungo quella catena di montaggio che un tempo
era rappresentata come la catena che legava l’operaio alla
schiavitù del lavoro. Non è forse per questo, per
liberare gli esseri umani dalle fatiche del lavoro, che sono nati i
robot, come il loro termine ci ricorda? Per essere
utili e versatili, non devono certo essere belli. E infatti non lo
sono, né lo vogliono essere. Il rischio più
grande, tuttavia, è che risultino anche antipatici. Lo sono
per esempio in Abissi d’acciaio, il
romanzo di Isaac Asimov che si apre con una sommossa popolare in un
quartiere di New York contro il commesso robot di un negozio di scarpe.
Anche se quelli di Asimov sono androidi che tentano in tutti i modi di
assomigliare agli umani per risultare più gradevoli e
simpatici, resta il fatto che i robot sono lì per toglierci
il lavoro. E in un mondo sovraffollato – come quello di Abissi
d’acciaio ma anche come il nostro mondo reale
– perdere il lavoro per colpa di un robot non è
per niente simpatico. Dopo la fase dell’outsourcing,
ossia dell’esternalizzazione verso paesi dove il costo del
lavoro è più basso, che ha portato
all’aumento della disoccupazione nei paesi più
industrializzati, stiamo ora entrando nell’epoca del robosourcing,
come Al Gore l’ha definita recentemente (Gore, 2013).
Il robosourcing è la strategia che grandi
corporation mettono in campo per abbattere il costo del lavoro,
sostituendo i lavoratori umani con le macchine. Sembra uno scenario da
distopia fantascientifica, ma è già
realtà, anche se non ce ne accorgiamo, dato che finora
nessuno è stato messo alla porta da un androide assunto per
il suo curriculum migliore. Il robosourcing avviene
in maniera molto più silenziosa, così come nel
silenzio si sta svolgendo da decenni la grande rivoluzione della
robotica. Lo spiega bene Nicola Nosengo nel suo libro I robot
ci guardano, nel quale sottolinea come i “robot
brutti, ma utili” stiano compiendo una rivoluzione identica a
quella informatica dei decenni passati: “È la
stessa cosa che si poteva dire dei computer fino ai primi anni Settanta
del secolo scorso: esistevano eccome, erano già fondamentali
in molti settori, ed erano molto utilizzati in particolare dagli
scienziati e dai militari (due categorie che sono quasi sempre le prime
a sperimentare le nuove tecnologie […]). Ma la maggior parte
della gente non aveva mai visto da vicino un computer, al massimo ne
leggeva sui giornali. Il che non vuol dire che i computer non
influenzassero già in molti modi la vita delle
persone” (Nosengo, 2013).
Non ce ne rendiamo conto,
ma i robot sono già intorno a noi. Così come la
rivoluzione informatica ha stravolto il mondo
dell’occupazione, cancellando interi settori professionali e
facendone nascere di nuovi, così la rivoluzione della
robotica sta cambiando il mondo del lavoro. I bracci robotici nelle
fabbriche tolgono posti agli operai umani, ma i bracci robotici nelle
sale operatorie non tolgono di mezzo i chirurghi. Ciò in
quanto il robosourcing, così come in
precedenza quello che potremmo definire il computersourcing,
impatta sulle categorie occupazionali meno specialistiche e
più facilmente rimpiazzabili: la manovalanza, per dirla in
una parola. Esattamente come, nel XVIII secolo, i nuovi telai meccanici
toglievano il lavoro a tutto un sottobosco di maestranze che si
guadagnava da vivere con la tessitura nei mesi morti della campagna,
prima del periodo della raccolta. Ora anche nei paesi dove da anni le
grandi multinazionali hanno spostato le loro fabbriche, per usufruire
dei costi del lavoro più bassi, il robousourcing
minaccia di tagliare milioni di posti di lavoro. È il caso,
per esempio, della Foxconn, la potentissima compagnia taiwanese che si
occupa, tra le altre cose, della produzione degli iPhone e di tutte le
altre meraviglie più innovative dell’industria
elettronica. Costretta negli ultimi anni ad aumentare gli stipendi per
adeguarli alle richieste dei sindacati, la Foxconn sta lavorando per
raggiungere il milione di unità robotiche impiegate nelle
sue catene di montaggio, sostituendo gradualmente il personale umano. A
tal proposito pochi mesi fa ha stretto un accordo con Google, che si
è di recente gettata nell’affare della robotica,
probabilmente con l’obiettivo di dar vita a tutta una nuova
generazione di robot di massa da impiegare nelle linee di produzione
industriali.
Anche in questo caso non bisogna aspettarsi
automi dalle fattezze umane e magari con un’intelligenza
artificiale come quella che Asimov immaginava con i suoi
“robot positronici”.
Per Google, che ha assunto a capo del suo nuovo dipartimento di ricerca e sviluppo sulla robotica il futurologo e inventore Ray Kurzweil, gli androidi hanno poco a che fare con C-3PO e molto più con i sistemi operativi Android che girano sugli smartphone Samsung e su un numero crescente di tablet. Il logo di Android è, come la parola lascia immaginare, un simpatico robottino verde, con un design più vicino a quello di Robi che agli attuali robot industriali. Però sostanzialmente non è altro che una sofisticata architettura software, immateriale e pervasiva. Il salto di qualità nel lavoro di Google con i robot sembra scontato dato il coinvolgimento di un guru come Kurzweil nel top management del colosso della Silicon Valley. Convinto assertore della singolarità tecnologica che entro il 2029 dovrebbe portare l’intelligenza artificiale a superare quella umana, sostenitore di metodi per raggiungere l’immortalità, si dice che Kurzweil prenda 150 pillole al giorno e settimanalmente si faccia iniettare in vena un cocktail di vitamine, integratori alimentari e coenzima Q10. Ha diciannove dottorati e uomini di tutto rispetto come Bill Gates sostengono che sia un genio: un personaggio, insomma, che sembra uscito da un romanzo di fantascienza di Robert Heinlein o da un tecnothriller di Michael Crichton.
La mossa più
importante finora compiuta da Google dopo l’assunzione di
Kurzweil è stata l’acquisizione di alcune delle
più importanti start-up americane che lavorano nella
robotica, tra cui la Boston Dynamics che lavora con la Darpa per la
costruzione di soldati-robot. Una mossa che potrebbe suonare come un
campanello d’allarme per chi, abituato a film come Terminator,
non può fare a meno di pensare che i robot siano destinati a
sfuggirci di mano e trasformarsi in macchine di distruzione. Dopotutto,
scenari del genere sono già di attualità. I droni
che bombardano chirurgicamente – o almeno dovrebbero
– i territori martoriati dell’Afghanistan e del
Pakistan per uccidere terroristi islamici non sono altro che robot.
Secondo il futurologo Richard Watson, nel 2020 un terzo dei veicoli
militari umani farà a meno di guidatori umani ed entro il
2021 un quarto dell’esercito americano sarà
costituito da robot (Watson, 2013). I droni sono solo
l’avanguardia. Gli Stati Uniti si sono già dotati
di prototipi di robot chiamati Eatr (Energetically Autonomous Tactical
Robot) semoventi, dotati di motori a biomasse e di bracci robotici in
grado di raccogliere dal terreno il materiale necessario per
alimentarsi, distinguendo anche, grazie a un’intelligenza
artificiale dedicata, cosa è adatto come combustibile e cosa
no. Robot di questo tipo somigliano alle famose macchine di Von
Neumann, immaginate negli anni Quaranta del secolo scorso dal
matematico John Von Neumann: robot in grado di autoreplicarsi
attingendo dalle risorse naturali a disposizione sul posto, che
civiltà intelligenti potrebbero utilizzare per esplorare
l’intera galassia nel giro di pochi milioni di anni. Ma che
potrebbero anche sfuggire al controllo del creatore, come accade
nell’episodio La sfida della serie
classica di Star Trek, dove una sonda terrestre che
non riconosce più i suoi costruttori minaccia la
sopravvivenza dell’equipaggio dell’Enterprise.
A
maggio di quest’anno le Nazioni Unite terranno un summit sul
tema dell’uso militare dei robot per individuare i rischi
connessi e suggerire possibili limitazioni al loro utilizzo. Sebbene
oggi i robot da guerra non facciano altro che obbedire ai comandi degli
esseri umani, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale punta
a dotare queste macchine di una certa autonomia decisionale. Una cosa
del genere, sul piano degli utilizzi civili, è
già in fase avanzata di sviluppo alla Nasa, che conta di
rendere i prossimi rover di esplorazione di Marte e degli altri corpi
celesti quanto più autonomi possibile da Terra, in grado
cioè di stabilire da soli i propri obiettivi di ricerca e le
strategie migliori per raggiungerli.
Ad ogni modo,
difficilmente vedremo in giro robot come quelli di Terminator,
per un motivo molto semplice: non ne abbiamo bisogno. Una macchina
costruita per compiere il lavoro al posto di un essere umano
è pensata per compierlo meglio; un paio di occhi, un naso e
una bocca difficilmente possono servire a svolgere il compito previsto.
Sono quindi pochi i motivi che spingono a costruire robot antropomorfi,
oltre al gusto di esporli alle fiere. Il celebre ASIMO della Honda,
superstar di livello internazionale, assomiglia a un astronauta ed
è goffo esattamente come un astronauta sulla Luna. La sua
utilità è limitatissima. L’Italia in
questo campo è all’avanguardia con iCub, il
piccolo robot dalle fattezze di un bambino che gli sviluppatori
dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT) sostengono sia in
grado di imparare in modo simile a un bambino umano. Ora
l’IIT sta lavorando a un nuovo androide, CoMan, pensato per
affiancare gli esseri umani in ambienti di lavoro rischiosi o in
situazioni di emergenza. Con un concorso aperto a tutti,
l’IIT ha chiesto al grande pubblico di disegnare la faccia di
CoMan. Non è un caso. Il problema principale con i robot
“belli”, con quelli che somigliano a noi,
è che spesso sono inquietanti. Se davvero si vuole costruire
un robot antropomorfo con cui lavorare quotidianamente, è
necessario che abbia delle fattezze non inquietanti. “Dal
punto di vista psicologico, questo è quel che accade:
riconosciamo in alcuni robot un aspetto
«naturalistico», che imita la natura umana, dopo di
che ci accorgiamo di una serie di caratteristiche non umane che portano
a un sentimento di disagio, alienazione o addirittura
disgusto”, spiega Richard Watson (ibidem).
“I personaggi dei fumetti, gli avatar
«fumettosi» e i giocattoli da accudire, al
contrario, non presentano lo stesso livello di minaccia
perché non stanno cercando di ingannarci sulla loro
umanità. Forse questi aspetti sono legati a un antico
istinto di protezione e di conservazione della specie; oppure, forse,
abbiamo visto troppi film di fantascienza con un tocco noir” (ibidem).
Ecco spiegato perché Robi e iCub hanno le fattezze di un
bambino.
Una delle frontiere più promettenti dello
sviluppo della robotica domestica è quella dei robot
“badanti”. Questo settore – che tra le
altre cose minaccia di far scomparire un’intera categoria
occupazionale, non a caso tra quelle meno specialistiche, quella degli
assistenti familiari – è oggetto di ambiziosi
programmi di ricerca e sviluppo. Le proiezioni rivelano infatti che nei
prossimi decenni il numero di persone anziane e sole, bisognose di
assistenza che le loro famiglie non sono in grado di sostenere,
crescerà in modo esponenziale nell’Occidente
avanzato. La soluzione di affiancare a queste persone dei robot badanti
è anche una promessa di business. Il progetto Robot-Era, in
fase di sperimentazione in affiancamento a persone anziane in Italia e
Svezia, si compone di tre diverse figure robotiche: una per uso
domestico, che assiste l’anziano nelle terapie e nelle
faccende di casa; una per uso condominiale, con finalità di
sorveglianza, ma anche di smistamento della posta e altri servizi; e
una per uso esterno, che accompagna gli anziani a passeggio o va a
gettare la spazzatura. I tre robot hanno fattezze umane e simpatiche,
“fumettose” e infantili, rassicuranti. Ma non
è detto che debbano per forza assomigliare agli esseri
umani. Un altro progetto internazionale concorrente,
“Guardian Angels”, fa a meno degli androidi e anzi
punta a realizzare un intero esercito di nano-robot. Potranno essere
messi in una tasca o addirittura impiantati sottopelle, per informarci
costantemente sulle nostre condizioni di salute, per esempio, e
inoltrare queste informazioni al medico curante; potranno guardare il
mondo esterno al posto di persone cieche o con ridotte
capacità visive, e guidarle per la strada; e potranno anche
percepire le nostre emozioni, il nostro stress o depressione, e
aiutarci a risolvere una serie di problemi non solo fisici, ma anche
mentali. La battaglia è, insomma, tra il modello C-3PO e il
modello R2-D2. Il primo è quello che associamo ai principali
successi della robotica moderna, ma è il secondo che sta
penetrando silenziosamente nelle nostre vite e ci farà
presto entrare in un vero e proprio “mondo dei
robot”.
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