Le cose si mettono subito male nelle storie brevi di Richard Matheson. Gli attacchi dei suoi racconti lasciano immediatamente presagire la disavventura, il disastro, la deviazione dalla norma: ciò che andava bene fino a un attimo prima, ora non filerà più liscio e nel giro di poche pagine vedremo stravolta la vita del protagonista. Si avverte nel tono che il vento è cambiato e che qualcosa andrà storto a breve, che i fatti si metteranno subito male, o lo faranno presto, oppure finiranno di peggiorare. Avvisaglie in un paio di righe al massimo. La paranoia si addensa in modo uniforme, la paura avvolge i personaggi, li sconvolge e il disagio li colpisce inesorabilmente. Matheson inscena fulmineamente un dramma dove gli attori vedono feriti, offesi, violentati, o almeno trattati in malo modo i loro sentimenti. Tutto in breve. Ecco come prende le mosse Il nuovo vicino di casa:
“20 luglio
Era il momento di trasferirsi” (The distributor, 1958).
Di lì a poco il Male sotto le mentite spoglie di un candido vicino di casa inizierà a mettere tutti contro tutti nel quartiere dove si sistema per un po’.
A sua volta Il ragazzo tra le rocce, esordisce in questo modo:
“Gli uomini del Circle Seven stavano finendo il grande bricco di caffè quando Frank Bollinger vide la nube di polvere in lontananza” (Boy in the Rocks, 1955).
È l’inizio di un duello tanto impari quanto assurdo.
Ancora, questo è invece il magistrale incipt di Deus ex machina, episodio della miglior fantascienza sociologica/paranoide, a metà strada tra Frederik Pohl e Philip Dick:
“Tutto cominciò quando si tagliò con il rasoio” (Deus Ex Machina, 1963).
Il guaio è che tagliandosi, il protagonista, Robert Carver, si accorge di non perdere sangue ma olio.
Uno stile che il tempo non ha logorato. Nell’inedito fino a oggi Il prigioniero (The Prisoner, 2002), incubo che è degno erede di una lunga tradizione di sketches da universi concentrazionari (citando alla rinfusa: Franz Kafka, Friedrich Dürrenmatt, Thomas Disch, ma anche il Vladimir Nabokov di Invito a una decapitazione) parte in questo modo:
“Quando si svegliò giaceva sul fianco destro. Si sentiva sulla guancia una coperta di lana che lo pizzicava. Vide una parete d’acciaio davanti ai suoi occhi”.
In un’altalena di interrogatori e confessioni il
malcapitato anonimo prigioniero non eviterà la sua condanna.
Le
parole vanno spese con la massima attenzione in un racconto e solo un
maestro del genere, come lo scrittore di Allendale, New Jersey, poteva
farne una regola … non scritta… ma calata
nell’intimo della scrittura stessa, sempre asciutta, affilata
come la lama di un rasoio, essenziale, scattante, capace di tradursi
immediatamente in immagine; una serie di fotogrammi nitidi per quanto
si possa ritrarre nitidamente il perturbante quando
fa capolino nel nostro quotidiano. Richard Matheson iniziò
sin dal suo primo racconto, Nato d’uomo e di donna
(Born of Man and Woman), datato 1950 ad attenersi a
questa modalità, facendone quasi un marchio di fabbrica,
rendendosi – non solo per questo – sempre
riconoscibile, pur non vantando una scrittura particolarmente
raffinata. “Questo giorno, quando c’è
stata la luce, mamma mi ha chiamato schifo. Sei uno schifo ha detto. Ho
visto la rabbia nei suoi occhi. Chissà
cos’è uno schifo”. Un figlio, una mamma,
un concepimento andato storto e per forza di cose guai grossi in
arrivo. Tutto in una manciata di parole.
Questo è Richard Burton Matheson, nato il 20 febbraio 1926 da genitori norvegesi, che nel 1950 inizia la sua carriera di scrittore con un racconto horror a tutti gli effetti, perché orrenda è la creatura che narra in prima persona, orribili sono le sue azioni e non da meno dimostrano di essere i suoi crudeli genitori. Il racconto è stato pubblicato ripetutamente anche in Italia. Oggi apre la monumentale raccolta di tutti i suoi racconti in quattro volumi pubblicati da Fanucci in rigoroso ordine cronologico: Tutti i racconti. Il primo volume copre gli anni 1950-1953, il secondo dal 1954 al 1959, il terzo si estende dal 1960 al 1993 e l’ultimo dal 1999 al 2010. Centotrentadue racconti di cui ben cinquantuno mai pubblicati prima (il quarto volume raccoglie solo inediti). Tornando al suddetto racconto, Matheson lo vendette al Magazine of Fantasy and Science Fiction prima di trasferirsi in California dove si affiliò a un circolo di scrittori, i Fictioneers, tutti dediti alla scrittura di gialli e lui fece altrettanto, dando alla luce Someone Is Bleeding, pubblicato nel 1953, È grosso modo da allora che inizia con regolarità a scrivere racconti evitando sin dagli esordi di cristallizzarsi in un genere. È una scelta lucida, ribadita anni dopo:
“Sono convinto che uno scrittore che ragiona per generi sia fuori strada. È forse vero che i lettori avvertono la necessità di distinguere gli scrittori in base al genere, di inserirli in comode nicchie ma io ho sempre cercato di scansare quest’operazione. Ho scelto appositamente di scrivere romanzi che contenessero elementi noir ed elementi horror e proprio in quel discorso indicai che è talmente facile saltare da un genere all’altro che si può ambientare una storia d’amore su Marte come se si trattasse di un romanzo di fantascienza e che si può viceversa ambientare quella stessa storia d’amore nel buon vecchio West ed ecco che si è scritto un western oppure si può dislocarla in Transilvania ed ecco che si è scritto un romanzo dell’orrore! L’idea stessa di costringere uno scrittore entro confini predefiniti mi è aliena. Ci sono degli scrittori che continuano a scrivere la stessa cosa, che non la smettono mai di ripetersi, ma io ho sempre cercato di non incappare in quel tranello. Credo che a volte i miei lettori siano un po’ confusi perché ho la tendenza a saltare da un genere all’altro. […] La cosa che mi interessa è scrivere delle storie e l’ambientazione non fa realmente differenza” (Crovi, 2003).
Scrive storie di fantascienza, tra le quali si segnala L’astronave della morte (Death Ship, 1953), si tuffa nell’orrore puro (il già citato Nato d’uomo e di donna), inizia ad avventurarsi nel paranormale, ad esempio con Una chiamata da lontano (Long Distance Call, 1953) – di cui si riparlerà in seguito –; si cimenta con il mistero puro – a tal proposito si legga Eliminazione lenta (Disappearing Act, 1953) – e con storie western come il citato Il ragazzo tra le rocce e Occhi di sceriffo (Gunsight, 1951). Ribadendo: quello che conta per Matheson non è il contenitore. In Un sorso d’acqua (A drink of Water) un racconto del 1967, si legge: “Rabbrividì, sentendosi per un attimo travolgere da un fremito di pura emozione. La vita è fatta così, pensò. Il mondo che continua a scorrere come se niente fosse, e sotto la superficie una minaccia sempre incombente. Bastava una semplice combinazione di poche cose […] Niente di eccezionale, solo piccoli eventi terribilmente logici che…”. Questo è il sistema mathesoniano, che anche nella teoria viene illustrato in poche parole. Matheson operò un’inversione di rotta nell’universo del fantastico analoga a quella che, nei primi anni Sessanta, effettuò James Ballard nel campo più circoscritto della fantascienza, quando propugnò e mise in pratica l’esplorazione del cosiddetto inner space abbandonando i paesaggi sconfinati dello spazio esterno, preferendogli gli abissi della psiche. Matheson doveva fare i conti con una pesante eredità: quella lasciatagli da Howard P. Lovecraft. Questi aveva individuato proprio nel terrore cosmico che alberga nell’abisso del tempo il seme fecondo dell’orrore autentico. La scelta che effettuò è l’unica sempre attuabile: tradire il maestro per rispettarne la lezione. I due in fondo si somigliano in quanto a gusti, entrambi rifuggono dal facile effetto e tantomeno dallo splatter. Scriveva Lovecraft: “Il vero racconto sovrannaturale possiede qualcosa di più del delitto misterioso, delle ossa insanguinate, o di una apparizione avvolta nel lenzuolo che trascina rumorose catene secondo copione” (Lovecraft, 2011). Oltre mezzo secolo dopo, in un’intervista rilasciata nel 1981, Matheson dichiarava che: “Quel che spaventa la gente non è un’ascia piantata nella faccia di un attore o una testa che esplode. Quel che fa veramente paura è l’ignoto, ciò che non si conosce” (Matheson, in Lippi, 1984).
Sarà
per questo motivo che ormai autore affermato e stimato anche nel mondo
del cinema, venne bocciato da Alfred Hitchcock, per il quale aveva
già lavorato dalla fine degli anni Cinquanta scrivendo
numerosi episodi della serie Alfred Hitchcock Hour.
Il regista lo aveva in un primo momento scelto per la sceneggiatura de Gli
Uccelli. L’episodio della mancata intesa
è un ricordo breve ma incisivo come nella migliore
tradizione della fiction firmata da Matheson, che così lo ha
raccontato: “Hitchcock mi chiamò per un incontro.
Mi avevano detto che era un uomo molto timido, e che cosa ti va a
capitare? Che i suoi collaboratori, chi per una ragione e chi per
un’altra, non poterono presenziare alla riunione.
Così rimanemmo soli io e lui e finì che persi il
lavoro cinque minuti dopo aver messo piede nel suo ufficio. Gli dissi
«Non credo che gli uccelli si dovranno vedere molto, signor
Hitchcock». Lui mi guardò con orrore e
borbottò «Non ci siamo, non ci siamo, non ci
siamo». Parlammo ancora un po’, ma ormai la
possibilità di fare la sceneggiatura degli Uccelli,
per me era sfumata” (Matheson in Lippi, cit.).
Niente
fronzoli, insomma. Questa è la ricetta. Nella storia prima
citata, Un sorso d’acqua, il protagonista
in un’afosa notte d’agosto è alla
ricerca di un bicchiere d’acqua poiché
l’acquedotto ha chiuso i rubinetti fino al pomeriggio
successivo. Ma scoprirà che non è così
semplice dissetarsi. Un gesto semplice, un bisogno elementare, dei
contrattempi stupidi ed ecco l’incubo che spunta
all’improvviso nel nostro quotidiano.
Alternando
angoscia, paura e smarrimento, Matheson punta a provocare al lettore
una serie di shock, miscelando abilmente talvolta anche
all’interno del singolo racconto i vari generi.
Non
a caso una sua antologia personale in quattro volumi (pubblicata in
Italia da Mondadori) si intitolava proprio Shock.
Il racconto sopracitato, Una chiamata da lontano
(ora nel primo volume Fanucci), è ad esempio una perfetta
fusione di paranormale e spiritismo, due generi contigui che qui si
fondono. Una donna, Elva Keene inizia a ricevere telefonate nel cuore
della notte, ma dall’altro capo del telefono la cornetta
è muta. Le telefonate si ripetono, la signorina Keene
è esasperata, poi qualcuno le parla, un uomo, un semplice
“Pronto” e nulla più. Si prosegue
nell’esasperazione fino a quando non viene individuata la
linea da cui proviene la telefonata: un cavo caduto alla periferia
della città… nei pressi del cimitero. Non
è tutto, il racconto si conclude con un’ennesima
chiamata alla signorina Keene e questa volta la voce dirà
qualcosa di più. Il racconto comparirà poi in
tivù nel 1964 (se ne parla in questo numero).
È un episodio della quinta stagione della serie televisiva
– il primo cult della tivù occidentale –
che servì il perturbante a cena in
tutte le case degli americani (e poi anche da noi in Italia):
Ai confini della realtà (The Twilight Zone).
La serie voluta dal produttore Rod Serling partì nel 1959 e
Matheson vi partecipò insieme all’amico Charles
Beaumont. Non potremo mai afferrare il senso della narrativa di
Matheson, in particolare quella breve di questa fenomenale invenzione
televisiva senza vedere chiaro e distinto l’orizzonte
dell’immaginario americano, che per propria intima si
con/fonde con il reale. Un blob che prende forma già
all’epoca del secondo conflitto mondiale. I mondi esotici che
già facevano capolino in televisione con
l’intrattenimento ipnotico di Korla Pandit,
l’arrivo da Saturno di Sun Ra, l’Area 51, il
folklore ufologico, i persuasori occulti, le montagne di prodotti
luccicanti nei supermercati, il nemico rosso, terrestre e marziano,
l’invasione degli ultracorpi e degli ultra giovani, i
teen-ager, quella degli ultrasuoni, il rock'n' roll, il trionfo della
società dei colletti bianchi, i freaks della sconfinata
provincia e quelli metropolitani, la stereofonia e altre tecnologie a
misura di casa, la paura della bomba, del diverso, del vicino, la
storia riscritta a Hollywood, la vita riscritta dal marketing, le icone
della civiltà pop, le cole, i jeans, ecc.; sparita la
frontiera spariscono i confini tra fiction e realtà, tra le
forme che raccontano sogni e immaginazioni e forme che documentano i
fatti. Questa è la materia di cui è fatta la sua
narrativa e quella delle storie di Ai confini della
realtà.
All’epoca
dell’immaginifica trasmissione, Matheson aveva scritto altri
tre romanzi, lavori chiave perché riuscivano a mantenere
intatti i cardini su cui si fondavano i suoi racconti (quel
ribaltamento dell’ordinario, del quotidiano,
dell’ovvio che si riversa sia sulla trama sia sulle
caratteristiche stesse del genere volta per volta prescelto). Due di
questi romanzi lo avvicinano al grande schermo. Il primo è
Io sono leggenda (I Am Legend) scritto nel
1954 (se ne parla in questo numero). I diritti
vennero acquistati da una casa di produzione inglese specializzati in
film horror, la Hammer Films, che chiese allo stesso autore di
scriverne la sceneggiatura, ma non se ne fece niente perché
i dirigenti della Hammer giudicarono il copione troppo violento
(sic!).
Il secondo romanzo è The
Shrinking Man (1957), noto in Italia come Tre
millimetri al giorno; l’anno successivo
uscì Io sono Helen Driscoll (A
Stir of Echoes), che inaugurava il filone da lì in
avanti più battuto da Matheson, quello legato ai temi della
vita dopo la morte, lo spiritismo e la possessione che
alternerà a una serie di romanzi western.
Tre
millimetri al giorno è la prima storia di Matheson
a mutarsi in pellicola. Il film prodotto dalla Universal venne
intitolato The Incredible Shrinking Man,
per la regia di Jack Arnold. In Italia uscì con il titolo Radiazioni
BX distruzione uomo. In effetti, le radiazioni
c’entrano, ma sono solo il pretesto con cui Matheson mette in
azione un meccanismo inesorabile, operando un magistrale capovolgimento
di fronte (come in fondo in Io sono leggenda):
laddove la forza distruttiva dell’atomo iniziava a prendere
la forma del grande incubo a forma di fungo, Matheson se ne serve come
un qualsiasi altro banale incidente quotidiano per dare il via a una
vera e propria discesa nell’incubo. Il protagonista Scott
Carey dopo essere stato investito da radiazioni inizia a ridursi di tre
millimetri al giorno e con il passare del tempo i mostri che si
troverà di fronte saranno il suo gatto e in seguito ragni,
mosche, ecc. Lotta atavica per la sopravvivenza tra creature che fino a
pochi giorni prima rientravano nell’ordinario. Ecco che il
tradimento nei confronti di Lovecraft si dimostra solo apparente. e non
soltanto in questo caso. Basti pensare alla terribile
divinità della caccia che anima il feticcio assassino in La
preda (Prey), storia violentissima
scritta nel 1969 e ora inclusa nel terzo volume della raccolta Fanucci.
Quello che in apparenza è come un innocuo tiki, un classico
tra i souvenir del Pacifico, un simbolo della cultura lounge, exotica e
della cocktail nation, (anche se in questo caso è un
feticcio Zuni, un pueblo sito tra l’Arizona e il New Mexico),
qui si anima e si trasforma in un sanguinario predatore senza tempo che
ingaggia un mortale corpo a corpo con la sventurata protagonista (una
strepitosa Karen Black). “Amelia rientrò nel suo
appartamento alle sei e un quarto”. Inizia così,
con quella semplice e apparentemente superflua indicazione
dell’ora del rientro, così banale da dover per
forza di cose indicarci qualcosa. “Appese il cappotto
nell’armadietto del corridoio, portò il pacchetto
in salotto e si sedette sul divano”. La scena e i personaggi
sono già lì e tutto è troppo
tranquillo.
L’episodio divenne in seguito il pezzo
pregiato, intitolato Amelia, di un’altra
produzione televisiva: Trilogy of Terror (1975). In
Italia era uno degli episodi della serie Sette storie per non
dormire (1978). La sceneggiatura venne realizzata da Matheson
stesso, che quando scrive La preda è
oramai autore affermato di short stories, sceneggiature e soggetti per
la televisione e per il cinema. Come fa dichiarare
all’ottantaduenne protagonista nel suo ultimo racconto La
finestra nel tempo (The Window of Time, 2010),
storia imperniata sui viaggi nel tempo, dai toni crepuscolari e
sentimentali: “Negli anni Sessanta e Settanta avevo scritto
con un certo successo per la televisione”, concedendosi una
rara concessione all’autobiografismo esplicito.
L’età
dell’oro relativamente alla sua narrativa breve è
proprio il ventennio dei Sessanta/Settanta, quello a cui si riferisce
l’anziano viaggiatore nel tempo. Anche
l’attività cinematografica inizia a fiorire a
partire dal 1960 quando viene contattato dalla American International
Pictures per adattare al grande schermo La caduta della casa
degli Usher (The Fall of the House of Usher),
il racconto di Edgar Allan Poe, per la regia di Roger Corman e Vincent
Price come protagonista principale. Il film uscì con il
titolo The House of Usher (in Italia divenne I
vivi e i morti), dando inizio a un ciclo Poe/Corman/Matheson,
composto da altri tre film: The Pit and the Pendulum
del 1961 (Il pozzo e il pendolo), Tales of
Terror del 1962 (I racconti del terrore) e
The Raven dell’anno successivo (I
maghi del terrore). Un quinto Poe di celluloide
uscì nel 1964, sempre per la regia di Corman, ma venne
scritto dall’amico Beaumont: The masque of the Red
Death (La maschera della morte rossa).
Quando
chiude la sua collaborazione con la Aip nel 1964, dopo aver lavorato ad
altri due film tratti da storie di Jules Verne e Fritz Leiber, cede i
diritti di Io sono leggenda a un produttore
indipendente, Robert Lippert. Ne verrà fuori una prima,
dimenticabile versione cinematografica della storia, L’ultimo
uomo sulla Terra (The Last Man on Earth),
pur vantando sempre Price come attore protagonista.
Bisognerà attendere la metà del decennio
successivo per rivedere al cinema questa storia di uomini e vampiri che
si confrontano a ruoli invertiti (il film è 1975:
Occhi bianchi sul pianeta Terra diretto da Boris
Sagal), che si scontrano in un duello a distanza, come nella migliore
tradizione della storia western, oggetto di ripetuti omaggi da parte
del giovane Matheson e che ritornerà prepotentemente nel
più famoso dei suoi duelli, Duel,
appunto. Tratto dall’omonimo racconto del 1971, il film
girato quello stesso anno da Steven Spielberg fu uno shock (se ne parla
in questo numero). Limitiamoci
all’incipit, esemplare:
“Alle 11 e 32 del mattino Mann superò il camion”. Cinema e televisione si intrecciano e si raddoppiano anche nella carriera di Matheson come nel caso di Incubo a 6.000 metri (Nightmare at 20,000 Feet, 1962), prima ripreso nella quinta stagione di Ai confini della realtà (il titolo italiano è Incubo a 20.000 piedi) e poi riproposto nel 1983 nel film a episodi (diretti da Joe Dante, John Landis, Steven Spielberg e George Miller) Ai confini della realtà (Twilight Zone: The Movie). La storia è quella di un tale Wilson, che una volta in volo vede, unico tra i passeggeri e il personale di bordo, un essere mostruoso comparire su un ala del velivolo e iniziare a farlo a pezzi. Circondato dall’incredulità si deciderà a un gesto estremo per il bene di tutti, solo che… L’incipit ha l’aria bugiarda di chi ti prepara una sorpresa o uno scherzo:
“«Allacci la cintura prego», disse la hostess in tono allegro mentre gli passava accanto”. Si può credere che quel tono allegro dia il via a una storia easy? No. Curiosamente, nella prima versione lo sventurato Wilson è interpretato da William Shatner, il futuro capitano Kirk dell’astronave Enterprise del serial Star Trek, che di creature bizzarre ne incontrerà parecchie nelle sue avventure, compreso un suo duplicato, guarda caso nell’unico episodio di Star Trek, il quinto della serie “classica”, di cui Matheson firma la sceneggiatura: Il duplicato (1966).
L’anno precedente un altro film nacque
indirettamente dalla penna di Matheson, dalla copula di due short
stories scritte negli anni Cinquanta. Il film è Poltergeist
- Demoniache presenze diretto da Tobe Hopper e scritto a
quattro mani con Spielberg che lo produsse. Niente crediti per
Matheson, quindi, ma la discendenza del film dai racconti Dai
canali (Through Channels, 1951) e Bambina
smarrita (Little Girl Lost, 1953)
è evidente. Nel primo la televisione risucchia i genitori di
un ragazzino che spaventato denuncia il fatto alla polizia, nel secondo
una bambina scivola in una falla spazio temporale apertasi sotto il
divano in salotto. Due più due fa … Poltergeist,
dove una ragazzina sparisce e il televisore ne combina di ogni. Anche Videodrome
(1983) di David Cronenberg ha qualche
debito nei confronti di queste due brevi storie giovanili di Matheson,
che anche qui, anzi più che mai qui disegna trame perfette
per mostrare l’irruzione del perturbante
nella più ordinaria domesticità.
Negli
anni a seguire un congruo numero di storie mathesoniane sono state
riadattate per il cinema, romanzi e racconti. Per restare alla
narrativa breve, in tempi recenti si può citare il film del
2009 The Box (Button, Button,
1970, ma nell’edizione italiana si è deciso di
mantenere il titolo del film), vicenda drammatica in cui una coppia ha
la possibilità di ottenere un facile e sostanzioso guadagno
(un milione di dollari) schiacciando il bottone di una scatola, gesto
che provocherà automaticamente la morte di qualcuno che sia
lui sia lei non conoscono. La vincita andrà solo a chi si
assumerà la responsabilità di cancellare una
vita. Ancora una volta l’atmosfera si fa metafisica
à la Dürrenmatt, ad esempio, come nel citato Il
prigioniero. Un’ulteriore riprova della
flessibilità della narrativa mathesoniana. Di qualche tempo
fa è invece una storia struggente e drammatica, Acciaio
(Steel, 1956) diventata al cinema Real
Steel (2011), ma già trasportata in televisione,
sempre per Ai confini della realtà.
La
vicenda originale narra di un tempo in cui si svolgono tra robot
combattimenti come sport d’intrattenimento e il proprietario
squattrinato di un vecchio modello cerca di rimandarlo sul ring ma
resosi conto dell’impossibilità di rimetterlo in
condizione di combattere si traveste da robot e ingaggia il match con
un nuovo modello di robot/pugile che lo massacrerà. Vecchie
glorie che preferiscono morire in scena, più che il film che
vi si è ispirato viene in mente il The Wrestler (2008)
di Darren Aronofsky con Mickey Rourke.
Matheson oggi
ha 87 anni, ma non ha perso lo smalto. Il suo mito è
cresciuto a dismisura. Stephen King lo indica come il suo maestro e non
a caso è della partita quando viene allestita una antologia
di racconti, Lui è leggenda (He
Is Legend: An Anthology Celebrating Richard Matheson, 2009)
proposta dai Millemondi Urania nel 2011, un
esercizio collettivo di stile, dove alcuni pezzi pregiati della sua
produzione vengono, si potrebbe dire, remixati. King, ad esempio,
insieme a Joe Hill opera una variazione sul tema di Duel,
Joe Lansdale racconta il seguito di Preda, Mick
Garris scrive l’antefatto di Io sono leggenda,
Thomas S. Monteleone indaga sulla sorte della signora Carey, la moglie
del protagonista di Tre millimetri al giorno e
così via. Un approccio che non sarebbe dispiaciuto a Philip
José Farmer, che nel 1973 scrisse un racconto, Dopo
la caduta di King Kong (After
King Kong Fell), applicando la medesima regola: raccontare il
dopo schianto della Grande Scimmia.
Il maestro da parte sua
sfodera ancora colpi di classe. Nel 2004 dalla sua penna è
scaturito il racconto La bambina che bussa alla mia porta
(Little Girl Knocking On My Door), storia
agghiacciante e magistrale della solita chiamata, quella della Morte
che qui veste i panni di una pallida fanciulla.
L’incipit
ci mette subito in guardia, d’altronde, si sa, è
una specialità di Matheson:
“Non so come dirlo. Sì, mi ricordo tutto, ma ricordare tutto è una sorta di malattia, tutto mischiato e doloroso. Maria santissima mi ferisce il cuore raccontarlo”.
Raccontare e raccontare, cercando di essere sempre più essenziale, reiterando la lotta degli opposti, della norma e dell’insolito, dell’armonia e dell’informe, del bene e del male e così a furia di provarci e riprovarci alla fine Matheson ci è riuscito proprio in un attacco secco, che riassume l’intera sua arte del narrare e paradossalmente in un racconto incompiuto, La casa del morto (The House of the Dead, 2010), che inizia così:
“L’orrore può avere origine dalla bellezza”.
LETTURE
— AA.VV., Lui è leggenda, Millemondi Urania 57, Mondadori, Milano, 2011.
— Crovi Luca (a cura di), Richard Matheson si racconta a “Tutti i colori del giallo”, www.drivemagazine.net/matheson.html, 2003.
— Lippi Giuseppe, Richard Matheson, prefazione a Shock, Mondadori, Milano, 1984.
— Lovecraft, Howard P., Teoria dell’orrore, Bietti, Milano, 2011.
— Matheson Richard, Io sono leggenda, Fanucci, Roma, 2003.
— Matheson Richard, Tre millimetri al giorno, Fanucci, Roma, 2006.
— Matheson Richard, La casa d’inferno, Fanucci, 2008.
— Matheson Richard, Io sono Helen Driscoll, Fanucci, Roma, 2009.
— Matheson Richard, Tutti i racconti. Vol. I - 1950-1953, Vol. II - 1954-1959,
Vol.
III - 1960-1993, Vol. IV - 1999-2010,
Fanucci, Roma, 2013.
VISIONI
— AA.VV, Ai confini della realtà - Stagione 1, Dall’Angelo Pictures, 2005.
— AA.VV, Ai confini della realtà – Stagione 2, Dall’Angelo Pictures, 2006.
— AA.VV, Ai confini della realtà - Stagione 3, Dall’Angelo Pictures, 2006.
— AA.VV, Ai confini della realtà - Stagione 4, Dall’Angelo Pictures, 2006.
— AA.VV, Ai confini della realtà - Stagione 5, Dall’Angelo Pictures, 2007.
— AA.VV., Ai confini della realtà. Il film, Warner Home Video, 2007.
— Arnold Jack, Radiazioni BX - Distruzione Uomo, A & R Productions.
— Corman Roger, I maghi del terrore, 20th Century Fox Home Entertainment, 2004.
— Corman Roger, Il pozzo e il pendolo, Cecchi Gori Home Video, 2009.
— Corman Roger, I vivi e i morti, Cecchi Gori Home Video, 2010.
— Hopper Tobe, Poltergeist, Warner Home Video, 2007.
— Kelly Richards, The Box, Keyfilms Video, 2013.
— Lawrence Francis, Io sono leggenda, Warner Home Video, 2008.
— Lewy Shawn, Real Steel, Touchstone, 2012.
— Sagal Boris, 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra, Warner Home Video, 2008.
— Spielberg Steven, Duel Special Edition, Universal Home Entertainment, 2004.