ASCOLTI / CONCERT IN MILWAUKEE
di Derek Bailey / Incus, 2011
In compagnia e in disaccordo
di Gennaro Fucile
plink… plonk, plink, plonk, pause, sfrigolii, corde percosse, scorticate, grattate con il plettro, grappoli di note rapprese, plink, plonk, una singola nota trattenuta, il suono si impenna, scema, plink, plonk, tic, toc, disaccordi, intrico scomposto, è un corpo a corpo, una chitarra e un uomo, un’esperienza tattile, gocce di suono, cascate di suoni, tic, toc, ci sono molti modi di suonare una chitarra, sconfinando dalle regole precostituite, oppure spingendosi ai limiti del possibile dentro le regole, rifuggendo dal virtuosismo o coltivandolo, plink… plonk, plink, plonk, ci sono molti modi codificati oppure se ne può inventare uno, personale, plink… plonk, tic, toc, inimitabile, in continua evoluzione, reattivo, fondato in apparenza sul nulla, in caduta libera, una sfida continua, alla ricerca dell’improvvisazione pura, all’inseguimento della totale sregolatezza come unica/infinita possibilità di fare musica, tic, toc, tic toc, piccoli suoni anarchici sprigionati da una semplice chitarra, acustica, elettrica, che tanto caustica e tanto aliena pare la prima volta che la si ascolta, come sarà sembrato a qualcuno anche la sera del 31 marzo 1983, quando Derek Bailey, un garbato, segaligno, arguto signore inglese nato a Sheffield il 29 gennaio 1930, suonò al Woodland Pattern, Milwaukee, Wisconsin, Usa, fornendo un ennesimo saggio del suo modo di intendere l’arte dell’improvvisazione e dando ancora una volta la sensazione di voler echeggiare uno zoccolìo, come ebbe modo di commentare acutamente la francesista Caterina Napolitano. La bontà dell’affermazione è corroborata da una singolare performance che l’ineffabile Bailey documentò su Music and Dance, registrazione di singolari duetti con il ballerino giapponese Min Tanaka, nel corso del quale, plink… plonk, tic, toc, si ascoltano mani e piedi che picchiettano sulle corde e sul pavimento, a ciascuno il suo strumento, zoccolìo, plink… plonk, tic, toc. Quello con Tanaka non è stato l’unico momento di contatto di Bailey con il Sol Levante, che visitò ripetutamente per quasi trent’anni. Quando suonò a Milwaukee, registrò il concerto proprio in vista di una serie di esibizioni in programma in Giappone. Autoprodusse circa 500 cassette da vendere nel corso del tour e le spedì all’organizzatore della tournée, ma le date saltarono e le cassette tornarono indietro. Qualcosa, però, andò storto nella spedizione e quando Bailey si recò all’ufficio postale ebbe la sorpresa di trovare i pacchi danneggiati: delle 500 cassette ne salvò grossomodo 150. Numeri davvero ridicoli, eppure il nastro contiene una splendida prova dell’arte baileyana. “Nelle quattro tracce (due acustiche, due elettriche) i suoni si srotolano in modo quasi lineare, anche se le note si dispongono in cirri, cumuli, strati, si addensano in nembi, vibrano, si placano sospinte da una logica aleatoria. Bailey era un maestro nel tenere letteralmente sulla corda l’ascoltatore e a Milwaukee ne diede una dimostrazione magistrale” (Fucile, 2012). Il nastro oggi rispunta grazie alla Incus, la prima etichetta discografica nel Regno Unito ad essere totalmente indipendente e autogestita dai musicisti. Tutta la scena radicale post free in quegli anni operava per rendersi autonoma dall’industria discografica. L’esprit du temps, plink, plonk, in Germania era nata la Free Music Production (FMP) creata dal sassofonista Peter Brötzmann con l’apporto di diversi musicisti provenienti dalla big band del pianista Alex von Schlippenbach, la Globe Unity; in Olanda, il pianista Misha Mengelberg, il polistrumentista Han Bennink e il sassofonista Willem Breuker diedero vita alla Instant Composers Pool (ICP). Cooperative di produzione post sessantottesche, tra le poche a condurre in porto una vera rivoluzione. In seguito ne fiorirono mille, alcune vissute un giorno o poco più, altre, più longeve, sono tuttora in attività. Bailey incontrò in più e più occasioni i musicisti tedeschi e olandesi, partecipò alla registrazione dei debordanti Nipples e Fuck De Boere di Brötzmann, ai bizzarri Groupcomposing e Instant Composers Pool, entrambi a nome ICP, anche se il secondo è un duo con Bennink.
Plonk, plonk, tic, tic, l’aria del Sessantotto aveva già sospinto Bailey da circa un anno verso un altro collettivo inglese dedito alle prime forme di emancipazione musicale operando, a sua volta, una personale interpretazione della lezione impartita oltreoceano dal free jazz: lo Spontaneous Music Ensemble (SME) del batterista John Stevens e per lungo tempo anche del sassofonista Trevor Watts. Si incontravano tutti al Little Theatre Club, a Londra, gestito dallo stesso Stevens. Bailey si fa largo in una formazione dello SME che riunisce già quelle che risulteranno le personalità di maggior spicco della scena radicale inglese. Oltre a Stevens e Watts sono presenti il trombonista Paul Rutherford, il sassofonista Evan Parker, il contrabbassista Barry Guy e il magico trombettista canadese Kenny Wheeler. Ognuno di loro scriverà con Bailey pagine fondamentali nella storia della musica improvvisata. Le registrazioni del 1967 vedranno la luce oltre trent’anni dopo, ma all’epoca uscì un altro disco inciso poco dopo, il 18 febbraio 1968: Karyobin. All’opera c’è un quintetto composto oltre che da Bailey, da Parker, Wheeler, Stevens e dal bassista Dave Holland, quasi un attimo prima di finire con Miles Davis a inventare il jazz elettrico di Bitches Brew. La jam cui i cinque danno luogo è intrisa di umori rivoluzionari, già sufficientemente sganciata dal free che in qualche modo l’ispirava. A fianco, di lato, a debita distanza, altri musicisti ripensano il jazz in Uk, dai Soft Machine di provenienza canterburyana alla Brotherhood of Breath che invece arriva in parte dal Sudafrica. In questo scenario turbolento nasce la Incus. Venne fondata proprio da Bailey, nel 1970, insieme ad altri due uomini della scena radicale britannica: Evan Parker (già incrociato nello SME) e il batterista Tony Oxley, una sua vecchia conoscenza. A metà dei Settanta inizierà a lavorarci part-time Karen Brookman. C’è un’organizzazione da mandare avanti, lei ha assistito ad alcuni concerti di Bailey, è stata catturata dalla sua pratica musicale, poi da lui e dal 1984 inizieranno a vivere insieme. Grazie a Karen Brookman la Incus è oggi ancora in vita; dopo la scomparsa del compagno ne ha ristampato un prezioso solo, Lot 74, pubblicato un inedito nastro coevo (More 74), sempre registrazioni in solitudine, recuperato il concerto di Milwaukee e il box Barcelona Chronicles Set (due dvd e un cd), registrazione di tre concerti tenuti nella città catalana, due in solo e uno con il pianista Agustí Fernández. È la stagione finale di Bailey che dal 2003 si stabilì con Karen a Barcellona, tornando saltuariamente in patria. Plink, tic, plink, la Incus, come la FMP e l’ICP è anche un nome segnaletico, perché indica il raggio d’azione dell’etichetta, che in questo caso va oltre la semplice dichiarazione d’autonomia e di libertà, enfatizzando quella cerebralità viscerale tipica di Bailey. Infatti, Incus in anatomia è uno dei tre ossicini dell’orecchio medio, l’incudine (incus, appunto) che con il martello e la staffa ha il compito di trasmettere all’orecchio interno le onde sonore. Plonk.
Il trio Bailey/Parker/Oxley incise quella che avrebbe dovuto essere la prima uscita discografica della neonata etichetta, ma la registrazione non venne pubblicata e i master andarono inspiegabilmente persi. Al suo posto subentrò Topography of the Lungs, un album sempre in trio con Parker e Han Bennink (l’internazionale del suono libero, per sua natura, è senza confini), l’Incus numero 1 che sul retro della copertina asseriva: “Incus has no intention of making profits in the conventional sense”. Anche in questo caso non c’è più traccia del master originale e la ristampa su cd è stata realizzata ricorrendo a una copia vergine di un vinile giapponese. Quanto alla musica: “Caratterizzato da un rigore assoluto, il trio si spinge ad un livello di astrazione inaudito. Le trame ordite intorno al silenzio da Bailey sono assecondate dall’energia inesauribile di Parker, e dall’irrompere e sparire di Bennink, vero olandese volante tra percussioni ortodosse e autocostruite. Qui la metamusica diventa un progetto, estraendo dal nulla suoni senza destinazione alcuna” (Bonomi/Fucile, 2005). Tra i primi Incus c’è anche un Solo Improvisation, primo di una nutrita schiera di album registrati in solitudine, alcuni in studio e altri che lo riprendono in concerto come a Milwaukee, che presi nel loro insieme suggeriscono l’idea di “essere di fronte a un’unica, infinita improvvisazione separata in tracce, album e concerti solo per necessità tecnica e limiti naturali. Interruzioni che fungono da pause nella sua notazione musicale” (Fucile, 2007).
Plink… plonk, plink, plonk, tic, toc, con Bennink e Parker seguiranno altri incontri, con Parker sarà poi scontro e rottura brusca, con Bennink il gioco non finirà mai, lui era e rimase un amico e con lui Bailey registrò la terza puntata discografica firmata Company. L’anno è il 1977, da allora ogni anno, una volta all’anno, fino al 1994, prima a Londra, poi in altre località come New York e Hakushu (in Giappone), Marsiglia, Chattanooga (nel Tennessee, dove Bailey si cimentò anche con una sorta di post rockabilly), ogni anno per una settimana, Bailey organizzò degli incontri tra musicisti con i quali liberamente improvvisare. Appuntamenti annuali chiamati Company Week, per indicare con precisione sia la durata settimanale sia il collettivo protagonista dell’evento, Company, aggregato a organico variabile, non necessariamente e prevalentemente all’opera collettivamente. Alle settimane partecipavano mediamente nove/undici musicisti, ma la regola era di pasta frolla: nel 1990, ad esempio, vi presero parte in 34. Company è un organismo rigeneratosi di continuo, suonando ancora nel 2002 a New York, tre anni prima della morte di Bailey e ricostituitosi nel 2009, proponendosi per due giorni al Café Oto di Londra nell’ambito dell’Incus Phoenix Festival.
Il novero di musicisti che negli anni si sono avvicendati è impressionante: Anthony Braxton, Steve Lacy, Fred Frith, George Lewis, Anne Le Baron, Akio Suzuki, Julie Tippetts, Keith Tippett, Phil Wachsmann, Lol Coxhill, Steve Beresford, Leo Smith, Rhodri Davies, Simon Fell, David Toop, Paul Lytton, Mats Gustafson, Zeena Parkins, John Zorn, Vink Globokar, oltre ai citati Parker, Bennink, Stevens, Holland, Mengelberg, ecc., tic, plonk, toc, toc. Il caparbio Derek architettò le settimane della Company per diciassette anni, il termine (e l’idea di) Company iniziò a ricorrere poco prima, nel 1976, nei suoi ragionamenti intorno alla pratica dell’improvvisazione in musica. L’aleatorietà dell’insieme, le imperscrutabili trame sonore scaturite da quegli incontri, la loro ispirazione libertaria, trovarono eco in alcune registrazioni pubblicate dalla Incus. La prima uscita discografica venne intitolata semplicemente Company 1 proseguendo così anche nelle sei uscite successive. Solo negli anni Ottanta compariranno dei titoli come Fictions o Epiphany/Epiphanies. I compagni di Bailey in quella prima occasione, il 6 maggio 1976, furono il contrabbassista Maarten van Regteren Altena, il violoncellista Tristan Honsinger e il sassofonista Evan Parker. Un quartetto anglo-olandese che non suona mai, perché l’album propone quattro improvvisazioni in trio, quasi un gioco dei quattro cantoni, spurio, dove qualcuno è sempre fuori, ma dove a turno l’escluso risulta producer del brano (chiamiamolo così per comodità), come raccontano le note di copertina. Brani che portano titolo eloquenti: No South, No North, No East, No West. Unica direzione certa è quella della totale, immediata improvvisazione, sola virtù della musica che vuole tenersi alla larga dalla commercializzazione e dalla banalizzazione di massa, dimensione inviolabile, una sorta di verginità difesa a spada tratta dal suo orgoglioso cavaliere. “Stella polare della libertà in musica. Bailey ha praticato e teorizzato l’improvvisazione come unica via alla musica. [...] Un rigore ad oltranza che si può non condividere, ma di una coerenza ammirevole” (Bonomi/Fucile, 2005). Tic, toc, plink, plonk, tic, toc, quartetto autentico era invece quello che qualche anno prima Bailey aveva costituito insieme a Parker, a Jamie Muir (percussioni, poi nei King Crimson) e Hugh Davies (live electronics) anche se sul finire della sua attività si aggiunse la vocalist Christine Jeffrey. La formazione si chiamava Music Improvisation Company e giocava sui contrasti tra i componenti, operando, come sostenne Davies, sulla reciproca sovversione. In azione dal 1968 al 1971, trovò una prima occasione di pubblicare grazie alla neonata Ecm di Manfred Eicher e altro materiale venne poi documentato dalla solita Incus. Nessuna direzione, nessun punto cardinale? Sarà, ma proprio Bailey si configurerà sempre più come una via maestra per tutti coloro che decidono di imbracciare lo strumento per eccellenza del secondo Novecento, la chitarra, laddove gli altri tre fari rispondono al nome di John Fahey, Jimi Hendrix e Robert Fripp (sulla prima stagione di Fripp e i King Crimson, si veda in questo numero: Quando esplose la testa del re cremisi, di Francesco Zago).
Tic, toc, plink, plonk, tic, toc, in assenza di punti cardinali si finisce ovunque e il violoncellista Honsinger si ritroverà con Bailey a incidere Once, disco attribuito sempre a Company che registra uno degli incontri più singolari della carriera del musicista inglese, quello con Lee Konitz. Curioso, capace di mettersi in gioco, di esplorare territori a lui ignoti, Konitz arriva da lontano, dal be bop di Charlie Parker che rielabora producendone una sofisticata astrazione congeniale a quel sound bianco di cui è protagonista insieme a Lennie Tristano e Warne Marsch in particolare; cool jazz lo si chiamerà giusto per ingabbiarlo, ma Konitz (come Tristano, come Jimmy Giuffre) anticiperà non poco le ondate di liberazione che investiranno nei Sessanta le musiche tutte, ma Konitz non è certo un improvvisatore radicale, disancorato dal jazz come Bailey. Quello di Once, tuttavia, non è il loro primo incontro. In realtà, i due si ritrovano vent’anni e passa dopo in alcuni concerti tenuti a metà Sixties in Inghilterra, quando Konitz si fece accompagnare da un trio denominato Joseph Holbrooke (prendendo il nome di un compositore inglese del primo Novecento), formazione composta dallo stesso Bailey, da Oxley e dal contrabassista Gavin Bryars. Il terzetto agì dal 1963 al 1966, un’esperienza chiave che consentì a Bailey (e a Oxley) di transitare dal mainstream a forme di jazz sempre più libere, approdando infine alla totale libertà da schemi, armonie, costruzioni prestabilite. “Oxley forniva al gruppo il collegamento e l’interesse nei confronti di quelle che allora erano le nuove tendenze del jazz, da Bill Evans, attraverso John Coltrane ed Eric Dolphy, sino ad Albert Ayler, mentre l’interesse di Bryars era polarizzato verso compositori contemporanei: Messiaen, Boulez, Stockhausen, Cage e i loro seguaci”.
Bailey arrivava da oltre un decennio di oscuro lavoro come orchestrale in sale da ballo e altri luoghi di ritrovo per i giovani di allora, oppure come sideman in studi radiofonici e televisivi. Il trio divenne il laboratorio nel quale maturò il suo personalissimo approccio alla musica tout court. “All'inizio suonavamo in maniera piuttosto convenzionale, secondo un certo costume jazz. L'improvvisazione si basava su sequenze fisse di accordi, in genere standard di jazz, e si rispettava il tempo […] naturalmente non si trattava di «musica libera». Era modale”. A partire dal 1965, il trio imbocca deciso la via dell’emancipazione dal jazz: “… arrivammo a rompere quella struttura, ciò avvenne gradualmente, senza che alcuna mossa fosse decisiva e definitiva [...] avevamo escluso gli elementi che non erano di nostro gradimento, e molto spesso si trattava proprio degli assi portanti del sistema tonale, e facevamo un uso più consistente degli intervalli di maggior dissonanza. Ricorrevamo anche a procedure seriali [...] Dopo un certo periodo smettemmo di seguire quello che accadeva nel jazz in America”.
Prima di abbandonare le scene, però, Joseph Holbrooke accompagnò Konitz e tracce di quell’incontro sono fissate su un bootleg che riprende il quartetto a Manchester al Club 43. È il 19 marzo 1966, di lì a poco questa singolare formazione, che aveva preso il nome da quello del compositore noto anche come il Wagner londinese e di cui non eseguì mai nulla (di proprio registrò unicamente un singolo, pubblicato solo nel 1999 dalla Incus, dove viene eseguito un brano di John Coltrane: Miles Mood), si sciolse per divergenze profonde tra Bryars e Bailey una volta giunti di fronte al bivio composizione/improvvisazione. Bryars si espresse senza mezzi termini: “Cominciai a considerare l'improvvisazione un vicolo cieco.”, laddove, per Bailey: “Storicamente, l'improvvisazione viene prima di ogni altra musica, dato che la prima esibizione musicale del genere umano non può essere stata che una libera improvvisazione”. Contraddizioni in seno al popolo, si sarebbe detto all’epoca. I due si ritrovarono in un episodio della collana Obscure ideata da Brian Eno, The Sinking Of The Titanic, una sofisticata messa in musica del celeberrimo affondamento. Quelli con Bryars e Parker sono i due grandi strappi che segnano la vicenda umana e artistica di Bailey e avranno esito diverso. Joseph Holbrooke si riformerà nel 1998 in occasione dei sessant’anni di Oxley, dando luogo a una serie di registrazioni, mentre l’inimicizia con Evan Parker resterà per sempre, al punto che questi declinerà l’invito di Musica Jazz a rilasciare un commento sulla morte dell’ex amico quando in quella triste occasione la rivista chiese a musicisti di diverse generazioni un ricordo dello scomparso. Tic … toc … toc, sulla teoria e sulla pratica dell’improvvisazione, Bailey ha anche scritto molto e il tutto è confluito nel libro Improvvisazione, dalla cui edizione italiana del 1982 – Arcana, Milano – provengono gli estratti fin qui riportati. In seguito vennero realizzate delle puntate televisive per Channel Four da cui si trasse un’edizione riveduta e corretta del testo originale (oggi è disponibile anche in italiano, vedi sotto in Letture). Ha anche rilasciato un discreto numero di interviste. In una di queste, risalente al 1977, alla rivista Musics (da lui creata e affidata a una distribuzione militante) diede una spiegazione abbacinante della dinamica dell’improvvisazione: “i tic diventano toc, i toc diventano tic”… certo, molto dipende anche dall’organico in azione, Bailey privilegiava la soluzione in duo (in particolare quella con i batteristi, sebbene non ne seppe mai individuare il motivo), anche se sulle prime come si è visto fu il trio a forgiare e affilare le sue armi, quello storico, Joseph Holbrooke, l’altro che inaugurò la Incus (con Parker e Oxley) e, forse ancora più fondamentale, il trio di ispirazione leninista, Iskra 1903. I compagni di strada furono Rutherford (non solo al trombone, ma anche al piano) e Barry Guy. La Incus pubblicò un omonimo doppio nel 1972, una fabbrica di “suoni progettualmente disorganizzati, che non conoscono il prima e il dopo, il sopra e il sotto, fluttuando come in assenza di gravità” (Bonomi/Fucile, 2005): tic, plonk, plonk. Negli anni Novanta riecco un altro terzetto con una potenza di fuoco spaventosa: gli Arcana. Al basso c’è Bill Laswell, alla batteria Tony Williams, che fu membro del magnifico quintetto davisiano nei Sessanta. Suonano stritolando insieme i rock blues à la Cream e il funky in una furibonda improvvisazione. Di mezzo ci sono trent’anni in cui Bailey ha messo in piedi e poi sfaldato innumerevoli coppie – un agire degno di Casanova – continuando a fare e disfare fino alla fine dei suoi giorni. Una serie di mirabili incontri con Braxton, Parker, Stevens, Bennink, Oxley, Tony Coe, Henry Kaiser, Muir, Perfect, Alex Ward, Noël Akchoté, Keiji Haino, Susie Ibarra, Min Xiao-Fen, Franz Hautzinger, Agustí Fernández, per citarne alcuni, che si aggiungono a quelli scaturiti dalle Company Week.
Tic.
Nel 1998, come accennato, si riforma il trio Joseph Holbrooke. L’occasione è il compleanno numero sessanta di Oxley. I tre suonarono a Colonia in settembre. “Una bella festa musicale che li convinse a rivedersi in studio dopo tre mesi, scegliendo come produttore Gary Todd della Cortical Foundation’s organ of Corti. I tre registrano e, soddisfatti, danno un concerto nel gennaio 1999 ad Antwerp. Poi Todd vola giù dal balcone di casa ed entra in coma. […] Il progetto si arena, fino a quando Oxley suggerisce di rivolgersi a John Zorn” (Fucile, 2006). Strana storia, circolare come poche. Tutto sembra procedere come sempre, Bailey non smette di stupire, suona ovunque cambiando continuamente partner, escono nuovi dischi, nuovi come concezione. L’etichetta di Zorn, Tzadik, pubblica un album che lo propone in versione moderatamente cantabile, alle prese con dei classici del jazz dopo quarant’anni, Ballads (postumo arriverà il seguito: Standards) e David Sylvian, si avvale del suo contributo per il raffinato Blemish del 2003 (postumo verrà pubblicata l’intera seduta, con il titolo dichiaratamente beckettiano To Play). Bailey però non sta bene, inizia ad avere dei problemi già nella primavera del 2004, dolori alla mano destra e difficoltà nel muovere le dita. Il 25 giugno la situazione precipita, quando gli scivola di mano il plettro nel corso di un concerto con il sassofonista danese Jakob Draminsky Højmark. Toc. Si tratta di sclerosi laterale amiotrofica, ma viene scambiata per sindrome del tunnel carpale: non riesce più a tenere e usare il plettro. Deve riformulare il suo modo di suonare, utilizzando pollice e indice per pizzicare le corde, plink, plonk, nel 2005, arriva Carpal Tunnel, il suo diario sonoro, racconto dei tentativi di sormontare l’ostacolo, plinkplonkplink, si scusa, tictoc, il primo brano, Explanation and Thanks, suona come un’audiolettera inviata agli ascoltatori. Intanto, alla Tzadik si lavora all’editing del concerto di Antwerp con lo Joseph Hoolbrooke, è tempo di pubblicarlo. Tic. Il cerchio si chiude. Toc. La mattina del 26 dicembre 2005, Bryars riceve per posta la cassetta con l’editing definitivo del concerto, ma Bailey non c’è più, ha festeggiato il giorno di Natale salutando tutti per sempre, plink, plonk
LETTURE
× Bailey Derek, Improvvisazione: sua natura e pratica in musica, Ets, Pisa, 2010.
× Bonomi Claudio/Fucile Gennaro, Elastic Jazz, Auditorium, Milano, 2005.
× Fucile Gennaro, Joseph Holbrooke Trio: The Moat Recordings, Musica Jazz, luglio 2006.
× Fucile Gennaro, Derek Bailey: To Play, Musica Jazz, gennaio 2007.
× Fucile Gennaro, Derek Bailey: Concert in Milwaukee, Musica Jazz, gennaio 2012.
ASCOLTI
In solo
× Solo Guitar Volume 1, Incus, 1992.
× Solo Guitar Volume 2, Incus, 1992.
× Lot 74, Incus, 2010.
× More 74, Incus, 2010.
× Incus Taps, Organ of corti, 1996.
× Improvisation (1975), Strange Days Records, 2007.
× New Sights, Old Sounds, Incus, 2002.
× Lace, Emanem, 1989.
× Ballads, Tzadik, 2002.
× Standards, Tzadik, 2007.
× Carpal Tunnel, Tzadik, 2005.
× To Play (The Blemish Sessions), Samadhisound, 2006.
In duo, con
× Anthony Braxton, First Duo Concert, London 1974, Emanem, 1996.
× Tony Coe, Time, Incus, 1979.
× D.J. Ninj, Guitar, drums 'n' bass, Avant, 1995.
× Agustí Fernández, A Silent Dance, Incus, 2009.
× Franz Hautzinger, Derek Bailey/Franz Hautzinger, Grob, 2002.
× Dave Holland, Improvisations for cello and guitar, Ecm 1971.
× Susie Ibarra, Daedal, Incus, 1999.
× Steve Lacy, Outcome, Potlach, 1999.
× Jamie Muir, Dart Drug, Incus, 1995.
× Evan Parker, The London Concert, Psi, 2005.
× Evan Parker, Arch Duo, Rastascan, 1999.
× John Stevens, Playing, Incus 1993.
× Min Tanaka, Music and Dance, Revenant, 1996.
× Min Xiao-Fen, Viper, Avant, 1998.
In trio
× Arcana, The Last Wave, Avant, 1995.
× Derek Bailey/Evan Parker/Han Bennink, The Topography of the Lungs, Psi, 2006.
× Iskra 1903, Iskra 1903, Emanem, 2000.
× Iskra 1903, Goldsmiths, Emanem, 2011.
× Joseph Holbrooke Trio, The Moat Recordings, Tzadik, 2006.
Company
× 1, 2, 3, 4, Incus, 1977.
× 5, Incus, 2001.
× 6 & 7, Incus 1991.
× Trios, Incus, 1983.
× Once, Incus, 1989.
× Company 91, voll. 1, 2, 3, Incus, 1991.
× Epiphany/Epiphanies, Incus, 2001.
Altre formazioni, collaborazioni
× Derek Bailey/Pat Metheny/Gregg Bendian/Paul Wertico, The Sign of Four, The Knitting Factory, 1997.
× Peter Brötzmann Sextet, Nipples, Atavistic, 2002.
× Instant Composers Pool, Groupcomposing, ICP, 1970.
× Steve Lacy, Saxophone Special, Emanem, 1998.
× Ian Smith, Daybreak, Emanem, 2001.
× David Sylvian, Blemish, Samadhisound, 2003.
× The Music Improvisation Company, The Music Improvisation Company, Universal (J), 2003.
× The Music Improvisation Company, 1968-1971, Incus, 1993.
× The Spontaneous Music Ensemble, Karyobin, Chronoscope Records, 1993.
× Tony Oxley Quintet, The Baptised Traveller, Columbia, 1999.
× Kenny Wheeler, Song for Someone, Psi, 2004.