LETTURE / BLUE NOTE RECORDS - LA BIOGRAFIA
di Richard Cook / Minimum Fax, Roma, 2011 / pp. 299, € 16,50
Nel Blue(s)
dipinto di blue note(s)
di Marco Maiocco
Proprio mentre in Europa si consumavano e commettevano le peggiori nefandezze in nome del razzismo, nel 1939 due immigrati tedeschi davano il via negli Stati Uniti, a New York, ad una delle più straordinarie imprese culturali che si possano raccontare, fondando una storica etichetta discografica indipendente, incentrata sulla passione per la musica, l’arte e il riconoscimento della cultura afroamericana, che era e doveva essere americana a tutti gli effetti. Stiamo parlando della Blue Note Records, costituita da Alfred Lion e Francis Wolff, proprio alla vigilia del secondo conflitto mondiale: una sigla, un’insegna, da sempre sinonimo di jazz.
Un’equazione già interamente custodita in quel nome – Blue Note – così suggestivo ed evocativo, che immediatamente richiama al blues, la forma musicale neroamericana per antonomasia – radice culturale del jazz, tra i suoi elementi portanti (dal punto di vista formale, filosofico e persino mitologico) – e alla caratteristica fondamentale del jazz e più in generale delle musiche afroamericane: l’esercizio funambolico sull’intonazione.
Qui è forse necessaria una piccola digressione storica, culturale e musicologica. Sono, infatti, considerate blue note in senso ampio tutte quelle note suonate dai musicisti di jazz, la cui altezza non è esattamente definita, perché ciascun jazzista ondeggia sulla pulsazione fondamentale – il beat – così come gioca a rimpiattino con il pitch, il tono, il grado determinato della scala; in senso più lato, invece, sono state definite blue notes dai musicologi eurocolti – secondo un grave errore di prospettiva – tutte quelle alterazioni in chiave della nostra scala diatonica, che sono tipiche del blues. Ma, come recentemente dimostrato da una serie di studi, in particolare quelli dell’etno-musicologo tedesco Gherard Kubik (2007), la scala pentatonica del blues non può assolutamente essere inscritta in una scala diatonica europea, ma è struttura indipendente, derivazione di una delle tante scale naturali (quindi non temperate) africane. Resta il fatto che l’espressione blue note è una delle più adatte a descrivere quella tipica indeterminatezza tonale, di cui abbiamo accennato sopra, appannaggio delle musiche afroamericane.
La parola blues, per proseguire, nasce dalla contrazione della formula “to have the blue devils”, avere i diavoli blu o tristi o meglio ancora demoni assalitori, che in sostanza rappresentano l’insostenibile peso dell’essere, soprattutto in condizioni di estrema miseria, e che sono da sempre la fonte, tragica per molti versi, dell’ispirazione di tutti i bluesmen (e blueswomen) che si sono avvicendati nella storia di questo genere musicale. Ernesto De Martino li avrebbe probabilmente paragonati agli effetti ritualizzati dei morsi della taranta. Da qui la vuota retorica che definisce il blues come una musica triste e malinconica. Una connotazione appropriata fino a un certo punto, perché il blues, anche se prodotto prettamente neroamericano, è una tipica espressione musicale di stretta derivazione africana, e quindi è musica della vita, per la vita in tutti i suoi aspetti e momenti, anche quelli più sereni e quotidiani: in sostanza una sorta di incessante commento o controcanto all’esistenza stessa. Si può affermare piuttosto che, siccome le condizioni di partenza degli ormai proletari – non più schiavi – neroamericani che hanno “inventato” e suonato il blues a partire dalla fine dell’Ottocento non erano certo le migliori, per usare un eufemismo – la schiavitù era stata sì abolita, ma nella società bianca dominante persisteva ancora una drammatica stigmatizzazione razziale nei confronti della popolazione di colore, che si traduceva in una feroce segregazione –, nel blues, soprattutto all’inizio, è certamente prevalsa la componente della disperazione e della lamentazione, ma sempre a fini prevalentemente catartici e lenitivi.
Certo il blues rimane musica dell’intimità che spesso volge lo sguardo alla malinconia (d’altronde se le circostanze di partenza fossero state differenti, sarebbe probabilmente scaturito un altro tipo di musica). Un genere musicale in stretta sintonia con un colore – blue – che in inglese equivale a dire tristezza, quel pervasivo blu notte chandleriano, che è poi il colore viola di Steven Spielberg e Whoopy Goldberg, quello degli afroamericani, che in fondo può considerarsi il colore del contrappasso e forse (chissà…!) della possibilità di raggiungere una definitiva requie (più ultraterrena che terrena), perché il rosso sangue della pulsazione vitale che si mescola all’azzurro paradisiaco del cielo si trasforma nel viola delle tuniche di un coro gospel a Natale. Un colore, un caratteristico tratto o tono ambientale, di cui i dischi Blue Note sono sempre stati profondamente intrisi, da un punto di vista metaforico, grafico e naturalmente musicale.
Insomma, chiamare Blue Note un casa discografica alla fine degli anni Trenta negli Usa era più che una dichiarazione d’intenti, si trattava di una sorta di manifesto programmatico. Anche se, ovviamente, non è detto che Lion e Wolff serbassero compiutamente tutta questa consapevolezza. Certo è che fin da subito la loro intensa attività fu interamente finalizzata ad una sistematica documentazione di una nuova forma musicale e d’arte che stava raccontando al mondo, ormai da qualche tempo, qualcosa di assolutamente inaudito, nel senso letterale del termine. E questo nonostante la Blue Note, almeno al principio, non si sia certo distinta per una particolare attenzione allo svilupparsi frenetico, in quegli anni, di sempre nuovi stili e linguaggi jazzistici. Nacque nel 1939, in piena epoca swing, e da subito si prefisse il compito di recuperare l’hot jazz degli anni Venti, alla ricerca sì di una maggiore autenticità e “purezza” – in contrasto con l’eccessiva commercializzazione della musica “da ballo” delle grandi orchestre – ma anche all’insegna di un certo mal dissimulato conservatorismo. Il compianto Alfred Lion, in sostanza, si trovò un po’ sempre a dover inseguire tutte quelle innovazioni che, a partire dalla metà degli anni Quaranta, si sono rapidamente succedute nella storia del jazz. Durante il fervente periodo del free-jazz, per esempio, Lion, anche per ragioni meramente economiche, cercò prevalentemente di produrre la musica di artisti del compromesso, che sapessero conciliare forma e allontanamento (spesso simulato) dalle strutture: il pianista Andrew Hill ne é forse l’esempio più significativo. E, tuttavia, questo non ha impedito alla Blue Note, almeno dal 1939 al 1967 (anno in cui Lion si ritira dall’attività per problemi di salute), di documentare al meglio e nel dettaglio tutte le diverse fasi della storia del jazz, producendo i più significativi artisti della scena jazzistica, appartenenti alle più disparate scuole, e costruendo uno sterminato catalogo che è un prodigioso archivio storico del jazz, a disposizione di tutti gli appassionati e studiosi, nel pieno ossequio di quel motto – “The Finest In Jazz Since 1939” – che da sempre campeggia sotto la dicitura Blue Note.
In questo accorato volume, edito per la prima volta negli Stati Uniti nel già lontano e funesto 2001, il prematuramente scomparso Richard Cook, attento giornalista musicale e studioso della materia, ripercorre l’intera vicenda Blue Note, dagli esordi ai giorni nostri, grazie anche ad una breve appendice nel frattempo aggiunta nel febbraio 2003. Si passano così in rassegna i diversi periodi dell’etichetta: dai titubanti inizi all’auge, con lo straordinario fiorire dell’hard-bop tra il 1955 ed il 1965; dalle prime grandi difficoltà, sul finire degli anni Sessanta, alla vera e propria crisi, dopo la morte di Wolff, all’inizio dei Settanta; dal rilancio intorno alla metà degli anni Ottanta – senza più lo status dell’indipendenza, perduta già nel biennio 1966-1967 – alla nuova ondata di produzioni, che negli ultimi vent’anni, sotto l’egida della Emi, una delle grandi major internazionali, ha sortito ancora una volta ulteriori insuperabili risultati. Basti pensare ai dischi di artisti del valore di Don Byron, Jason Moran, Cassandra Wilson e Norah Jones, solo per citare qualche nome.
Cook racconta rapidamente, forse troppo, storie e personaggi che hanno fatto parte della vicenda Blue Note: dall’eccentrico e celeberrimo fonico Rudy Van Gelder (la cui vita professionale meriterebbe approfondimenti a parte) all’innovativo grafico Reid Miles, da Francis Wolff (per l’appunto), fotografo ufficiale dell’etichetta oltre che co-produttore, a Michael Cuscuna, il primo, all’inizio degli anni Ottanta, a tentare di riorganizzare e ripubblicare l’intero catalogo Blue Note, fino ovviamente ad Alfred Lion, del quale Cook testimonia tutta l’immensa passione per il jazz, che lo ha sempre portato ad anteporre, quasi come fosse lui stesso un musicista, la musica ad ogni altro interesse. Proprio per questo alla Blue Note l’arte veniva considerata più importante del denaro: da qui i continui assilli finanziari che hanno incessantemente assediato questo eccezionale gruppo di lavoro, che si è sempre trovato nella condizione di dover lavorare e produrre più dischi dell’immaginabile, per far fronte agli ineludibili impegni di bilancio. Uno stress non indifferente che ha comportato per entrambi i protagonisti principali di questa storia il sopraggiungere anzi tempo di seri problemi cardiaci, che comunque non hanno impedito a Lion, mancato nel 1987, di assistere, naturalmente da semplice spettatore, alla rinascita della sua preziosa ed amata creatura discografica.
Cook non solo fornisce un esauriente quadro della squadra operativa che ha animato la Blue Note, ma soprattutto si sofferma, quasi come uno scrupoloso inventarista, sui tanti straordinari dischi e musicisti che hanno fatto la storia di questa label leggendaria. La sua è una entusiasmante carrellata di album, dai maggiori capolavori alle produzioni meno ambiziose o più commerciali. Una sequenza impressionante di registrazioni, che tra l’altro documenta anche alcuni dei fondamentali passaggi tecnologici che hanno caratterizzato il secolo scorso (dal 78 giri all’Lp, dall’introduzione del nastro magnetico per la realizzazione dei master all’avvento del cd e dell’era digitale). Opere presentate in ordine cronologico, adeguatamente contestualizzate, per ciascuna delle quali l’autore trova una puntuale e sintetica descrizione. Così dai primi lavori dell’allora veterano Sidney Bechet (emblema del jazz classico), si passa ai dischi di Thelonious Monk e Bud Powell (grandi esponenti della generazione del be-bop), per approdare alle produzioni di Horace Silver e dei Jazz Messengers degli anni Cinquanta (gli “eroi” dell’hard-bop), e da qui alle registrazioni del decennio successivo ad opera di musicisti del valore di Jimmy Smith, Hank Mobley, Art Blakey, Lee Morgan, Wayne Shorter, Bobby Hutcherson, Sam Rivers, fino agli album degli avanguardisti Andrew Hill, Eric Dolphy, Don Cherry, Ornette Coleman, Cecyl Taylor, e davvero molti altri. Un elenco che potrebbe non aver fine e che è la testimonianza più immediata e diretta del colossale, meritorio e intrepido lavoro di un gruppo di sognatori, la cui visionarietà si è letteralmente tradotta sul campo.
Un libro che ciascun appassionato leggerà alla velocità della luce o del neutrino, ma che risente di un’eccessiva (forse inevitabile) indole classificatoria e catalogatoria, che a tratti rischia di farlo apparire poco più di un semplice elenco, tanto che Josè Saramago avrebbe potuto trarne spunto per il suo Tutti i nomi.
LETTURE
× Kubik Gherard, L’Africa e il blues, Fogli Volanti Edizioni, Subiaco, 2007.
ASCOLTI
Una selezione per conoscere meglio la produzione della Blue Note
× Adderley Cannonball, Somethin’ Else.
× Bechet Sidney, Complete Blue Note 1939-1951 - Master Takes.
× Blakey Art, A Night at Birdland Vol.1&2.
× Blakey Art and The Jazz Messengers, Moanin.
× Blakey Art and The Jazz Messengers, Free for All.
× Blakey Art and The Jazz Messengers, Mosaic.
× Byron Don, You Are #6: More Music for Six Musicians.
× Coltrane John, Blue Train.
× Don Cherry, Simphony for Improvisers.
× Don Cherry, Where Is Brooklyn?.
× Coleman Ornette, At the “Golden Circle” Stockholm, Vol. 1&2.
× Dolphy Eric, Out to Lunch.
× Hancock Herbie, Mayden Voyage.
× Hancock Herbie, Takin’ Off.
× Hancock Herbie, Empyrean Isles.
× Hill Andrew, Point of Departure.
× McLean Jackie, One Step Beyond.
× Mobley Hank, Soul Station.
× Moncur III Grachan, Evolution.
× Moncur III Grachan, Some Other Stuff.
× Monk Thelonious, Genius of Modern Music Vol. 1&2.
× Moran Jason, Ten.
× Morgan Lee, The Sidewinder.
× Newton James, The African Flower.
× Osby Greg, Inner Circle.
× Powell Bud, The Amazing Bud Powell Vol. 1&2.
× Rivers Sam, Fuchsia Swing Song.
× Rollins Sonny, A Night at The Village Vanguard Vol. 1&2.
× Shorter Wayne, Speak No Evil.
× Silver Horace and The Jazz Messengers, ST.
× Silver Horace, Blowin’ the Blues Away.
× Silver Horace, Song for My Father.
× Smith Jimmy, Back at the Chicken Shack.
× Williams Tony, Spring.
× Wilson Cassandra, Blue Light ‘Till Down.
× Young Larry, Unity.