Diciamolo: era ora! Dopo aver tanto atteso, subito delusioni e vissuto illusioni, era proprio ora, diciamolo, che, dopo un lungo peregrinare nell’inguardabile e nell’indecente, il cinema italiano ritrovasse la via maestra. Una levata di scudi che dopo tante belle promesse si fa realtà. Un Risorgimento per ora circoscritto a due sole opere, ma autorevoli, nonché autoriali, che lasciano ben sperare per il futuro del cinema tricolore. I temi trattati dai due film sono in parte comuni, lo sguardo è proteso sul medesimo universo di riferimento, un mondo classico, privilegiato dal realismo, in letteratura prima ancora che nella settima arte: il commercio. È almeno dai tempi dei bottegai di Honoré de Balzac che quel mondo operoso, specchio fedele delle virtù, ma soprattutto delle miserie dell’animo umano, ispira commedie umane di tutte le taglie e misure. Un’attrazione che ha rapito Silvio Soldini e Giuseppe Tornatore, belle firme del nuovo cinema italiano, che hanno ripreso il testimone della grande tradizione realista e offerto uno spaccato di due grandi realtà imprenditoriali, protagoniste assolute del commercio moderno italiano. Due imprese che si contendono tutto ciò che c’è da contendersi in una sfida continua, quotidiana, commerciale, s’intende, ma anche un pizzico pseudoideologica. Sono duellanti coraggiosi, che non si tirano indietro quando l’altro lancia il guanto di sfida. I due registi ne hanno narrato le gesta in tempi diversi, prima Soldini nel 2008 e oggi Tornatore, riaprendo la disfida non a suon di metri quadrati di superfici di vendita o di convenienza, ma di metri di celluloide.
Committenti, ingaggi, nuove forme di comunicazione d’immagine, incroci tra generi, tra fiction e docu-cinema, fin qui niente da eccepire. Non è di questo che qui si parla. Colpisce, invece, che i supermercati, o altre strutture di vendita più o meno a libero servizio, abbandonino il ruolo di fondale per film horror, demenziali (chi ricorda Cinque matti al supermercato?), grotteschi e surreali (Nudisti per caso) per rientrare in dimensioni più normali, più reali, vicine al quotidiano. In particolare, sono spesso i protagonisti dei film (e anche dei telefilm) dell’orrore a trovarsi a loro agio, almeno da George Romero in avanti. Vengono in mente opere recenti come The Mist, tratto da un racconto di Stephen King alla serie tivù The Walking Dead, che abbondano di momenti, sequenze ambientate al supermercato, il primo, in un grande magazzino il secondo. Sembra proprio che ogni essere che smette di annidarsi dentro di noi, fuoriuscendo inizi ad aggirarsi per una tipologia di negozio differente. L’evoluzione del commercio moderno è stata finora una sfilata di mostri, in un certo senso, con tutto il rispetto per quanti vi lavorano quotidianamente. Ebbene, con grande sensibilità e acume, queste nuove opere del cinema italiano recepiscono un cambiamento nell’immaginario collettivo, che sembra virare decisamente verso una dimensione meno cupa, meno prigioniera di paure e desideri senza nome, più orientata a un regime diurno. Basta zombie, creature della notte, immondi ibridi; ora i supermercati o altre strutture di vendita più o meno a libero servizio sono territorio dell’umano, magari banalotto, ma umano. La piccola grande rivoluzione di cui si fanno avanguardia queste due opere potrebbe non finire qui, anzi d’ora in avanti, probabilmente, grazie a loro, assisteremo a un fiorire di corti più o meno lunghi che, a seconda del committente, rivitalizzeranno generi e modalità del cinema che il tempo ha appannato, oppure che sono a rischio perenne di obsolescenza precoce. Un effetto cinema di portata internazionale. Ad esempio, un qualsiasi discount potrebbe ridare fiato al cinema underground, girato in super otto, all’insegna del risparmio, coerentemente con la logica dell’impresa; oppure qualche catena di erboristerie, piuttosto che di cibi biologici finanzierebbe un cinema di matrice new age, chissà, magari con un’ambientazione che ormai si può definire storica, un nuovo cinema in costume con personaggi presi dalla California dei figli dei fiori. Come a dire: veniamo da lontano, andiamo lontano. Che dire poi del repertorio letterario dedicato ai ciechi, da Herbert George Wells a José Saramago, che potrebbe trasformarsi in storie ideali per le insegne specializzate in ottiche. Ce n’è per tutti.
È, a ben vedere, un’estrema propaggine di un processo di secolarizzazione ampiamente completato, ma una propaggine farsesca. Non poteva essere altrimenti, le tragedie si ripetono sempre così; è un esito inevitabile che proprio in un film horror, L’armata delle tenebre, trova nel finale, girato in un grande magazzino, la sua rappresentazione allegorica più riuscita. Sono di fronte una creatura del male, strepitante non poco e Hash, protagonista del film (e del sequel La casa, di cui questo è il terzo episodio). Una malefica creatura, un’incarnazione del male crea un discreto putiferio tra le corsie ed esibendo un primo piano raccapricciante gli chiede: “Chi diavolo sei tu?”. Hash non si perde d’animo e come un cavaliere di tempi andati si presenta impugnando un fucile (preso a prestito dall’assortimento del negozio, siamo in Usa, ricordiamolo) che sventola il cartellino del prezzo, esclamando con orgoglio: “Mi chiamo Hash – lunga pausa – reparto ferramenta” e in quattro e quattr’otto sistema la faccenda. Ecco, la notte è espulsa dal supermercato e sorge la nuova alba che trova qui, in Italia, alla periferia dell’impero, la definitiva annessione del supermercato ai domini della ragione, grazie a due opere cristalline.
Ragione?