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“Uno sparo improvviso”, “una lama nel buio”, “un grido nella notte”, fino al più classico di tutti, “Una porta sbatté”. Solo alcuni dei possibili incipit di un racconto di suspence: un thriller, un giallo, un racconto fantastico, forse… Tutte narrazioni che pongono al loro nucleo il perturbante. Magari, quelli citati, mai veramente usati da nessuno scrittore, nati già come luoghi comuni, usati in senso ironico e ormai del tutto sterilizzati nella loro eventuale forza narrativa, nella capacità di incuriosire il lettore, di avvincerlo, di uncinarlo al testo. O, se traslati in un audiovisivo, di agganciarne ad un televisore gli occhi – magari fino ad un attimo prima distratti, attratti solo casualmente e subliminalmente dal suo schermo, mentre svolge la funzione di “acquario”.
Come “Uno squillo in piena notte”, il telefono che suona nel buio, strappando di colpo al sonno, con un sussulto, chi dorme in casa. Meglio ancora se vive da solo, o comunque è da solo. Invadendone, lacerandone la privacy (l’handicap dei telefoni fissi, prima che sorgesse l’epoca dei cellulari, che – come la Tv – si possono sempre spegnere, era che quasi nessuno pensava di staccarli).
Pure, questo è l’inizio di Chiamata notturna (tratto da Una chiamata da lontano, 1953), l’episodio 139, trasmesso nel 1964, di una serie capitale nella storia della televisione e dell’immaginario contemporaneo, Ai confini della realtà, scritto da Richard Matheson e diretto da Jacques Tourneur (il regista di quel piccolo capolavoro che è Il bacio della pantera, per intenderci, tipica e magistrale produzione della RKO, del 1942). Un maestro di quell’idea di cinema horror che vuole che in un film faccia molto più paura di ciò che vediamo, ciò che ci viene fatto solo intuire, un vuoto che, da spettatori, siamo costretti a riempire da soli, con i nostri terrori e incubi personali, completando così ognuno a modo nostro il montaggio del film, e dando senso pieno al concetto di “finish del consumatore”.
Ma raccontiamone prima di tutto la trama, di questo telefilm.

 

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Elva è una donna anziana, invalida, che vive da sola, ormai – presumibilmente – chiusa nei suoi ricordi, nei rimpianti legati al passato, ed in una vita priva di prospettive. Improvvisamente, nel pieno delle notti solitarie della donna, il telefono comincia a squillare. Elva risponde, chiedendo chi è che la chiama, ma all’altro capo non risponde nessuno, se non, dopo un po’, dei gemiti lontani. Finché, una notte, una voce esclama: “Pronto, dove sei? Vorrei parlare con te!” La donna, terrorizzata, urla alla voce di lasciarla in pace, di lasciarla sola.
Elva, seppur spaventata, comunque non si perde d’animo, vuole saperne di più: attraverso la compagnia che gestisce la linea telefonica risale all’origine delle chiamate e scopre, accompagnata dalla sua governante, che si tratta di una linea telefonica interrotta, il cui capo poggia proprio sulla tomba di Brian, il suo ex fidanzato, morto ormai da molti anni.
La scoperta risveglia nella donna tutti i ricordi legati a quegli anni, e alla sua relazione con Brian. 
E così Elva si ricorda che da giovane era decisamente autoritaria e insistente e riusciva sempre a “fare quel che diceva”, quindi a convincere Brian, ogni volta che c’era da prendere una decisione, a fare a modo suo. Fino al giro in macchina di una settimana prima delle nozze: Elva aveva insistito per stare lei al volante, aveva perso il controllo dell’auto, il fidanzato era morto, lei era rimasta invalida. E oltre ai ricordi, si risvegliano sentimenti e rimpianti: ritrovato il fidanzato, non vuole più rimanere da sola – anche se nella bizzarra condizione in cui il loro legame dovrebbe riprendere. Per cui comincia lei a chiamare il numero di telefono da cui riceveva le chiamate notturne, fin quando l’ex fidanzato le risponde. Ma la replica di Brian, alla richiesta di Elva di continuare a risponderle, è definitiva e ineccepibile: non le telefonerà e non le risponderà più. Elva gli ha chiesto di lasciarla sola. E “lei fa sempre quello che dice”.

 

q44_m02Il telefono rimane muto, morto, lasciandola così di nuovo sola, a piangere nel suo letto, pensando al passato che avrebbe potuto essere e a un futuro che non era mai stato – e al suo presente: squallido, deprimente, morto
Il telefilm – e il racconto da cui è tratto – ha le cadenze della parabola, una parabola circolare, che si richiude sulle conseguenze stesse della referenzialità dei desideri espressi dai personaggi. Come ogni racconto morale dovrebbe fare, secondo una logica che sia inoppugnabile. In questo caso, quella della “profezia che si auto realizza”? O piuttosto della logica adamantina della vendetta delle cose sulle parole espresse avventatamente, grazie allo “scaltro genio dell’oggetto” (Baudrillard, 1983) che ci mostra la nostra impotenza? Sicuramente, siamo completamente dentro quella “quinta dimensione” su cui ci hanno aperto gli occhi le storie di The Twilight Zone, di cui sicuramente uno dei mappatori più meticolosi e sottili è Richard Matheson, la cui missione sembra essere il mostrarci come l’immagine che abbiamo dell’universo in cui viviamo è molto più approssimativa e ottimista di quanto invece questo sia crudelmente ironico. 
La forza dei suoi racconti – e poi delle sue sceneggiature per la Tv: per Ai confini della realtà, per Star Trek (se ne parla in questo stesso numero), per Alfred Hitchcock Hour  – è proprio questa: la maestria nel sollevare qualche lembo del velo che opacizza parte delle leggi delle cose, e farcene intravvedere gli effetti attraverso parabole spietate. In un senso quasi kafkiano, almeno nel senso che dà al lavoro di Franz Kafka Walter Benjamin secondo Theodor W. Adorno (1972): “La prosa di Kafka […] Benjamin l’ha giustamente definita parabola”. Adorno poi aggiunge: “Essa non si esprime mediante l’espressione, bensì mediante il rifiuto di quest’ultima, un’interruzione. Si tratta di parabole di cui è stata sottratta la chiave”. 
Ecco, qui c’è una parentela diretta. Nel caso di Matheson questo è meno evidente, forse. Ma c’è. Nei romanzi e nei racconti – sia in Kafka che nell’americano. E forse in questa “missione” il racconto, rispetto al romanzo, si presta meglio. Per affinità con la forma della parabola. 
E infatti la forma racconto – la forma più pura di narrazione secondo Ian McEwan – è quella in cui Richard Matheson eccelle: è lì che la sua spietata capacità di creare macchine narrative perturbanti e perfide raggiunge il suo zenit. E il racconto ben si adatta a diventare telefilm. Questione di durata, della lettura del racconto, e della visione del telefilm.
Edgar Allan Poe, nella sua lucida visione di ciò che sarebbero state la società e la cultura di massa, aveva teorizzato questo aspetto già a metà del XIX secolo nel suo Filosofia della composizione (1974): “Se un’opera letteraria è troppo lunga per essere letta in una sola seduta, dobbiamo rassegnarci a fare a meno dell’effetto immensamente importante che deriva dall’unità di impressione – poiché, se si richiedono due sedute, intervengono gli affari del mondo, e qualunque caratteristica di totalità vien subito distrutta.” Poe, promuovendo il racconto, promuove senza saperlo il cinema, e il telefilm. Il genere di racconto in cui lo scrittore americano eccelle è il racconto dell’orrore soprannaturale, così come lo avrebbe definito poi Howard Phillips Lovecraft (2011) www.quadernidaltritempi.eu/numero32), e così come lo avrebbe riarticolato, in tempi di disincanto “fantascientifico”, Rod Serling nella sua Twilight Zone, annullando la presenza del sacro, ma salvandone tutto il senso di spaesamento e straniamento che fa da nucleo del soprannaturale più ancestrale e arcaico, quello selvaggio, feroce, disumano, e spostandone il centro di gravità dalla sfera del magico a quella – profana, ma non meno inquietante – di ciò che delle leggi che governano la realtà non possiamo sapere, e che è inutile sperare di scoprire.
Ed è in questo che Richard Matheson è maestro.

 

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Potremmo immaginare che però, a differenza delle forze che risiedono negli universi del soprannaturale, che siano quelli primigeni delle comunità più arcaiche, quelli tradizionali delle varie religioni o quelli esplorati dai maestri dell’orrore soprannaturale, come i “Grandi Antichi” di Lovecraft o il Re rosso e la sua blasfema corte negli inferni di Stephen King, in Matheson le potenze evocate dal maldestro comportamento degli uomini siano molto più impersonali e intrinseche alla logica stessa delle cose: le catene di cause e di effetti sono asintotiche, ferree, inossidabili. E non fanno sconti. Pongono dilemmi morali che non ammettono vie di scampo, come in The Box (2010), di cui Richard Kelly (che esordì nel 2001 con Donnie Darko) ha diretto nel 2009 la versione cinematografica (2013). Oppure stringono in una morsa senza vie d’uscita i malcapitati. Non c’è speranza, come non c’è libero arbitrio. Una visione calvinista delle cose, ma del tutto “demagizzata”, perché non c’è neanche predestinazione: domina una dinamica dei rapporti di causa/effetto fra i fenomeni che viene innescata volta per volta dai comportamenti umani – inusuali o banali, attuali o pregressi, dei personaggi che vediamo in scena o di qualcun altro di cui non sappiamo nulla – di cui comunque intuiamo, quando non è evidente come nel caso delle azioni di Elva, che una qualche causa prima ci sia, ormai inafferrabile, giacente in un luogo opaco allo sguardo, in un momento disperso nel tempo…
Richard Matheson colloca il grosso della sua sterminata opera proprio in quel periodo della storia della science fiction che vede il divergere delle due sue anime: quella hardware, muscolare, “coloniale” che prosegue (il suo tronco forte, per certi versi), e quella più interrogativa, riflessiva, eccentrica. Che per esprimersi deve recuperare le radici che affondano nel fantastico, piuttosto che nel positivismo, nel dubbio permanente, invece che nella fiducia nella razionalità. Nell’inquietante e nel perturbante, seppur del tutto secolarizzati, sterilizzati da qualsiasi allusione al sacro. E quindi trasla le ragioni dell’esercizio del dubbio e dell’interrogazione sulla natura del reale e sulla nostra relazioni con questo in una dimensione laicizzata, certo, ma non per questo meno imperscrutabile. 
Un’applicazione della condanna di Martin Lutero del libero arbitrio nella sua invettiva contro Erasmo da Rotterdam, “L’oscurità della sola fede, dove non brilla né legge né ragione” da cui però è stata esclusa la fede, lasciando un baratro, un abisso che i personaggi di Matheson (e noi lettori/spettatori) non sanno come colmare. Innescano o si ritrovano in catene di cause/effetti – le “stringhe” di cui scrive Stephen King in 22/11/’63 (www.quadernidaltritempi.eu//numero36)? – che li maciulleranno. 
Non c’è speranza, insomma. Noi umani non abbiamo strumenti per decifrare – e disinnescare – le leggi che intervengono dall’altrove nelle nostre vite quando, per caso o per le scelte che facciamo, incrociamo gli effetti della loro azione. 
Scrivevamo più sopra di un possibile accostamento fra Kafka e Matheson, sulla scia delle riflessioni di Adorno e Benjamin. E c’è un racconto in particolare del praghese che offre ulteriori spunti alle nostre riflessioni, La tana ( www.quadernidaltritempi.eu/numero39). Il protagonista è un essere imprecisato, che si è costruito una tana, appunto, che è una piccola cittadella, completa di piazze, camminamenti, stanze. Dalla tana l’essere non si sposta mai, confortato dalla sicurezza che questa gli dà, spaventato dalla possibilità di uscire all’esterno – e dal rischio che la sua fortezza venga penetrata da chi ne vive al di fuori, un altrove di cui l’essere non sa nulla. 
In effetti, questo racconto può essere interpretato (Pecchinenda, 2013) come la metafora terminale della condizione umana contemporanea: costruiamo le nostre vite cercando di dotarle di un’architettura propria, unica, che ci faccia da scudo contro le minacce esterne, ma che ci impedisce contemporaneamente di guardare all’esterno. Nello stesso tempo, questo racconto – ancora una “parabola kafkiana” nel senso di Benjamin e Adorno? – è anche una possibile versione, attualizzata alla crisi del moderno, della caverna dei giganti di Platone, che ci propone uno sguardo deformato, bugiardo, della “vera” realtà. Solo che nella versione kafkiana la realtà esterna da cui la tana protegge il suo abitante non è necessariamente luminosa e promettente come quella di Platone, ma una sfera ostile, maligna, o quantomeno indifferente agli umani: è la realtà che Franz Kafka ha descritto nei suoi romanzi, negli altri suoi racconti – in cui non esiste tregua o speranza.
Ecco, a pensarci bene, l’universo che incombe sui protagonisti delle narrazioni di Matheson assomiglia a questo. Solo che non è possibile proteggersene: nella sua logica aliena e incomprensibile, astratta e indifferente, periodicamente intercetta l’illusoria realtà in cui viviamo, la nostra tana, la nostra caverna, e irrompe a frantumare le nostre vite.

 

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LETTURE

Adorno Theodor W., Prismi, Einaudi, Torino, 1972.
Baudrillard Jean, Le strategie fatali, Feltrinelli, Milano, 1983.
Lovecraft, Howard P., Teoria dell’orrore, Bietti, Milano, 2011.
Matheson Richard, Una chiamata da lontano (1953), in Tutti i racconti. Vol. I – 1950-1953, Fanucci, Roma, 2013.
Matheson Richard, , The Box, in Tutti i racconti. Vol. III – 1960-1993, Fanucci, Roma, 2013.
Pecchinenda Gianfranco, Lo stupore e il sapere, Ipermedium, S. Maria Capua V., 2013.
Poe Edgar Allan, Filosofia della composizione in Tutti i racconti e le poesie, Sansoni, Firenze, 1974.

 


 

VISIONI

AA.VV, Ai confini della realtà - Stagione 5, Dall’Angelo Pictures, 2007.
Kelly Richards, The Box, Keyfilms Video, 2013.