LETTURE / IL CONTAGIO. PERCHÉ LA CRISI ECONOMICA RIVOLUZIONERÀ LE NOSTRE DEMOCRAZIE


di Loretta Napoleoni / Rizzoli, Milano, 2011 / pp. 177, € 14,00


Una diffusione virale
di malesseri e profezie

di Domenico Maddaloni

 

Di quali tempi è segno Il contagio di Loretta Napoleoni? Questa economista italiana residente a Londra, consulente di organizzazioni internazionali e di associazioni non governative, autrice di pubblicazioni bestseller sul terrorismo internazionale e sulla finanza globale (Napoleoni, 2008), che anticipano le analisi di Luciano Gallino (2009, 2011), nel suo ultimo lavoro concentra l’attenzione sulle conseguenze politiche della crisi sistemica in corso, che dalla finanza si è estesa alla produzione, al lavoro ed infine alle forme ed ai processi di rappresentanza. Conseguenze che ritiene, o meglio auspica, si tradurranno in un rinnovamento della democrazia occidentale, la cui diffusione globale – lo notava Colin Crouch in un suo lavoro (2004) – sembra proprio essere progredita allo stesso ritmo con il quale avveniva il suo deperimento sostanziale per effetto della globalizzazione dell’economia e della finanza, dell’influenza crescente del sistema dei media e, non da ultimo, della trasformazione dell’arena politica in un mercato del quale i competitor – i partiti o, sempre più spesso, singoli candidati – si sforzano di conquistare la quota più ampia servendosi, più che altro, di strategie di packaging di se stessi e di campagne di comunicazione, alla stregua di un qualsiasi prodotto di largo consumo. La crisi, insomma, quale fattore di rilancio delle forme di convivenza e di partecipazione, con la massima attenzione alla sostenibilità sociale ed ecologica dell’economia.

Di quali tempi, dunque, è segno il lavoro della Napoleoni? Ad un primo sguardo l’osservatore non può che essere colpito dall’impiego di una metafora epidemiologica per indicare la diffusione tanto della crisi quanto dei movimenti sociali di protesta. Non si tratta, semplicemente, di constatare ancora una volta l’egemonia del discorso scientifico – e segnatamente di quello proveniente dalle scienze biologiche e mediche – nel dibattito pubblico. Né tantomeno di denunciarlo: siamo tra coloro che ancora pensano che, soprattutto in questo Paese, sarebbe opportuna più conoscenza scientifica e non meno. Che pur economicamente, socialmente e politicamente condizionata, la ricerca scientifica è, quale base per un libero dibattito nella sfera pubblica, molto meglio non soltanto delle credenze ancestrali, ma anche degli atti di fede e delle grida di dolore in cui sono specialisti tanti intellettuali che non hanno letto Stronzate di Harry G. Frankfurt (2005). Si tratta, piuttosto, di evidenziare una transizione, un passaggio d’epoca che sembra compiersi attraverso questa figura retorica.

La diffusione di crisi e movimenti di protesta si traduce infatti in una lettura che ne evidenzia il carattere di “contagio”: non quello, ad esempio, di “cancrena” o di “metastasi”, che pure sarebbe stato possibile e che sarebbe forse prevalso qualche tempo addietro. I sociologi più anziani, reduci delle battaglie degli anni Sessanta e Settanta contro l’organicismo funzionalista possono forse in ciò trovare almeno un motivo di soddisfazione: l’apologo di Menenio Agrippa, con le sue implicazioni “naturalmente” conservatrici, ce lo siamo ormai lasciato alle spalle, almeno quello. In luogo della metafora organicista troviamo dunque quella epidemiologica, che dunque ci appare sintomo di un cambiamento tanto nel discorso scientifico quanto nel senso comune diffuso. C’è infatti una “via alta” che conduce all’impiego dell’idea del contagio in un discorso intorno ai fenomeni sociali: quella legata alla teoria dell’evoluzione da una parte, all’approccio dell’ecologia dall’altra. È importante ricordare, a questo proposito, il dibattito teorico e lo sforzo di ricerca basati sulla ricezione di categorie e di schemi di analisi emersi dai campi d’indagine citati in precedenza, che si sono prodotti nelle scienze sociali a partire dagli anni Settanta – per la verità, soprattutto in ambienti extraeuropei. Al punto che oggi nelle scienze sociali è possibile intravedere un definitivo superamento dell’evolutionist thinking, che trae le sue fonti dalla biologia (o dalla fisica), a beneficio di un evolutionary thinking che si ispira appunto alla teoria dell’evoluzione ed all’ecologia (Saporiti, 2004; Maddaloni, 2011). E c’è anche una “via bassa” all’impiego dell’idea del contagio in un discorso che mira ad alimentare un dibattito pubblico: e cioè quella che proviene da un immaginario collettivo che si nutre delle paure indotte dall’associazione di interessi tra la “industria” della salute e quella dei media. I fenomeni mucca pazza, SARS, influenza aviaria stanno lì a ricordarcelo: e tuttavia, a questo riguardo, è anche giusto notare quanto sia utile, e misconosciuto, l’oscuro lavoro della prevenzione, di cui fanno parte anche gli allarmi rivelatisi poi falsi.

Ma andiamo più in profondità: usciamo dall’euristica del contagio e guardiamo al lavoro della Napoleoni con una maggiore attenzione ai processi sociali ai quali fa riferimento. Guardiamo a due tra i termini più impiegati dall’autrice nel suo lavoro, quelli di “crisi” e di “precarietà”. I due termini rimandano a due fenomeni interdipendenti: a livello macrosociale, c’è un ordine che va in frantumi – la crisi –; a livello microsociale, ciò sembra tradursi nel diffondersi di incertezza e disagio nella vita quotidiana della maggioranza – la precarietà. A dire il vero, il libro si sofferma soltanto su un aspetto della crisi sistemica – la “crisi del debito” che vede gli Stati, in particolare quelli dell’Europa del Sud, sotto l’attacco della speculazione finanziaria –, dal momento che la Napoleoni aveva già dedicato il suo saggio precedente, Economia canaglia, a descrivere i connotati dell’ordine segnato dall’egemonia globale del capitalismo finanziario. E la crescente precarietà del lavoro e della vita, che colpisce in particolare i giovani anche nei Paesi sviluppati, e non soltanto in quelli dell’Europa del Sud, rappresenta una conseguenza sia del dispiegarsi di questo supremo ordine che della sua stessa crisi.

Rimane il fatto che l’analisi della crisi e della precarietà che l’accompagna costituisce la base dell’argomento avanzato dalla Napoleoni nel suo volume. L’analisi, dunque, quale fondamento di una proposta politica, con l’aspirazione malcelata – a nostro avviso – a farsi profezia: non una semplice diagnosi, dunque, ma un’autentica pragmatica, una guida per l’azione e per la trasformazione. La tesi che affiora ne Il contagio è che la crisi offrirebbe le condizioni oggettive, e la precarietà quelle soggettive, per l’affermarsi di un movimento che può condurre ad un radicale rinnovamento della democrazia occidentale, a partire non soltanto dall’Europa del Sud, ma anche dalle regioni del Maghreb e del Mashreq. Da quel mondo arabo che gli studiosi occidentali più accreditati considerano cronicamente arretrato (cfr. Lewis, 2002) e impegnato in una guerra contro se stesso e il resto del mondo (cfr. Kepel, 2004) e che invece, secondo la Napoleoni, contiene in sé le potenzialità per far deflagrare la protesta anche nel mondo occidentale. La “primavera araba”, insomma, come detonatore necessario di un global unrest (cfr. Hopkins, Wallerstein, 1997) che, come nel 1968, annuncerebbe una nuova era nella società e nella politica. Dal movimento degli Indignados ai saccheggi di Londra, dalla giornata del 15 maggio a quella del 15 ottobre, per finire a New York con il movimento “Occupy Wall Street”, la stagione della protesta per l’Autrice rappresenterebbe infatti il motore indispensabile di una “pandemia democratica” in grado di ridare dignità e senso ad una democrazia espropriata dalle oligarchie politiche e finanziarie.

Condividiamo pienamente l’analisi proposta dalla Napoleoni nel saggio. La crisi del debito, che oggi opprime i Paesi dell’Europa del Sud, ha certamente la sua radice nell’irresponsabilità sociale di classi dirigenti – in senso economico non meno che politico –, che hanno lungamente approfittato del “pericolo comunista”, di una tradizione politica autoritaria e di strutture di potere corporative e clientelari per evitare di attenuare le distorsioni di una crescita economica squilibrata, che in vaste regioni e in ampi settori non si è tradotta in sviluppo (cfr. Sapelli, 1996). Ma essa deflagra oggi perché a queste fonti di irresponsabilità sociale si è aggiunta, in particolare dagli anni Novanta, quella che deriva dalla finanziarizzazione dell’economia, dalla trasformazione del capitalismo industriale in capitalismo d’azzardo (Strange, 1988), con i suoi correlati di frodi finanziarie, fallimenti bancari, corruzione politica, e soprattutto di crescente volatilità dei mercati mondiali (per analisi più aggiornate rimandiamo a Gallino, 2009, 2011). Può darsi che ciò sia un fenomeno inevitabile nella fase B di un ciclo economico di lungo periodo nell’economia mondo capitalistica globale, come sosteneva Giovanni Arrighi già qualche tempo fa (Arrighi, 1996). Ciò che conta è che, intervenuti con massicce iniezioni di denaro pubblico – e quindi, di debito – per salvare il sistema finanziario dal pericolo di un crollo totale, assai concreto alla fine del 2008, gli Stati si trovano adesso a far fronte ai movimenti speculativi che provengono da quegli stessi enti finanziari che, indebitandosi, hanno temporaneamente salvato da se stessi. Dal punto di vista dei singoli investitori, si tratta di comportamenti del tutto razionali – in senso strumentale: la ricerca del massimo profitto nel breve periodo è l’unico valore del finanzcapitalismo. Dal punto di vista di chi guarda al sistema nel suo insieme, non ignaro dell’etica della responsabilità che dovrebbe accompagnare sia lo studioso che il politico in quanto cittadini, ci troviamo di fronte alla celebre favola della rana e dello scorpione. E lo scorpione sembra ben deciso a pungere un’ultima volta, prima di finire inghiottito dalla palude e affogare miseramente.

Il fatto è che la rana della favola siamo noi, il che mette a rischio il nostro lavoro e la nostra vita. Qui emerge un problema, non per l’analisi proposta dalla Napoleoni, ma per la profezia che su di essa si sostiene: se la crisi offra per davvero e pienamente le condizioni oggettive e la precarietà, soprattutto giovanile ma ormai trasversale tra le classi, le generazioni e i generi, determini, a sua volta, le condizioni soggettive per una presa di coscienza, all’insegna dell’indignazione, dell’irrazionalità del sistema. Una presa di coscienza in grado di produrre un movimento di protesta talmente esteso da provocare il cambiamento. Per rinnovare la democrazia con nuove forme di partecipazione, e incivilire il capitalismo con nuove forme di regolazione. Non mancano gli autori (cfr. Revelli, 2001; Ginsborg, 2005) che hanno già da tempo notato l’emergere di queste possibilità, che appaiono connesse: in parte all’innalzamento dei livelli di istruzione, finora garantito dal continuo sviluppo dei sistemi educativi, e all’espansione delle potenzialità di circolazione dell’informazione assicurate dai nuovi media; in parte all’inesauribile riserva di sentimento della comunità, di solidarietà, di condivisione che si trova nel mondo della vita quotidiana (cfr. Ciucci, 1990).

Non crediamo all’estremo pessimismo che Gallino manifesta nelle ultime pagine di Finanzcapitalismo, con riferimento addirittura a presunti mutamenti antropologici indotti dall’egemonia della finanza sull’economia, la società e infine sulla vita (Gallino, 2011). Davvero nei bei tempi andati dei secoli XIX e XX – che hanno visto, peraltro, guerre mondiali, rivoluzioni e guerre civili con un grande contorno di stermini di massa; in cui le barriere di “razza” e di classe erano ritenute “naturali”, non discutibili e non superabili; in cui i rapporti tra i generi e le generazioni erano segnati in profondità dal maschilismo e dal patriarcato – c’era tanta più “umanità” e meno “alienazione”? Tuttavia c’è un punto, di grande rilievo, sul quale il pessimista Gallino ha ragione e Napoleoni torto, almeno secondo noi. Mettere sullo stesso piano la jacquerie criminale di Londra, agosto 2011, la “primavera araba” – già superata in autunno dai successi elettorali delle formazioni politiche di matrice islamista – e i movimenti di protesta a carattere alterglobalista del tipo degli Indignados o di “Occupy Wall Street”, equivale a cedere alle esigenze di una retorica dell’indignazione che, in nome della profezia, nasconde le differenze e confonde le prospettive. Qui il sociologo torinese ha buon gioco nel ricordarci la lezione impartita da Karl Polanyi ne La grande trasformazione (1974): la resistenza sociale all’imperialismo dell’economia di mercato capitalistica può assumere almeno due forme, quella del socialismo democratico e quella invece del totalitarismo di matrice comunista o fascista. Almeno due: in effetti è anche possibile – considerando sotto la stessa specie l’esperienza di moderni “Stati falliti” come il Pakistan o la Somalia e quella delle jacqueries criminali di cui sopra – che in alcuni contesti la situazione degeneri al punto da tradursi in una sorta di guerra civile permanente a bassa intensità. La lezione che da ciò ricaviamo, per concludere, riguardo a Il contagio ed alla retorica dell’indignazione che nel volume si dispiega, è che senza una profezia politica, o almeno ciò che nel discorso pubblico anglosassone viene più appropriatamente e realisticamente definita una vision, l’azione collettiva per il cambiamento non può cominciare: ma Loretta Napoleoni non farebbe male ad avvertire i suoi lettori dei pericoli che corrono se prevalessero interpretazioni della crisi non politically correct come invece è la sua.

 


 

LETTURE

× Arrighi Giovanni, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996.

× Ciucci Raffaello, La comunità possibile. Percorsi e contesti in sociologia, Pacini Fazzi, Lucca, 1990.

× Crouch Colin, Postdemocrazia, Laterza, Bari, 2004.

× Frankfurt Harry G., Stronzate. Un saggio filosofico, Rizzoli, Milano, 2005.

× Gallino Luciano, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, Torino, 2009.

× Gallino Luciano, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011.

× Ginsborg Paul, Il tempo di cambiare. Politica e potere nella vita quotidiana, Einaudi, Torino, 2005.

× Hopkins Terence K., Wallerstein Immanuel M. (a cura di) L’era della transizione. Le traiettorie del sistema-mondo 1945-2025, Asterios, Trieste, 1997.

× Kepel Gilles, Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam, Laterza, Bari, 2004.

× Lewis Bernard, Il suicidio dell’Islam. In cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale, Mondadori, Milano, 2002.

× Maddaloni Domenico, Visioni in movimento. Teorie dell’evoluzione e scienze sociali dall’Illuminismo ad oggi, Angeli, Milano, 2011.

× Napoleoni Loretta, Economia canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, Il Saggiatore, Milano, 2008.

× Polanyi Karl, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino, 1974.

× Revelli Marco, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino, 2001.

× Sapelli Giulio, L’Europa del Sud dopo il 1945. Tradizione e modernità in Portogallo, Spagna, Italia, Grecia e Turchia, Rubbettino, Soveria Mannelli (CS), 1996.

× Saporiti Angelo, Macrosociologia. Un’introduzione allo studio delle società umane, Rubbettino, Soveria Mannelli (CS), 2004.

× Strange Susan, Capitalismo d’azzardo, Laterza, Bari, 1988.