Quando Robert Wyatt incise per la prima volta At Last I Am Free nel febbraio 1980, in compagnia di Frank Roberts al pianoforte e Mogotsi Mothle al contrabbasso, aveva trentacinque anni e da sette aveva smesso di essere un “bipede batterista” (King, 1994). Il brano lo dedicò ad Angela Davis, allora militante del Communist Party of the United States of America (Wyatt si era da poco iscritto al Partito comunista inglese). Esattamente trent’anni dopo, quella vecchia canzone è rispuntata in quello che è a tutt’oggi il suo ultimo album, ...For The Ghosts Within' (firmato insieme al sassofonista e clarinettista Gilad Atzmon e la violinista Ros Stephen), in una versione riveduta da Wyatt e corretta dal tempo, condensando in tre minuti parte della sua storia: quella che lo ha visto prediligere la musica scritta da altri. Una relazione privilegiata stretta qualche anno prima di registrare At Last I Am Free.
All’epoca di quella prima versione, Wyatt aveva fatto parte dei Soft Machine, concependoli insieme a degli amici di scuola e scrivendone pagine memorabili, aveva capeggiato una seconda formazione, i Matching Mole, se possibile ancor più visionaria; aveva firmato nel 1970 un primo album solista che sembra registrato domani, End Of An Ear, dove si proponeva come un fantasmatico e sghembo crooner accompagnato da jazzisti inclini a distrarsi dal jazz. Era già autore di un capolavoro assoluto, Rock Bottom (1974), aveva dato per la prima volta ampio spazio a composizioni altrui nel successivo Ruth Is Stranger Than Richard (1975) e si era imposto anche come cantante, aggiudicandosi il secondo posto sia nella categoria dei “Migliori cantanti internazionali di sesso maschile” sia nella sezione “Migliori cantanti britannici di sesso maschile” nella classifica del Melody Maker del 1974, come risultò dai voti dei lettori della prestigiosa (all’epoca) rivista musicale inglese.
Sebbene avesse già ripreso in End Of An Ear una composizione di Gil Evans, Las Vegas Tango, Wyatt iniziò, quindi, sistematicamente a coltivare l’arte della reinterpretazione, del rifacimento, della rielaborazione, insomma, della cover come è più in uso dire, solo a partire dal 1974, un anno dopo il volo dal quarto piano che lo inchiodò per sempre su una sedia a rotelle. Tutto nacque quasi per caso e sicuramente per gioco. Racconta lo stesso Wyatt: “Mi pare che in un’intervista mi avessero chiesto quali fossero le mie dieci canzoni preferite – una specie di ‘i dieci dischi che porteresti su un’isola deserta’ – e io avevo subito accettato perché mi diverto a stilare questi elenchi. La lista finì in mano a Simon Draper, della Virgin, che notò la presenza di un vecchio successo dei Monkees e mi chiese: ‘Dicevi sul serio?’. Io avevo bluffato, lui era venuto a vedere e quindi risposi di sì, entrai in studio e incisi I’m A Believer” (ibidem). Una canzone che conoscono tutti, un hit mondiale, in Italia ebbe la sua bella cover, come era regola negli anni Sessanta: Sono bugiarda. La cantava Caterina Caselli, detta Casco d’oro. Quando un gruppo di amici diede uno storico concerto al Theatre Royal Drury Lane di Londra, l’8 settembre del 1974, per aiutarlo economicamente con l’incasso dopo l’incidente e farlo letteralmente rientrare in scena, il gran finale fu affidato proprio a I’m A Believer. Crema dell’avantgarde e del jazz inglese, gli amici val la pena di citarli tutti: Fred Frith, Julie Tippetts, Mike Oldfield, Gary Windo, Mongezi Feza, Hugh Hopper, Laurie Allan, Dave Stewart e Nick Mason dei Pink Floyd.
Il gioco delle cover, quindi nacque per gioco, ma anche perché si diventa ciò che si è. Si diventa le diverse nature che si annidano in ognuno di noi e quella di cantante era nelle corde di Wyatt, quella voce malinconica, secondo Ryuichi Sakamoto “la voce più triste del mondo”, quel falsetto da brividi, esile, sempre sul punto di frantumarsi, eppure… “Una volta qualcuno ha detto che la sua è la migliore ‘non voce’ che ci sia in giro. Certo, è un’ottima definizione. Ma penso che vada anche detto che la sua voce ti colpisce proprio al plesso solare” (ibidem). Parola di Honor Wyatt, la mamma, ma se è vero che ogni scarrafone è bello 'a mamma soja, Wyatt è l’eccezione che conferma la regola. La sua voce incanta, se ne è rapiti in un batter di ciglia, avvolti, come avviene durante l’ascolto dell’alchemico esperimento tenuto a Roma nel febbraio del 1981, proprio mentre si dilettava a rifar canzoni. In quello stream of consciousness, infatti, faceva capolino la Billie’s Bounce di Charlie Parker, giusto una citazione di Revolution Without “R” di Neil Young e un accenno de L’Internazionale, che poi avrebbe anche pubblicato in versione completa nel doppio ellepì Reccomended Record Sampler, uscito il 1° maggio di quello stesso anno, raccolta/rassegna degli artisti dell’etichetta cuore di RIO (Rock In Opposition). Si diventa ciò che si è. Queste registrazioni possiedono lo stesso soffio vitale di quelle che animano le sedute negli studi di Hollywood (T.T.G. Studios) e di New York (The Record Plant) dove l’artista da giovane si sbizzarrì nell’improvvisare motivetti e masticare canzoni, disegnando un primo composito paesaggio lunare.
Le cose a Roma andarono così. Il 16 febbraio 1981, Wyatt entrò nella sala M, uno studio all’ultimo piano della sede Rai di via Asiago 10. Arrivò su invito della trasmissione radiofonica Un certo discorso. L’idea era di fargli “registrare tutto quello che gli sarebbe passato per la mente ispirandosi a un pretesto assolutamente pretestuoso come la vera storia della vedova di Mao”, come ricorda nelle note di copertina uno degli autori di Ucd, Pasquale Santoli. Wyatt conferma: “Mi invitarono là per una settimana, perché volevano registrare il mio reale processo creativo” (King, 1994). I primi tre giorni sono di prove, solo voce e piano, poi il giovedì 19 viene dato ufficialmente il play al magnetofono a otto piste dello studio. In scena entrano altri vari attrezzi del mestiere, tastiere, percussioni, uno scacciapensieri, più oggetti diversi e non identificati. Si prosegue anche il giorno successivo. Tutto prende forma, sembra quasi provenire dal nulla, lo stesso Wyatt all’inizio vive uno stato d’animo particolare. Come dichiarò un paio di mesi dopo, il 14 aprile, in un’intervista concessa al Melody Maker: “All’inizio provavo la stessa sconcertata frenesia che si ha prima di affrontare gli esami a scuola”. Il risultato finale è una sorta di concept album, tra i più bizzarri mai concepiti. Basterebbero i novanta secondi della citata Billie’s Bounce, precipitato di tutti gli underground possibili, a rendere imperdibili queste registrazioni. Un concept in progress lo si potrebbe definire, poiché ne vennero fuori schizzi colti nel loro formarsi, come lo stesso Wyatt li ha poi definiti, ribadendo l’analogia tra il suo modo di comporre e il fare pittura. Il blob patafisico di via Asiago non inghiottì però la vocazione a fare l’interprete di canzoni avviata con I’m A Believer e da un mazzetto di altri prestiti dai repertori altrui. Sempre a inizio decennio incise At Last I Am Free, si è detto. La riprese dal repertorio degli Chic, per molti la più importante ed influente band della disco music. Si trattava di una soul ballad che nella sua versione rifulgeva di luce lunare. Venne pubblicata come 45 giri e sul retro si trovava un’altra cover: Strange Fruit di Billie Holiday. Prendeva forma, dunque, un repertorio parallelo, composto da brani presi a prestito, ma le canzoni che Wyatt incide, rimangono segnate in modo indelebile, riportate a vita nuova. Quando registra At Last I’m Free, ha già prodotto altri due 45 giri: Arauco/Caimanera (il primo brano è della cantautrice cilena Violeta Parra e il secondo altro non è che la celeberrima Guantanamera) e Stalin Wasn’t Strallin’/Stalingrad. In realtà sono tre canzoni, poiché il lato B del secondo 45 giri, Stalingrad, è un testo scritto e recitato da Peter Blackman, mentre il lato A era stato scritto nel 1943 da Bill Johnson e inciso dal gruppo vocale gospel Golden Gate Jubilee Quartet. Sono tutte cover che finiranno nell’album/raccolta Nothing Can Stop Us. La sequenza si allungherà con la registrazione qualche mese dopo di Grass, precedentemente inciso da Ivor Cutler (che fu ospite in Rock Bottom). Sono anni in cui Wyatt canta di tutto, da Thelonious Monk a Peter Gabriel e Victor Jara e scrive canzoni di proprio pugno, come Born Again Cretin (sempre in Nothing Can Stop Us) dedicata a Nelson Mandela, allora nelle carceri del regime sudafricano cha imponeva l’apartheid. Sono anche anni durissimi, dominati dalla Thatcher, che videro Wyatt schierato in prima linea con le classi lavoratrici, a sostegno delle lotte dei minatori con la registrazione nel 1984 di due brani per l’Ep The Last Nightingale, insieme a Lindsay Cooper, Chris Cutler, Tim Hodgkinson (tutti ex Henry Cow) e Bill Gilonis, co-fondatore con Hodgkinson di un’altra formazione di frontiera, The Work.
Sono anni durissimi che impongono a Wyatt di tirare la cinghia e realizzare un solo album a suo nome, fatto in casa, arrangiandosi a far tutto da solo, usando le tastiere, più che altro il piano, qualche piccola percussione, una spruzzatina d’elettronica e la voce che tutto abbraccia. Il disco si chiama Old Rottenhat e possiede tutte le sfumature dell’indignazione, della malinconia e dell’ironia. Un amalgama frugale, anche sulle note è parsimonioso: le centellina conoscendone il valore. Rispunta l’Internazionale affidata a un carillion, prima di parlare di politica e di amore.
Tra falsi movimenti e convergenze parallele l’arte di Wyatt ha ormai travalicato i confini dello stesso Wyatt, imprimendosi indelebilmente su qualsiasi melodia, su qualsivoglia tema, su ogni genere e tradizione musicale. Non si fa sfuggire neanche Rangers in the Nightst, spettacolare miniatura in sessanta secondi di Rangers in the Nightst, il mega hit di Frank Sinatra. Ancora una volta il titolo si modifica quasi a segnare ulteriormente una distanza dall’originale e, al tempo stesso, una presa di possesso del brano. Rangers in the Nightst è ricomparsa nel 2012 nella raccolta Around Robert Wyatt.
Nel mezzo ci sono ancora altri brani ripresi nell’arco di trent’anni da Wyatt, pescando da repertori di peso come Shipbuilding di Elvis Costello, Love di John Lennon, We Love You dei Rolling Stones (come ospite in virtù della sua voce triste nell’album Beauty di Ryuichi Sakamoto) e September Song di Kurt Weill (gettone di presenza in un EP di Pascal Comelade).
Un bouquet di canzoni imperdibili. Wyatt nel corso del tempo le ha registrate perché “è maledettamente difficile lavorare su materiale mio! Ecco perché preferisco di gran lunga rivisitare brani composti da altri o farmi coinvolgere in progetti altrui” (King, 1994). I progetti più preziosi tra i tanti a cui partecipa sono quelli intrapresi con membri della nobile schiatta degli Henry Cow. Il primo ebbe in qualche modo un preludio nel collettivo allestito per registrare The Last Nightingale.
Nel 1986 si ritrova infatti tra gli ospiti di Letters Home, secondo e ultimo album dei News From Babel, band che degli ex Henry Cow schierava Chris Cutler, Dagmar Krause, Lindsay Cooper (e Georgie Born solo nel primo disco del 1984, Work Resumed on the Tower.) Austeri, anche melodrammatici, taglienti e melodici, i News From Babel arrotolarono per bene rock, cabaret e jazz a piccole dosi nella loro breve esistenza.
Il secondo progetto data diversi anni dopo. Si tratta dell’album Songs, di John Greaves. Siamo nel 1994. Wyatt si fa carico di tre delle undici canzoni, tra cui la cristallina Kew Rhone, dall’omonimo album che Greaves costruì a quattro mani con Peter Blegvad (come Dagmar Krause un ex Slapp Happy, il trio che con gli Henry Cow co-firmò l’album Desperate Straights), avvalendosi del contributo di Carla Bley.
L’ex bipede, forse per amor di paradosso, si ritrova così a essere davvero ubiquo, voce ovunque, pur in assenza di motu proprio. Tra campionamenti e incisioni su misura, accumula gettoni di presenza a non finire e trova per fortuna anche il tempo di realizzare propri album. Ne darà alla luce quattro nel ventennio 1990/2010: Dondestan (1991), Shleep (1997), Cuckooland (2003) e Comicopera (2007), tutte come sempre con le copertine disegnate da sua moglie, l’artista Alfreda Benge. In media uno a lustro, chissà, forse un omaggio sghembo e irriverente ai piani quinquennali…
Dondestan (1991) risuona ancora di tutto il malessere che aveva screziato il precedente Old Rottenhat. Inizia da questo album a comporre anche intorno ai testi scritti da sua moglie. Prosegue l’autarchia, la strumentazione è ridotta al minimo e viene preso in prestito solo un brano all’amico Hopper. Pochi anche i soldi per editarlo al meglio cosicché anni dopo, nel 1998, uscirà un Dondestan (revisited), con nuovo remissaggio e differente ordine dei brani, dando al lavoro il suo assetto definitivo. Shleep (1997) al contrario è sontuoso: un mucchio di amici e ammiratori si adopera per realizzarlo e sono nomi pesanti: Brian Eno, Paul Weller, Evan Parker e Phil Manzanera, che mette a disposizione il suo studio. È album accostabile a Rock Bottom per l’arditezza delle linee, la qualità degli interventi solistici, l’amalgama dell’insieme, il respiro profondo e l’energia vitale che emana. Sarà un caso, ma la vetta del disco è la ripresa di un brano scritto dal chitarrista belga Philip Catherine, coinvolto da Wyatt anche in questa nuova registrazione. Il brano si chiamava Nairam, ma viene ribattezzato Maryan ed era contenuto in un vecchio album di Michael Gibbs del 1975: Directs The Only Chrome-Waterfall Orchestra. Wyatt si inerpica sul tema con una grazia disarmante.
Dopo tante ristrettezze, esagerare fa bene e con il successivo Cuckooland (2003) addirittura si tracima. La lunghezza è quella di un vecchio doppio vinile e pure qui si riuniscono bei nomi, a iniziare da Manzanera ancora a far da ospite: Annie Whitehead, Karen Mantler (la figlia di Michael e Carla Bley), Gilad Atzmon, Weller e David Gilmour. Ci sono anche un po’ di canzoni non sue che trovano posto: Raining In My Heart di Buddy Holly Insensatez di Carlos Jobim e tre brani firmati dalla giovane Mantler. Ormai la voce di Wyatt è sempre più erosa dalla vita, è un suono carsico e c’è sempre più spesso una cornetta a far da sottile eco. I testi raccontano del sentimento tra Juliette Greco e Miles Davis a Parigi nel 1958, dell’Iraq, dei rom, del mondo secondo Wyatt.
Fedeli amici e convinti ammiratori delle sue gesta, i vari Brian Eno, Weller, Phil Manzanera, Whitehead e Atzmon si ritrovano in Comicopera (2007), album suddiviso in tre parti. Tre atti distinti per forma e contenuto, ma che la personalità straripante di Wyatt amalgama sapientemente. Il primo atto indaga i misteri della vita interiore. La musica non è certo solare, quasi a vestire i panni dell’ombra che sempre ci accompagna. Nel secondo atto, invece, i suoni si illuminano, ma i testi si fanno cupi, duri, denunciano la scelleratezza della guerra. È una precisa presa di posizione, quella di Wyatt, che chiude con la lingua inglese cantando: “Hai piantato il tuo odio imperituro nel mio cuore” in Out of The Blue. Il terzo atto, infatti, è una riproposta di due pezzi cantati in spagnolo e uno in italiano comparsi su antologie e qui sottoposti a leggere modifiche (ma significative), un brano strumentale e uno fatto di campionamenti dalla seconda traccia, Just As You Are. Sedici brani, sedici emozioni. Le più forti? La citata Just as You Are, una deliziosa ballata pop, tra le perle dell’album. Wyatt duetta con Monica Vasconcelos, prima lei espone il suo punto di vista, poi lui felpato conclude. Magistrale soluzione dell’antica questione: cos’è l’amore? Be Serious, spicca nel second act, un irresistibile swing. “… È la semplicità che è difficile a farsi”, scrisse Bertold Brecht, e qui in meno di tre minuti si capisce che cosa intendesse dire. Infine, Hasta Siempre Comandante. Tra inno e requiem il brano è arcinoto, ma Wyatt riesce a cavarci dell’ispano-jazz e commuovere.
photo by Alessandro Achilli
Come i musicisti che godono di una maggior fama di lui, che non è certo una pop/rock star, anche Wyatt, inoltre, aveva iniziato a ricevere dei tributi; alla sua musica sono stati dedicati infatti diversi album. Venne concepito in Francia MW pour Robert Wyatt (2001) che schierava un po’ di formazioni patafisiche come i Look de Bouk o i Toupidek Limonade e Comelade che ha omaggiato Wyatt in più occasioni. Italiano è, invece, The Different You - Robert Wyatt E Noi (1998), con la partecipazione tra gli altri di Almamegretta, Jovanotti, Mauro Pagani, gli Area e un insolito trio Cosentino/Battiato/Morgan, tutto dimenticabile, a tratti imbarazzante. In coda al brano Del mondo dei C.S.I. compare lo stesso Wyatt che canta in italiano, realizzando così una cover di un brano altrui in un concept album dedicato alla sua musica. La sua porzione di canzone la inserirà poi nel citato Comicopera. C’è stato inoltre il progetto Soupsongs fortemente voluto dalla trombonista Annie Whitehead, con una line-up di assoluto valore, che vedeva tra gli altri Julie Tippetts , Didier Malherbe, Harry Beckett e Manzanera. Nel 2009 ancora un tributo, dalla Francia, deludente come quello italiano, il citato Around Robert Wyatt, firmato dalla Orchestre National du Jazz, con numerosi ospiti tra cui Rokia Traoré. Vi partecipa lo stesso Wyatt che nell’occasione propone rifacimenti di sue precedenti versioni dando inizio a un gioco di specchi e di moltiplicazioni che contraddicendo Jorge Luis Borges, per una volta, nulla hanno di abominevole. Rifrazioni, echi, ritorni. Wyatt, come si è detto, da un po’ di tempo ha anche imbracciato la cornetta, canta, fischietta e talvolta sussurra. A metà strada tra Chet Baker e Gandalf the White, trent’anni dopo, quindi, Wyatt reincide At Last I Am Free. Questa volta i suoi compagni d’avventura sono, sì è detto, Gilad Atzmon già presente nei precedenti Cuckooland e Comicopera, e Ros Stephen con il Sigamos String Quartet di cui la Stephen è leader, con l’aggiunta di Julian Rowlands al bandoneon e Richard Pryce al contrabasso. La versione qui proposta è un’emersione del passato di Wyatt. Un gioco d’echi sembra restituirci frammenti della precedente versione, fornendo la possibile cifra del lavoro complessivo sulla forma canzone che propone For The Ghosts Within, album a tripla firma, ideato da Atzmon e Stephen come raccolta di standard jazz da affidare alla voce di Wyatt. La scaletta parla da sola: undici brani di cui otto non originali. Inoltre, tre di queste sono cover di cover, è Wyatt che reintepreta Wyatt, una rilettura elevata a potenza, che fa del nuovo album una summa del pensiero wyattiano riguardo alla delicata arte della cover. Non a caso, la raccolta viene definita un song cycle, quasi fosse una raccolta liederistica del XXI secolo. Come i lieder (Franz Schubert docet), infatti, qui si procede lavorando su materiali della cultura popolare, su songbook che sono stati protagonisti della storia musicale del Novecento. Lavora sulla memoria, sulla storia, sui morti e sui fantasmi interiori come recita il titolo, il senso dell’album che Wyatt ha spiegato in una recente intervista: “Normalmente i fantasmi sono considerati presenze negative, tristi, minacciose, la gente ha paura quando percepisce il passato che torna nel presente, quando, lo sente muoversi accanto a sé. Per me invece è il contrario i fantasmi esistono come forme di reliquie che i morti ci lasciano, cose con cui vivere e confrontarsi e per me queste vecchie canzoni sono fantasmi meravigliosi. Abbiamo un rapporto costante con i fantasmi, anche le case in cui abitiamo, i vestiti che portiamo contengono i fantasmi di chi ha costruito le case e di chi ha realizzato i vestiti. Parlerei di comunismo, anche se di solito il termine si applica a persone coeve, alle loro modalità di relazione e di rispetto reciproco. In ambito culturale, però, applicare un principio comunista significa rispettare allo stesso modo vivi e morti, significa non buttare via i morti solo perché non ci sono più fisicamente ma, al contrario, individuare il loro lascito, coglierne la parte migliore e farne buon uso” (Intervista rilasciata a Battiti, Radio Tre, puntata del 3/10/2010). Eccoli questi fantasmi. Laura scritta nel 1945 da David Raskin è canzone che sembra scritta per essere continuamente ripresa e basterebbe fare i nomi di Charlie Parker e Frank Sinatra, per capire che tra i precedenti ci sono pezzi da novanta.
photo by Alessandro Achilli
Scritta da Johnny Burke e Bob Haggart, What’s New? venne cantata, tra gli altri, da Linda Ronstadt, da Ella Fitzgerald e dall’immancabile Sinatra, mentre Lush Life si deve alla penna preziosa di Billy Strayhorn, quasi un alter ego di Duke Ellington, avendo lavorato completamente o solo in parte a oltre duecento temi del repertorio ellingtoniano. Lush Life fece parte del repertorio di John Coltrane che la scelse come title track di un album omonimo (1960), ma anche di due figure di spicco della scena post free: il trombonista George Lewis e il violinista Leroy Jenkins. Ellington non manca nella raccolta, e del suo In A Sentimental Mood si può stilare un elenco lungo come quello telefonico per ricordarne tutte le cover; lo stesso dicasi per la Round Midnight di Thelonious Monk ivi inclusa (ma il titolo originale è Round About Midnight). At Last I Am Free non è l’unica cover al quadrato, qui Wyatt riprende anche Maryan, che compariva nel leggiadro Shleep (1998). Il brano porta la firma del chitarrista belga Philip Catherine, e come nel caso della composizione monkiana, il titolo originale (Nairam) è stato a sua volta “coverizzato”, riscritto. Wyatt la ripropone a tempo di marcetta, la conduce sotto cedri mediorientali, evaporandola nel finale. Anche Round Midnight era già stata incisa da Wyatt nel 1982, ma qui decide di fischiettarla andando a spasso tra il clarinetto di Atzmon (che cosparge seducenti profumi mediorientali un po’ in tutto l’album alternandosi al coltralto) e il quartetto d’archi, toccando uno dei vertici dell’album. In chiusura il vero coup de théâtre, un faccia a faccia tra due titani: da una parte Wyatt e dall’altra Louis Armstrong. Spunta dolce e malinconica una rivisitazione di What A Wonderful World. Le composizioni originali accentuano ancor di più la scelta di Wyatt. Sospinta da una epicità nobile e mesta, The Ghosts Within, è affidata alla voce interessante di Tali Atzmon (Wyatt è nel coro) così come il rap che sembra un foxtrot di Where Are They Now? scandito dalle voci di Stormtrap (Abboud Hashem) e Shadia Mansour, sorta di attualizzazione dell’interrogativo che Wyatt aveva usato nel citato Dondestan (contrazione dello spagnolo Dónde están ahora?, Dove sono?, appunto). Solo Lullaby For Irena è cantata da Wyatt (ma non è firmata da lui); un brano particolarmente dolente nell’atmosfera e commovente nell’esecuzione.
Questo è For The Ghosts Within, trent’anni dopo la prima registrazione di At Last I Am Free. Tre decenni nel corso dei quali Wyatt ha realizzato una sua personale hit parade, una fila di canzoni rivedute e corrette, fuori dagli schemi, dalle mode e dalla banalità. La sua voce si imprime come un calco su ogni singola nota. Voce come bruma che non nasconde i brani originali, ma li trasfigura, li avvolge e li colloca altrove. Eppure, il cantante Robert Wyatt nacque giocando a far liste di canzoni, quelle da portare sull’isola deserta. Allora, perché non immaginarne una da proporgli, una lista dei desideri, come una letterina a Babbo Natale, che suonerebbe così: “Caro Babbo Natale, vorrei un disco dove Wyatt canta per me queste canzoni: Spooky, Season Of The Witch, For What It’s Worth, MacArthur Park, Ne me quitte pas, Avec le temps, Summertime, 29 settembre, Reginella, Lady Jane, Don't Let Me Be Misunderstood”. Alcune famose, qualcuna for connoisseurs e tutte che mirano a colpire al plesso solare. Dritto, per sempre.
photo by Alfreda Benge
LETTURE
— King Michael, Falsi movimenti, una storia di Robert Wyatt, Arcana Editrice, Milano, 1994.