VISIONI / COSE DELL'ALTRO MONDO


di Francesco Patierno / Rodeo Drive, 2011


Le altre cose di questo mondo

di Chiara Ribaldo

 

"Non si può inventare nulla di così kitsch che non venga superato dalla vita stessa” (Kracauer, 1982). Scriveva così, nel 1927, Siegfried Kracauer. Il cinema ruba alla vita le battute, le storie, i personaggi, persino i finali; la vita si mostra come davanti ad uno specchio; imbellettata e sotto un gigantesco occhio di bue, la realtà guarda se stessa e le sue maschere fino alla fine del rullo. È in quelle storie prese chissà dove, nei dialoghi spiati alla fermata dell’autobus, tra gli scaffali di un supermercato o nelle corsie d’ospedale che, secondo il sociologo tedesco, si può riuscire ad analizzare e a comprendere la società nella quale viviamo, forse anche a indagarne le tensioni, le angosce e le paure che la agitano. Basta, quindi, “stare ad ascoltare” (ibidem).

Se si osserva con attenzione, si riesce a cogliere in diverse recenti pellicole italiane – da Terra Ferma di Emanuele Crialese (vedi Quaderni d'Altri Tempi n.33) a Io sono lì di Andrea Segre, da Là-Bas di Guido Lombardi a Cose dell’altro mondo di Francesco Patierno – la rappresentazione di un’urgenza che è insieme attuale e atavica, perché legata non solo alla temporaneità dei fatti di cronaca, ma a eventi più profondi e lontani, come la terra, il viaggio, l’abbandono, la scoperta, l’accettazione, l’incontro con l’altro. In questo, il cinema italiano riesce lì dove le altre narrazioni mediali e l’intera informazione falliscono miseramente, soprattutto se consideriamo quanto emerso da un’indagine della Sapienza, Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani (2009), secondo cui nei media “l’immigrazione viene raramente trattata come tema da approfondire e, anche quando ciò avviene, è accomunata alla dimensione della criminalità e della sicurezza (…) è, in sostanza, un problema da risolvere”.

Il racconto del tempo presente sul grande schermo è un racconto di migrazioni, di spazi e geografie come strumenti di affermazione sociale, e, insieme, come colpe da espiare; esso è l’espressione di un bisogno di appartenenza ad un qui e ora che vuole essere identitario, in cui vivere, lavorare, comunicare, in cui restare; un luogo necessario, cioè, a legittimare il diritto ad esistere e ad essere riconosciuti. Ma non solo. C’è in quelle pellicole una “inquietante naturalezza e verità di vita”, per dirla con le parole di Gyorgy Lukàcs (1976), che è raffigurata in modo eccellente nei volti grotteschi dei suoi coprotagonisti, gli italiani, addosso ai quali vengono appiccicati impietosamente e per una sorta di legge del contrappasso tutti gli stereotipi più comuni. In fondo, come scrive Gian Antonio Stella “non c’è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia già stato rinfacciato, un secolo o solo pochi giorni fa, a noi” (Stella, 2003).

Cose dell’altro mondo, terzo film del regista napoletano Francesco Patierno, è un esempio tra i più interessanti – fosse solo perché utilizza il tono della commedia per raccontare un dramma – di questo tipo di narrazione, in cui la messa in scena viene di gran lunga superata dalla realtà che essa cerca di ritrarre e in cui i personaggi sembrano neo-realisticamente presi dalla strada o da un qualsivoglia accadimento di natura politica. Kracauer stesso si domandava: “ma è veramente la società che si mostra nei film di cassetta? Queste commoventi riabilitazioni, questa impossibile nobiltà d’animo, (…) questi mostruosi capitani di industria, criminali ed eroi (…), ma esistono veramente? Sì, esistono davvero, basta sfogliare i quotidiani di provincia” (ibidem).

Gli americani definirebbero la pellicola di Patierno una if comedy, una specie di gioco del “cosa succederebbe se”. Ispirata a Un giorno senza Messicani di Sergio Arau, la storia nasce da una divertente provocazione che nel nostro paese, a differenza della California dove la storia di Arau è ambientata, ha addirittura provocato delle interrogazioni parlamentari e qualche muso lungo tra i politici più sensibili alla causa: cosa accadrebbe se d’improvviso tutte le nostre imprecazioni contro lo straniero (affinché il violinista rom in metro, il lavavetri indiano al semaforo, l’ennesimo ristorante cinese dei ravioli al vapore che sanno sempre di qualcos’altro, la moschea dove quasi sicuramente si organizza lo jihād armato, il nordafricano che vuole venderti otto paia di calzini per bere un caffè, sparissero per sempre) si avverassero? Se d’improvviso i nostri pensieri più intimi e inconfessabili, purificati dal politically correct, prendessero vita, divenendo il mattino seguente completamente autonomi dalla nostra volontà e spaventosamente reali, come nella favola disneyana de L’apprendista stregone?

Mariso Golfetto, interpretato da Diego Abatantuono, tra i protagonisti della pellicola, è un piccolo industriale veneto con la passione per la politica da bar dello sport, le armi, le scappatelle extraconiugali e la televisione dei telepredicatori. Egli stesso è un rozzo e sboccato venditore di tappeti che dalla sua emittente privata ogni sera imbandisce comizi xenofobi, inveendo contro “i fondamentalisti islamici, i fancazzisti albanesi, gli zingari”, invitandoli, senza troppi complimenti, a prendere il cammello e a tornare a casa. Eppure Mariso rispetta la tradizione dell’italiano razzista per sentito dire e non si fa mancare tra una videopredica e l’altra, l’incontro con una prostituta nigeriana, l’acquisto di una nuova katana, una figlia incinta di un operaio di colore. Una sera, però, la litania di un’apocalisse immediata che purifichi il paese con l’acqua di un violento nubifragio al posto del napalm, viene ascoltata e accolta. L’anonima città del nord-est, in cui Golfetto vive, ritorna così ad essere una comunità incontaminata, senza più stranieri, senza quel “tanfo di case sventrate e rase al suolo” (Bauman, 2004) che molti di essi portano con sé. E, tuttavia, questa italica autenticità è solo apparente. C’è traccia di loro ovunque: nelle postazioni deserte delle catene di montaggio, per le strade dove si è accumulata l’immondizia, sul tram, tra i banchi di una scuola elementare, nelle lenzuola stropicciate, tra i panni da stirare, nelle cucine dei ristoranti, sulle fredde panchine dei parchi dove i vecchi amano raccontare la vita alle foglie che cadono. È come se in questo vuoto ci fosse più presenza che assenza, come se negli interstizi del quotidiano lasciati vacanti si fosse aperta, inattesa, una voragine di consapevolezza in cui perdersi.

Ora, quel che succede dopo è un susseguirsi rocambolesco e divertente di espedienti per sopravvivere a se stessi in un paese che ha trattato gli extracomunitari sempre in modo inadeguato, con l’odio, la carità, con l’indifferenza, finché non si è accorto che degli extracomunitari ha bisogno e non solo perché producono, a sentire Il Sole 24ORE, quasi l’11% del nostro PIL, ma anche perché sono parte delle nostre relazioni sociali e affettive. Così c’è ancora Golfetto nella sua fabbrica vuota che, strizzando le palpebre chiuse, pentito, prega Dio: “Quando li apro falli tornare indietro tutti” e poi in preda alla disperazione decide di andare in Africa, lui stesso, a bordo di un furgone scassato; ci sono i bambini italiani che disegnano i volti, senza colore, dei loro compagni scomparsi; c’è un mago improbabile, arrivato chissà da dove, che promette di far tornare a casa gli stranieri recitando formule magiche durante il rito del “brusa la vecia”; c’è un silenzio quasi assordante, una palpabile malinconia nei volti dei presenti, illuminata soltanto dal rogo della vecchia che brucia, ancestrale capro espiatorio di tutti i mali del mondo. C’è che però, alla fine, gli immigrati non tornano, come accadeva invece nel finale consolatorio di Un giorno senza messicani. Questa volta a “rammentare all’insediato quanto facilmente il bozzolo della routine sicura e familiare possa essere infranto” (Bauman, 2004) non è più l’ignoto incarnato dallo straniero, ma l’ignoto che la sua mancanza ha generato in esso. E in fondo non poteva esserci finale più adatto per un film che mutua le sue immagini e le sue parole da una realtà sociale e politica di per sé incredibile; una realtà in cui un eurodeputato leghista sale su un treno per una “disinfestazione razziale” nel nome di una “Padania bianca e cristiana”, in cui, in barba alla memoria di Rosa Parks e alle storiche lotte contro la segregazione, un altro politico, candidato al Parlamento europeo, propone di destinare singole carrozze sui mezzi pubblici solo agli extracomunitari o, ancora, una realtà nella quale il vicesindaco di una città veneta chiede ad una folla esultante che siano “eliminati tutti i bambini zingari che elemosinano”, naturalmente solo dopo averli schedati su suggerimento del ministro dell’interno, e in cui si invoca contro i musulmani l’uso della garrota alla maniera degli Apache. Pare ovvio che, rispetto a questa stramba e inquietante fotografia, il personaggio di Mariso Golfetto, alla fine persino semi-redento, sembri un dilettante per altro neanche troppo originale.

Il cinema, insomma, non inventa nulla e, questo, nel film di Patierno è evidente fin dalle prime battute. Quello che il cinema fa, però, è permetterci di assumere un punto di vista nuovo, insieme immersivo e distaccato, sulla concretezza dei fatti. Immersivo, perché una tale solidità non è data dalle ricerche sul tema, né dalle statistiche, seppure indicative di una situazione tutt’altro che immutabile, né dalla cronaca raccontata sui quotidiani, essa è piuttosto rintracciabile nelle persone, nei loro destini, nello spazio che oramai occupano, che lo si voglia o no, in quell’habitat comune che non ha e che non può avere recinti, guardie armate o filo spinato. Distaccato perché, nel pensare ciò che si ritiene impensabile, il cinema è così prossimo alla realtà da farci credere, paradossalmente, di averla già oltrepassata, come se raccontasse un’altra storia, che non parla di noi e che, per questo, non ci riguarda. Come se le cose di questo mondo, al cinema, appartenessero invece a un altro mondo, forse, chissà, anche ad un altro tempo.


 

LETTURE

× Bauman Zygmunt, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma-Bari, 2004.

× Kracauer Sigfried, La massa come ornamento, Prismi, Napoli, 1982.

× Lukàcs Gyorgy, Riflessioni per un’estetica del cinema, in Scritti di sociologia della letteratura, Mondadori, Milano, 1976.

× Stella Gian Antonio, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, Milano, 2003.

× Facoltà di Scienze politiche, Sociologia, Comunicazione, Sapienza Università di Roma, (a cura di), Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani, 2009, UNHCR.it.

× Moula Konen, Dagli immigrati l'11% del Pil nazionale, Il Sole 24ore.

 

VISIONI

× Algar James, Fantasia. L’apprendista stregone, Buena Vista International, 2000.

× Arau Sergio, Un giorno senza messicani, 2009, Rai Cinema - 01 Distribution.

× Crialese Emanuele, Terra ferma, 2011, Cattleya, in collaborazione con Rai Cinema.

× Lombardi Guido, La-Bàs, 2011, Eskimo, Figli del Bronx, Minerva Pictures Group in collaborazione con Rai Cinema.

× Segre Andrea., Io sono lì, 2011, Jolefilm, Aeternam Films.