LETTURE / L'OCCHIO DEL PURGATORIO
di Jacqus Spitz / Urania Collezione 105, Mondadori, Milano, 2011 / pp. 288, € 5,50
Inferno con vista
di Adolfo Fattori
Esiste una linea della narrativa della prima metà del Novecento – specialmente in lingua francese – che sembra avere una speciale contiguità con il disagio e il delirio, in netto contrasto con la fluida maestosità e la ricchezza monumentale dell’opera di un Marcel Proust, ad esempio. Si tratta di narrazioni frenetiche, entropiche, invasive, fatte di una scrittura urgente, quasi sconnessa, che procede a scatti.
Sicuramente molti lavori di Louis-Ferdinand Céline (Quaderni d'Altri Tempi n. 34), o anche quelli di Emmanuel Bove, come il racconto Un Raskolnikov (2011). Un’intera corrente, insomma, che copre gli anni che vanno dalla fine della Prima, all’esplosione della Seconda guerra mondiale.
A questa tendenza appartiene di sicuro anche L’occhio del purgatorio (Quaderni d'Altri Tempi n. 5) di Jacques Spitz, pubblicato originariamente nel 1945, oggi ristampato insieme al romanzo Le mosche da Urania Mondadori, che già lo aveva proposto nel 1979.
Il protagonista è un certo Poldonski, presuntuoso pittore “incompreso”, quindi presumibilmente fallito, in continuo conflitto con il mondo, con se stesso, con le persone che nonostante tutto gli sono vicine. Solitario, misantropo e rabbiosamente sarcastico, un giorno Poldonski conosce in una tipografia un vecchio, un tal Dagerlöff, altro personaggio marginale, anch’egli piuttosto supponente (sui biglietti da visita che sta ordinando, pretende che venga stampata la qualifica di “genio”), inserviente in un istituto di chimica, che – come si scoprirà presto – pretende di aver sintetizzato una sostanza che, spalmata sugli occhi, permette di vedere il futuro, e gli propone di sperimentarla. Poldonski rifiuta, naturalmente, giudicandolo matto (agli occhi del lettore, quanto lui, ma in forma diversa), ma Dagerlöff non si dà per vinto, e alla prima occasione, visto che il pittore prova una strana attrazione che lo spinge ad incontrare il sedicente genio, ad andarlo a cercare a casa, approfittando del fatto che il pittore si è addormentato, gli depone una benda intrisa della sostanza che ha sintetizzato.
Al risveglio, Poldonski scopre con sorpresa e paura che la sua vista è cambiata: vede davvero nel futuro, ma vede gli esseri animati e gli oggetti inanimati non – come avviene nella science fiction - cosa faranno nel futuro, a che eventi parteciperanno, ma come saranno a distanza di tempo. Una distanza che, come nel vortice di un delirio progressivo, si allunga sempre di più, fino a popolare il mondo osservato dal pittore prima di scheletri, carcasse rugginose, legno tarlato, poi di polvere, alla fine di sole, pure ombre, evanescenti, labili, inconsistenti forme, l’unico modo in cui riesce a definirle. Fino, possiamo immaginare, alla fine del tempo. All’inizio del processo con cui la sua vista si inoltra nel futuro, la distanza in termini di visione fra ciò che vede e la realtà è limitata, per cui Poldonski riesce comunque ad interagire con coloro con cui viene a contatto, come con gli oggetti della vita quotidiana, ma col passare del tempo gli occhi gli presentano un paesaggio – umano, sociale e fisico – sempre più alieno e desolato, trasformandolo in un escluso, autistico, farneticante barbone.
Un destino, se vogliamo, che è metafora della sua condizione esistenziale di partenza, quasi una punizione per il rancore e il livore continuamente esercitato su coloro che gli stavano intorno prima dell’esperimento di Dagerlöff.
Poldonski è spaventato, furioso, rivendicativo nei confronti di Dagerlöff, va a trovarlo, litiga con quello che lui vede solo come uno scheletro. Succede qualcosa, un’ombra con una macchia sul collo lo segue, il vecchio muore, forse l’ha ucciso l’ombra che segue Poldonski?
Alla fine, il pittore si renderà conto che l’ombra che lo segue e che ormai gli è di fronte è lui stesso – un’ulteriore variazione sul tema narrativo del doppio – nella forma che avrà in futuro, che ha ucciso, chissà quando, il vecchio visionario. E capirà, mentre sta per morire, scrutando il suo volto d’ombra che lo guarda come da uno specchio alieno, che la bravura che si accreditava, la superiorità che sentiva nei confronti del resto del mondo era solo pura, presuntuosa illusione.
Questo mondo di ombre, di vaghe forme appena accennate, di assoluta solitudine e incomunicabilità è forse l’inferno, più che il purgatorio, il luogo in cui abitano i folli, coloro che vedono il mondo in forma diversa dalla maggioranza di noi? Incapaci di condividere e negoziare significati, impossibilitati a percepire una realtà comune, a darle un nome…
Al fulcro l’idea del tempo, del suo statuto, del suo scorrere come frutto della percezione del proprio essere-nel-mondo, della durata del proprio vivere, agire, esistere.
Negli stessi anni operava in Francia uno psichiatra di scuola fenomenologica, Eugène Minkowski (1971) che, curando i reduci di guerra diventati psicotici – persone che avevano combattuto in trincea, dove il senso del tempo mutava completamente, fatto com’era di attese interminabili e angosciose, di accelerazioni e stasi insopportabili, dove si veniva del tutto spossessati di qualsiasi autonomia e responsabilità, automi il cui unico compito era uccidere e sopravvivere, immersi in un tempo in cui da un momento all’altro, senza preavviso, una pallottola poteva porre fine alla propria vita, o a quella del proprio compagno – teorizzò come il nostro modo di percepire lo scorrere del tempo può essere esperito in termini di attesa, quando gli eventi sembrano precipitarsi su di noi, senza che possiamo far nulla per governarli, o di attività, quando invece siamo noi a presumere di dirigere la nostra vita in modo attivo, prendere decisioni, operare scelte nei confronti della realtà circostante.
In alcuni psicotici questo secondo modo non è attivo, non funziona più: persi in un eterno attimo, vivono nell’angoscia e nel terrore, in attesa che l’orrore, la propria personificazione dell’orrore, gli si precipiti addosso.
Poldonski è, in qualche misura, in una dimensione affine, anche se ancor più estrema. Vede il futuro, ma lo vede in forma distorta, aliena, innaturale. E su questo futuro non ha nessun potere, lo vede svolgersi, indipendente da lui, e solo per un aspetto: la consunzione progressiva, sempre più accelerata, di tutto ciò che è materia, che sia organica, o artificiale. E alla fine non c’è nulla. Non è un purgatorio, è un inferno, in cui non c’è nulla di condivisibile. Poldonski è completamente isolato dal resto degli esseri umani, è l’unico a percepire la realtà in un certo modo: non può spiegarla a nessuno, non può mostrarla a nessuno. Certo, ci prova, tentando di fissarla sulla tela: in fondo è un pittore! Ma fallisce, sollevando solo ilarità o disgusto, forse perché, piuttosto che usare il suo beffardo “dono” per condividere con gli altri ciò che vede, cerca di stupire, di abbagliare, di sconcertare, sperando di accreditare se stesso come un visionario autore di capolavori che dovrebbero imporlo finalmente al mondo dell’arte. E così dipinge cortei di scheletri, figure mortifere, fatiscenti, corrotte, decomposte. Un surrealista proveniente da un altrove frutto del delirio e della nevrosi, forse la metafora più adatta ad interpretare il suo modo di essere già prima di diventare la cavia dell’esperimento di Dagerlöff.
Jacques Spitz era un ingegnere, una professione che fa pensare a visioni del mondo molto lontane da un’immaginazione narrativa così sfrenata e dissonante. Ma era vicino al surrealismo, dalla cui atmosfera trovava ispirazione per i suoi romanzi. Sicuramente per L’occhio del purgatorio. È immediato pensare a Salvador Dalì e ai suoi orologi, o a Max Ernst e alle sue immagini. Come viene in mente un personaggio meno conosciuto, Pierre Mabille, che nel suo Le Miroir du Merveilleux (1962) pubblicato nel 1940, raccolse brani d’antologia dalle fonti più disparate per dare il senso dell’estetica e dell’immaginazione surrealista, secondo André Breton “un de ces monuments sans le déchiffrement desquels il faudrait renoncer, une fois pour toutes, à l’élucidation de l’esprit surrealiste” (1962).
Un punto d’unione, insomma, fra la ricerca letteraria francese, le avanguardie storiche, la commistione di cultura scientifica e cultura umanistica che rappresentò allora uno degli ultimi esiti dell’Umanesimo.
LETTURE
× Bove Emmanuel, Un Raskolnikov, Lavieri, S. Angelo in Formis, 2011.
× Breton André, Pont-Levis, in Mabille, 1962.
× Mabille Pierre, Le Miroir du Merveilleux, Minuit, Paris, 1962.
× Minkowski Eugène, Il tempo vissuto, Einaudi, Torino, 1971.