LETTURE / IL BANCHIERE
di Régis Jauffret / Barbès, Firenze, 2011 / pagine 151, € 14,00
Un severo quadro iperrealista
di Livio Santoro
Quando si parla di sesso marcio, quando si raccontano storie di amori morbosi in equilibrio sul bordo del patologico e quando si rimesta nel fondo calderone delle perversioni umide, è facile stimolare quell’interesse umano volgarmente sintetizzato nell’adagio freudiano, buono per tutte le stagioni, che fa camminare eros e thanatos a braccetto nelle fantastiche regioni dell’inconscio. Quando le storie si offrono di nuotare nel sangue e nel torbido e di farsi imprigionare nel latex, recuperando magari temi sempreverdi come l’irrisolto di un qualsiasi Edipo o le vendette di una puttana offesa, è facile suscitare la sensazione ed il clamore. Se poi queste storie recuperano, si ispirano o addirittura copiano, rendendoli letteratura, fatti registrati nella nostra realtà di tutti i giorni, allora c’è il concreto rischio di andare sul sicuro, a patto che non si ecceda nell’iperbole o nell’elargizione di immagini violente: altrimenti si scadrebbe nel più becero dei gossip, o si affonderebbe nel più pacchiano degli scenari cinematografici di cartello. Ma tutto ciò, sia detto con chiarezza, lo sanno anche i bimbetti più inesperti.
Tendenzialmente ognuno di questi elementi appena snocciolati frettolosamente, al netto del gossip e del pacchiano cinematografico, fa parte de Il Banchiere, secondo libro tradotto dalle nostre parti del francese Régis Jauffret, famoso in patria quanto oscuro qui da noi. Jauffret ha preso un evento della cronaca francese dell’anno 2005, l’omicidio di un ricco e perverso uomo di finanza svizzero (Édouard Stern) ad opera della sua puttana di fiducia (Cécile Brossard), e ne ha fatto letteratura, offrendo la possibilità, a noi sociologi, di parlarne da due punti di vista: quello della letteratura, appunto, e quello della realtà.
Fin troppo facile nel secondo caso, a leggere alcune delle cronache nazionali e internazionali degli ultimi anni: la montatura Strauss-Kahn, la morte thailandese di David Carradine, i festini in maschere sessuate di Palazzo Grazioli, lo shibari finito male nello scenario lercio di un garage romano, per fare solo alcuni degli esempi più recenti. Si prenderebbe Michel Foucault, lo si strizzerebbe malamente fino ad estrarne il senso della coppia soggettivazione/assoggettamento insita nel dispositivo di sessualità (Foucault, 2009a), oppure fino a riproporre una rinnovata teoria attraverso le tracce segnate dalla misura del grottesco (Foucault, 2009b). O magari si sceglierebbero alcune confortanti, bizzarre e francamente fantasiose, letture femministe dello stesso Foucault con lo scopo di trarne nuovo spunto per una teoria della legittima vendetta di un genere oppresso finalmente in grado di misurarsi, all’interno del diagramma del potere, con le stesse armi dei suoi aguzzini.
A voler eccedere nei sociologismi culturali si potrebbe anche ripescare nel cinema, per trarre la realtà dalle distorsioni speculari della finzione, e chiedere aiuto, per esempio, a Pier Paolo Pasolini, in quegli incroci orgiastici del potere, unico elemento anarchico del dissolvimento dell’uomo (Pasolini, 2008), in cui più si sale nelle gerarchie sociali più ci si imbatte nell’abbacinante misura del terribile: “la vera anarchia” come viene detto “è quella del potere”. In quest’opera di adeguamento ci potrebbe venire in aiuto anche Society (Yuzna, 2010), un altro grande classico dell’identità organicamente teratologica tracciata tra il potere e i riti orgiastici. Tutto ciò, per quanto preso anche dal cinema, per quanto nato all’interno di una cornice di finzione – lo stesso Foucault, d’altronde, ha sostenuto che la sua filosofia non è altro che finzione (Deleuze, 2002) –, farebbe al caso nostro. Ma si prenda un’altra strada, e si accantonino tutte le divertenti possibilità elencate appena sopra.
Insomma, per non cadere in quadri dipinti ad uso esclusivo del pittore, per non lasciarsi affascinare da traiettorie del reale tendenzialmente votate ad un qualsiasi determinismo ermeneutico, sarebbe preferibile leggere Il banchiere di Jauffret esclusivamente con la squisita misura della letteratura. In questa opera di scandaglio, allora, verrebbero in superficie, di primo acchito, due tratti caratteristici di questa narrazione: la tipizzazione esasperata dei personaggi e delle situazioni, e la prosa secca e densa di salti, in cui abbondano tagli netti, dove l’interpunzione è messa come una sequenza di bordi continui e precipizi frastagliati.
Ecco: Il banchiere è un libro che utilizza il metro della letteratura, i suoi strumenti, per porsi dalla stessa parte dell’analisi sociale. Il banchiere non si nasconde dietro ai suoi personaggi, poiché è una narrazione che estremizza nel tipico il profilo dei suoi stessi protagonisti, quasi a farne dei bambocci troppo definiti, ritratti dai colori accesi ed evidenti e dai contorni segnati di nero impermeabile. Come nell’iperrealismo grafico di Ralph Goings, per citare solo un nome, i soggetti della realtà di Jauffret sembrano calcare i propri tratti, esasperare in se stessi quei dettagli che li rendono tipici, ossia fatti apposta per la letteratura. E questo eccesso di realismo porta naturalmente verso il suo contrario, crea simulacri di cera, manichini della stessa materia del latex, corpi vuoti, irreali, densi di tipizzazioni. E come abbiamo già detto tali stereotipie euristiche, a loro volta, vivono e si muovono in un prosare secco, cifra di una necessità chiaramente più ampia della stessa resa letteraria.
Ma perché questo doppio binario rende caratteristico il lavoro di Jauffret? Perché lo mette dalla parte della realtà e della sua analisi, ma a partire dal testo letterario. Quindi si rovesci l’iniziale proposito che qui ci sta muovendo: non si cerchi, cioè, la realtà attraverso lo specchio della letteratura, ma si prenda la letteratura, nel suo ambito di pertinenza, come analisi e proposta di una realtà (dunque non della realtà singolare). In questo senso Jauffret propone esattamente un’ipotesi di realtà, un’ipotesi di uomo, un’ipotesi di situazione, ma a partire dalla stessa letteratura, cioè rivoltando dall’interno del suo punto di vista la proposta sociologica. Non è più la sociologia che legge la letteratura e l’adegua alla sua epoca, ma è la letteratura che, leggendo l’uomo e costruendolo, descrive una sociologia, una sociologia naturalmente parziale, una sociologia fittizia, come lo sono tutte.
Ed è lo stesso Jauffret a sostenere questa tesi quando, nel Preambolo di apertura al suo Il banchiere, sostiene preventivamente: “La finzione rischiara come una torcia. Un crimine rimarrà sempre oscuro. Si arresta il colpevole, si risale al movente, si giudica, si condanna, e nonostante tutto l’ombra non si dissolve, come l’oscurità nella cantina di una casa inondata di sole. L’immaginazione è uno strumento di conoscenza, guarda da lontano, si cala nei dettagli come se volesse esplorarne gli atomi, tritura il reale, o tende fino al punto di rottura, lo trascina con sé nelle sue deduzioni infarcite di assiomi che per loro natura non verranno mai dimostrati. Sì. Ma la finzione mente […], la letteratura è senza scrupoli. […] I personaggi sono pupazzi imbottiti di parole, di spazi, di virgole, la sintassi è la loro pelle”.
Sicché Il banchiere di Jauffret, dati anche i nostri presupposti, sembra chiaramente rifarsi ad un classico modello letterario del passato più recente, cioè a quella secca scrittura camusiana de Lo straniero (Camus, 1967) che estremizza i contorni dei ritratti e che frammenta la realtà, spezzettando la prosa stessa e utilizzando una sintassi epidermica che dipinge da sé il profilo dei personaggi in una galleria di volti esasperati, proprio come le caratterizzazioni descrittive di cui spesso si fa forte la sociologia. Perché anche quest’ultima, con le sue tipizzazioni nette e le sue necessità euristiche, non è altro che letteratura.
LETTURE
× Camus Albert, Lo straniero, Bompiani, Milano, 1967.
× Deleuze Gilles, Foucault, Cronopio, Napoli, 2002.
× Foucault Michel, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano, 2009a.
× Foucault Michel, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano, 2009b.
VISIONI
× Pasolini Pierpaolo, Salò o le 120 giornate di Sodoma, Cde, 2008.
× Yuzna Brian, Society, Eagle Pictures, 2010.