Sulla questione dei “lucchetti dell’amore” al Ponte di Rialto: una levata di scudi contro un uso irriverente di uno dei monumenti più famosi del mondo, e “più amati dai veneziani” – probabilmente come le cucine dagli italiani – perché portano turisti e quindi soldi. Ci si scandalizza per un uso improprio del patrimonio artistico. In ritardo, peraltro, perché va avanti da anni, da quando uno scrittore per ragazzine ha inventato questo uso dei lucchetti (che chissà perché fa pensare tanto alla cintura di castità…) e un sindaco di Roma dal passato comunista li ha legittimati – dimenticando forse le frasi di Lenin su chi “contemplava le parti posteriori del proletariato”, avendo scelto al posto del russo come modello John Kennedy e il suo sogno di un’impossibile “nuova frontiera”, quella della Baia dei porci…
Ma possiamo andare ancor più indietro nel tempo: a quando il mercato ha incominciato a riciclare l’arte – a partire proprio dalle “città d’arte” e dai luoghi del turismo di massa – e a proporre souvenir e oggettistica per i turisti nella forma di modellini, sottobicchieri, flaconi di profumo, sottopiatti per “servizi all’americana” che hanno la forma o portano l’immagine di monumenti, panorami, edifici – tutto ciò che pomposamente è definito “patrimonio dell’umanità”, ma che più prosaicamente è bottino dell’industria – sicuramente con la complicità delle istituzioni, visto che fino a poco tempo fa almeno nei musei era proibito fare fotografie…
Fantasmagoria – come si sarebbe espresso Jean Baudrillard – dell’oggetto artistico, parossismo dell’estasi della merce. Che davvero così diventa feticcio. E poi ci si meraviglia che finalmente il “pubblico” dei consumatori si comporti conseguentemente da “prosumer” e decida di fare uso a modo proprio di monumenti e luoghi già da tempo banalizzati, livellati, prosciugati della loro dimensione “auratica”, levigati negli anni da milioni di sandali, zoccoli, scarpe da tennis (preferibilmente griffate), ridisegnati nei secoli da tonnellate di cacca di piccione, colonizzandoli, facendoli propri, impadronendosene per un uso “laterale”, nuovo, incatenandoli a se stessi e alle proprie biografie…
Perché – ragioniamoci sopra – il fenomeno dei lucchetti nasce sicuramente dai media: un libro, un film. Di grande successo fra gli adolescenti. Frutto, si dirà, dell’intorpidimento dei nuovi adolescenti, dello strapotere dei media, del disimpegno, e della furbizia di uno scrittore/regista “di massa” che ha saputo trasformare un oggetto triviale in un simbolo – altrettanto triviale.
Ma evidentemente lo scrittore ha individuato un trend, un bisogno, non diversamente da quei “cacciatori di tendenze” al servizio delle grandi multinazionali dei consumi di cui scrive William Gibson in L’accademia dei sogni, dalle cui intuizioni nascono i loghi delle grandi marche. Simboli con cui la merce si fa riconoscere, che non attengono alla dimensione del consumo di per sé, ma alla dimensione immaginativa e simbolica che il mercato propone, rielaborando e contaminando immaginario, vita quotidiana, desideri, istanze. Dei giovani, certo, ma solo dei giovani? Pensiamo all’uso che si fa della sagoma dei monumenti per i profumi, tanto per dire. O delle colonne sonore tratte dai grandi classici per gli spot pubblicitari.
Fredric Jameson già ne aveva parlato: in Postmodernismo scrive di “… terza fase del capitalismo, quella della globalizzazione”, che corrisponde alla completa modernizzazione della società – un’epoca di “colossale euforia”, per Jameson – che ruota attorno al “consumo della pura mercificazione come processo.”
In questo senso nella dimensione postmoderna tutto acquista legittimità dal punto di vista estetico: tutto diventa un “testo”, un oggetto comunicante, quindi, e perciò interpretabile come oggetto estetico. Anche i lucchetti, quindi i monumenti incatenati, quindi l’amore ridotto a ferramenta.