LETTURE / DAI CANCELLI D'ACCIAIO


di Gabriele Frasca / Sossella, Roma, 2011 / pagine 591, € 30,00


L'incubo della storia
a Santa Mira

di Antonio Iannotta


“Che cosa succede la notte fra il venerdì e il sabato nella megadiscoteca Il Cielo della Luna, sorta in un niente, come un bubbone o un fungo, a Santa Mira... Ma non vi converrà entrare, se non si sa come uscirne. Restate, badando di evitare le ronde dei buttadentro, al di qua della recinzione a sbirciare ciò che s’intravede dai cancelli d’acciaio” (dalla quarta di copertina, come le successive senza indicazione). A prendere in mano un romanzo già solo per la sua mole notevole come Dai cancelli d’acciao (d’ora in avanti DC, con citazioni a testo), dopo averlo letto nella splendida versione a dispense, viene subito voglia di guardare con attenzione la quarta di copertina, per vedere come l’autore, con l’editore, abbia deciso di presentare quest’opera monumentale. E allora (ri)apprendiamo che le quasi 600 pagine di questa storia raccontano di una sola notte, “la notte tra il 26 e il 27 settembre”, ovvero la festa dei Santi Cosma e Damiano, patroni di Santa Mira, dell’anno 2008, e quindi una storia esplicitamente del nostro qui-e-ora, un plot che si svolge “nell’arco di quattro ore”. Le altre informazioni che vengono date in prima battuta hanno evidentemente a che fare con il tema di fondo del romanzo: “la società drogata tra chirurgia estetica ed eccessi del corpo (e della mente), e un rimosso che torna dalla fine degli anni settanta”. Il paratesto finisce, o meglio inizia, con una frase a effetto: “Una storia che non fa prigionieri. Li libera”. Nulla ci viene detto invece dello scrittore Gabriele Frasca. Ogni opera d’arte, per il Frasca teorico, è infatti una “forma d’avversione” volta alla riprogrammazione dei sensi, e non sa che farsene del proprio autore: “Se un’opera funziona, è così che la penso, deve incrociare i suoi discorsi fino a espellere l’autore, prima ancora che questi, dichiarandola chiusa con un atto di proprietà assai controverso, e dunque «facendola finita», l’abbandoni a sua volta. Da ciò consegue che quando un’opera riesce a prendere il sopravvento alienandosi l’autore, prima che questi a sua volta se l’alieni, può letteralmente non finire più, mettendosi per così dire all’ascolto di un altro che possa parlare a suo nome” (Frasca, 2011, p. 137).

Dopo Il fermo volere (1987; la seconda edizione, ampiamente modificata e interpolata dalle tavole a fumetti di Luca Dalisi, è del 2004, con il cd Merry Melodies in allegato, dopo un’ulteriore stesura intermedia circolata in forma di e-book) e Santa Mira (2001; seconda stesura nel 2006, con il fondamentale cd musicale Il fronte interno dei ResiDante, gruppo musical-poetico di cui Frasca è leader) ecco finalmente transitare in libreria il terzo, straordinario romanzo di Gabriele Frasca, nella sua seconda incarnazione. Questa del 2011, con la copertina, il retro e le immagini che puntellano all’interno a tre a tre i quindici capitoli del romanzo ad opera del duo artistico napoletano cyop&kaf, è infatti la stesura leggermente (ma significativamente) modificata di un progetto che un (piccolo) gruppo di lettori ha visto nascere, crescere e diventare progressivamente realtà a partire dal 2008.

Quindici capitoli, cinque personaggi (l’ex vescovo di Santa Mira Cristoforo Bruno, il suo segretario Saverio Juvarra, l’amministratrice del Cielo della Luna Regina “Moira” Mori, direttamente da Il fermo volere, il medico della struttura Alessandro Preziosi, già fondamentale in Santa Mira, e un ragazzo dismorfofobico di sedici anni, Valentino Mormile), un’azione spazio-temporale iper-contratta che schizza continuamente dal suo qui-e-ora grazie a continui flashback e flashforward. Tutto si svolge in un’unica notte e in un unico luogo, a Santa Mira, micro-cosmo di ben due romanzi fraschiani, ispirata all’omonima cittadina del famoso film del 1956 di Don Siegel (Invasion of the Body Snatchers) e che in realtà potrebbe essere una qualsiasi città italiana, o del mondo occidentale, o se si preferisce, con Philip K. Dick, l’autore tra i tanti con cui più di tutti questo romanzo dialoga, ulteriore sfoglia di uno dei mondi com-possibili del nostro (presunto) reale. Tutto avviene durante i “giochi” nel sottosuolo del Cielo della Luna, “le perverse pratiche di godimento / patimento” (Donati, 2011, p. 8) che hanno un modello esplicito nel Ludovico Technique apparatus di Anthony Burgess (e Stanley Kubrick). Quello che denunciavano Burgess e Kubrick (e oggi Frasca) è che il meccanismo della terribile macchina ludovichiana non differisce poi tanto dal nostro quotidiano vedere e percepire.

I protagonisti si incrociano in un continuo gioco di analessi e prolessi con una tecnica di narrazione che rimanda alla struttura della terza rima dantesca, come alla topologia dell’Inferno si richiama l’architettura della discoteca: ogni capitolo è infatti dedicato prevalentemente a uno dei cinque personaggi-camera, o meglio inquadra e riflette le sue percezioni. Vale la pena dire subito che in realtà c’è anche un sesto personaggio continuamente chiamato in causa. E non è, come si potrebbe credere, la voce del narratore, che pure di continuo fa capolino tra le pagine del romanzo, e che possiamo ascoltare perché Dai cancelli d’acciaio è anche un formidabile audiolibro, performato con una partitura radio-drammaturgica da Frasca medesimo, e acquistabile a parte. “E se ancora non vi raccapezzate, per tutto il su e giù che vi tocca fare, sappiate che qui se ne inquadrano cinque, di quasi nomi propri, non di manichini da esporre se mai in un’unica vetrina. [...] Sono cinque singolarità, se volete, tutte comprese nel sei, che a loro volta riprendono, senza comprendere. Se vi sembra più calzante una vecchia immagine, è come se fossero cinque macchine da presa, e tutte della stessa marca, ma ciascuna con il suo obiettivo, l’angolazione, il tipo di pellicola, uno specifico taglio delle luci [...]. Qui, lo sapete, siamo nel Cielo della Luna, e non ce ne siamo allontanati mai, e le postille che vedete e se mai scambiate per i vostri riflessi, se non mancasse loro qualcosa, in me, se non avessero mancato in qualcosa, con me, sarebbero di carne e sangue, come lo siete sicuramente voi, altrimenti non ascoltereste nemmeno quello che vi sto dicendo, magari non sia detto che io lo sia più, mentre mi ascoltate, come voi. Guardate questo qui, ad esempio. Sì, questo qui che abbiamo lasciato a tenersi la testa. Guardatelo anche se non vi riguarda, perché vi guarda.” (DC, pp. 371-372). Chiaro chi è il sesto personaggio costantemente convocato dall’opera?

Dai cancelli d’acciaio inaugura la collana Viaggi presentimentali del coraggioso e vulcanico editore Luca Sossella (è possibile ascoltare una conversazione tra Frasca e Sossella sulla nascita dell’operazione, datata 15 gennaio 2008). L’intenzione, racconta il duo Frasca-Sossella, da un lato è stata quella di dare effettivamente un senso di coincidenza tra il tempo di lettura e il tempo di scrittura dell’opera (Frasca dice di aver sentito sul proprio collo il fiato dei lettori) e dall’altro quella di fare a meno della funzione-intermediario facendo saltare in aria la catena editore-editor-distributore-libreria-recensore. La mossa è storicamente situata. Così nasce infatti il modello per eccellenza a cui si richiamano i due: The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman di Laurence Sterne (Frasca, 2005, pp. 132-159), best seller e atto di nascita del romanzo borghese (novel), viene pubblicato difatti in nove volumetti tra il 1760 e il 1767 (i primi due nel 1760, dal terzo al sesto nel 1761, il settimo e l’ottavo quattro anni dopo e l’ultimo finalmente nel 1767). Alla fine, come era stato previsto, i fascicoli di Dai cancelli d’acciaio sono stati cinque, di tre capitoli ognuno: per partecipare all’operazione, tra l’inizio del 2008 e la prima metà del 2010, bisognava siglare un patto con editore e autore, e pagare in anticipo. Bisognava cioè farsi, come all’epoca di Sterne, sottoscrittori dell’opera. “Ed è per questo che paghiamo”, dice Frasca, il sotto-sottoscrittore, alzando lo sguardo dal romanzo e guardandoci in faccia, “per uno che t’infiocchetta il periodo, se ne va giù obliquo col gusto di mandarti per le terre e poi, al primo diretto, si dimentica i nomi dei personaggi? Magari con tutto sto casino della sottoscrizione, all’editore le dispense saranno andate alla testa, e si sarà messo a incollare i fascicoli a cazzo. Bella roba.” (DC, pp.106-107). Questa tipica apostrofe sterniana al lettore, per fare un solo esempio, richiama esplicitamente il salto dal XXIII al XXV capitolo nella quarta parte del Tristram Shandy, con conseguente perdita di dieci pagine, dove il narratore se la prende con il legatore (incomprensibilmente il salto di pagina non avviene nell’edizione italiana, dove la numerazione continua come se nulla fosse).

Il compito di un editore, ricorda Sossella, non è vendere libri ma creare nuovi lettori, lavorare per una comunità che non c’è, che non è ancora qui, o per dirla con Gilles Deleuze (via Paul Klee), per un “popolo che manca”. Il compito dell’opera, e dell’autore che la architetta e cospira per un siffatto progetto editoriale, è tracheotomizzare il lettore affinché una presa d’aria finalmente consenta una qualche forma di respirazione, o traspirazione, tra romanzo e lettore.

“Tutti i possibili lettori”, ricorda Frasca studioso di Dick, se sono nella condizione deleuziana del “popolo che manca” (cfr. Deleuze, 1995), lo sono “esattamente in quanto un messaggio deve loro ancora giungere, e magari è già in viaggio. Un «popolo che manca» è un popolo cui manca qualcosa. Perché scrivere ancora se no?” (Frasca, 2007, pp. 202-203). Eccola qui la missione didattica pedagogica e politica di un testo, di questo testo. Non si dà “arte del discorso” possibile, e di conseguenza non c’è “letteratura” che tenga, che non sia “il riproporsi della ‘messa in stato’, il reticolo a maglie strette e soffocanti del flux de connerie” (l’espressione è di Deleuze e Guattari e vale il flot de merde di Flaubert), a meno di “cospirare” per “nuovi legami” da fondare, “da instaurare”, anche per un attimo, “fra gli uomini” (Frasca, 2007, p. 312).

Sono molte le questioni che pone e sulle quali invita a discutere quest’opera. E la prima è proprio ragionare su come sia possibile consentire il transito dell’informazione. Lo si dica subito: l’informazione transita quando c’è insegnamento e non c’è insegnamento senza amore. “Se è vero che s’insegna con l’amore, e s’insegna in fin dei conti ad amare, si fa transitare allora una casella vuota, qualcosa che ritorna, e ogni volta altrove, ogni volta dove nemmeno te l’aspetti, ma ritorna.” (DC, p. 41). La “casella vuota” è il “desiderio” che “desidera durare” (e qui si sente ancora una volta la voce dell'autore che s'incista nell'opera quando c’invita ad “addentare un endecasillabo di risulta del mio amico Carlo, cioè Lorenzo, e per di più Durante, uhm”: “desiderio desidera durare”, appunto, DC, p. 41) è la frase simbolica del Lacan di La psycanalyse à l’envers, la “domanda che da sempre ci borbotta vivi” (DC, p. 37), e che ripete Le dur désir de durer di Paul Éluard. “Bisogna imparare a desiderare più forte di chi desidera che tutti ripetano un unico sì, o nessuno uscirà vivo dal castello di Durcet [Les Cent Vingt Journées de Sodome del marchese de Sade incarna l’altro modello, esplicito anch’esso, e non solo topologico, alla base della struttura e del funzionamento del Cielo della Luna]. Se loro era un compito, se volevano congiungere le forze per abbattere la prigione dai cancelli d’acciaio, dovevano insegnare a chi ancora voleva resistere, a dire sì, ma a dirlo due volte. Sì al desiderio, e sì al desiderio di desiderare” (DC, p. 66), così spiega il giovane Antonello Zamboni, alias Nello Scopio, regista di punta dei Defective Vows Disc, prodotti riprendendo le atrocità della notte dei “giochi” a Saverio Juvarra, ai tempi del loro noviziato.

Che cosa vuole ottenere un’opera d’arte se non cospirare per il risveglio di chi si inter-connette a essa? Oggi la “letteratura” è un “pacco”, a meno che “qualcuno, qualcuno ai margini, dai margini, insomma uno «schizo» [...], non vi metta piuttosto un ordigno dentro, un congegno capace di forare l’«incubo della storia», perché vi risuoni un evento” (Frasca, 2005, p. 282). È la funzione-schizo (Deleuze, Guattari, 1972), allora, che il romanzo fraschiano vuole attivare affinché un evento accada.

Il modo di procedere, come racconta l’autore durante una presentazione del romanzo, consiste nell’amalgamare alcune forze in atto nel nostro sociale, come ingredienti dismisurati posti sotto la paziente lente di ingrandimento dell’opera, per vedere in vitro quello che è disperso nel nostro mondo zero e che finisce per passare inosservato. Il romanzo diventa allora lo specchio del momento che andiamo attraversando. E si staglia, prosegue Frasca in un altro intervento, dal paesaggio permanente della grande crisi economica conseguita dal crollo dei mercati asiatici del decennio immediatamente precedente al qui-e-ora della narrazione. Il dottor Preziosi, nel tentativo di capire le conseguenze del fallimento della Lehman Brothers, intuisce amaramente quella che per l’autore è una chiave di accesso fondamentale per comprendere il nostro reale: “si resta quello che siamo sempre stati, fascisti” (DC, p. 378). È il nostro sociale, allora, a essere al di qua, ingabbiato, e incapace di uscire, ma finanche d’intravedere una minima possibile via di fuga dalla nera prigione dei cancelli d’acciaio. Uno specchio che riflette il nostro reale attraverso una mole impressionante di saperi e che ricorda la coazione allo “studio infinito” (Finzi, 1995, pp. 119-133), concetto che l’autore applica produttivamente per interpretare l’opera dickiana, e che potrebbe essere altrettanto utile per mettere a giorno la sua ultima fatica, frutto di almeno un decennio di intensissimo studio, come dimostrano i due imponenti saggi che fanno triangolo con il romanzo: La lettera che muore. La ”letteratura” nel reticolo mediale (2005) e L’oscuro scrutare di Philip K. Dick (2007). La funzione della letteratura, come Frasca spesso ricorda, è proprio questa: despecializzare i linguaggi a tenuta stagna, e i campi del sapere, per farli fluire in altre forme. È una funzione operativa sempre in essere nella sua scrittura, sia essa narrativa o saggistica. L’una finisce col sostanziare l’altra, come se fossero complementari, anzi come se lavorassero la stessa materia che dà consistenza alle medesime domande che nei suoi tanti lavori ri-suonano continuamente.

Ed è in primis a un autore come Dick che Frasca le pone (e le ricava). A partire dal concetto di “Sacro Romano Emporio” inteso come “Impero degli Ultimi Tempi capitalista”, che non è semplicemente un impero molare, “non è un’incarnazione del potere centralizzato e delle sue infinite diramazioni; è piuttosto una conformazione mutevole di micropoteri [...] che tutti insieme fanno ogni volta [...] il ‘paesaggio permanente’ del capitale” (Frasca, 2007, p. 120). In realtà è molto di più: recuperando un altro concetto di Deleuze e Guattari, il “Sacro Romano Emporio” altro non è che “la struttura permanente dell’Urstaat dispotico, economicistico, barbarico e teocratico” (Frasca, 2007, p. 223) con cui fare i conti. Il fronteggiamento enantiomorfico con Dick si svolge su più piani, come giustamente fa notare Giovanni Maffei nella sua proficua lettura del romanzo (reperibile in un’altra pubblicazione che accompagna e rinfocola il romanzo, Il compagno d’acciaio, curato da Paolo Giovannetti, rinvenibile solo in pdf dal sito dell’editore insieme all’audiolibro, e che contiene altri due interventi critici, quello di Donati precedentemente citato e uno dello stesso Giovannetti, gli straordinari disegni di cyop&kaf, molti non inseriti nel libro, uno scritto di Frasca sugli artisti napoletani, i testi del blog tenuto in preparazione dell’uscita del romanzo in volume, e anche altro): laddove per Dick l’“emozione culturale” conseguente al reperimento tra il 1946 e il 1948 dei testi gnostici di Nag Hammadi e dei Rotoli del Mar Morto di Qumran si fa caso clinico e possibile delirio psicotico, anche se sostanziato da una lettura che ha prodotto romanzi straordinari, primo fra tutti il suo ultimo, The Trasmigration of Timothy Archer, per Frasca l’analisi dei testi è ancora più (fanta)filologica e utile a “una congeniale mitografia espressionista” (Maffei, 2011, p. 39). È la profonda conoscenza della gnosi, presente ed evocata già nello straordinario saggio del 1996 La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale, insieme alla precisa e analitica strumentazione filologica, a dare senso al processo conoscitivo, una delle due mises en abyme del romanzo (l’altra, che qui si può solo accennare, è lo straordinario videogioco MMORPG Glorified Persons, di cui Valentino è appassionatissimo). Il cardinale Cristoforo Bruno, dopo aver partecipato all’infinita sequela di atrocità, tutte volontarie, consapevoli e assai costose, che si svolge ogni notte fra il venerdì e il sabato nel Cielo della Luna (a Santa Mira tutti sanno che cose terribili avvengono nella discoteca, ma tutti vogliono andare a vedere, e tutti vogliono farsi vedere), uscitone miracolosamente vivo, lui così ammalato, grasso e prossimo alla fine dei suoi giorni, decide finalmente di liberarsi di un segreto pluridecennale e di dare notizia dell’esistenza del protovangelo di Giovanni, un testo che Bruno dice di aver microfilmato durante la spedizione per il rinvenimento degli scritti di Nag Hammadi, proveniente da un fantomatico XIV codice (poi fatto sparire) del IV secolo (i codici di Nag Hammadi a noi noti sono infatti tredici), e composto da 46 dilogia, o coppie di logia gemelli, con Cristo che “dice” e un Didimo Giuda (l’Iscariota, probabilmente, “il discepolo del tradimento, divenuto apostolo della tradizione”, DC, p. 221) che subito rimbalza una risposta quasi identica (“E Cristo disse”, “E Didimo Giuda disse”). Ha una sola possibilità per riuscirci: dettare la traduzione dal copto al suo segretario, esperto della Didachè. Questo testo, a detta dello stesso autore, non è un testo inventato ma non è un testo che esiste (e sulla cui natura non è qui possibile dir di più), e ha profondamente a che fare con il transito dell’informazione cui si diceva in apertura. Un transito attraverso l’amore che è sempre consegna. E qui entra in campo la filologia fraschiana. “Un verbo. Didōmi. Senza il Male non c’è consegna, e senza consegna non si propaga il Bene” (DC, p. 303). È ovviamente il cardinale Bruno a parlare, al suo discepolo Saverio. “E chinato il capo, Cristo paredōken to pneuma, consegnò il fiato, o il respiro, o lo spirito. Consegnò, proprio come Giuda l’aveva consegnato. Il verbo, e quante volte se n’era stupito, era esattamente lo stesso, per il tradimento di Giuda e per l’ultimo respiro di Cristo. Paradidōmi. Anche Giuda, l’Iscariota, magari lui stesso Didimo, [...] aveva in verità consegnato il soffio in cui s’invola l’ultimo pensiero. Quello che hai da fare, fallo súbito” (DC, p. 220). “E quanto a lui”, continua il monologo interiore del cardinale, “beh non poteva certo sfuggirgli, nell’ora che è adesso, la singolare somiglianza con la sua situazione, e con quello che, dopo mezzo secolo di dubbi, aveva scelto infine di compiere, consegnare cioè il suo segreto a chi come Giuda lo aveva consegnato, perché con quello stesso tradimento riprendesse vita la tradizione del testo.” (DC, p. 221).

Per assicurare una tradizione bisogna tradire, chiosa Frasca in una recente intervista sul romanzo.

Ci sono altri testi che serpeggiano nel volume, dal vangelo di Giovanni, alle lettere di Paolo, a uno che sembra della stessa natura del protovangelo di Giovanni e che invece è realmente esistente nel mondo zero, il Vangelo di Giuda, di cui nel dibattito pseudoculturale del nostro paese non si sa praticamente nulla (a differenza ovviamente di paesi come gli Stati Uniti o la Francia), oltre naturalmente al testo gnostico più importante della biblioteca di Nag Hammadi, il Vangelo di Tommaso, che aveva sostanziato un altro straordinario romanzo italiano, Il Quinto evangelio di Mario Pomilio (1975), assai importante per Frasca. Tutti testi capitali per la storia della cultura occidentale e che costituiscono uno dei reattori principali della narrazione.

Prosa dalla fortissima tenuta ipotattica (“solo l’ottovolante dell’ipotassi avrebbe assicurato quel tanto di veridicità per cui vale ancora la pena di esprimersi”, DC, p. 558), con continue soluzioni metriche (tra parentesi, il sarcastico contravveleno dell’autore alla domanda su cosa farne di questo romanzo: “E via, se una tesi di dottorato non la si nega mai a nessuno, non aspetterete mica l’appendice metrica che un giovane volenteroso dedicherà prima o poi a questo romanzo?”, DC, pp. 424-425), lo stile fraschiano salda il ritmo formulaico del medium poetico alla tenuta narrativa della prosa, con continui innesti de-progressivi di pensiero, miscelando in maniera mirabile l’amato indiretto libero a dialoghi spesso frizzanti, scegliendo, per stemperare gaddianamente una tensione a volte insopportabile, di premere a tavoletta il pedale comico. E la prima cosa che questo modo di costruire la pagina vuole dirci è proprio questo: “sono una forma” (lo notava Francucci, 2009, in altro contesto, p. 56). Il modo di procedere fraschiano denuncia un’evidente appartenenza kubrickiana: non solo il regime scopico sadico-voyeuristico del personaggio di turno (prima il cardinale Bruno, poi padre Juvarra nella notte del mondo uno della narrazione) imbracato su una croce e coartato a vedere la ripetizione dell’identico osceno durante i “giochi” del Cielo della Luna, ma anche con le continue apostrofi e con l’incessante denuncia da parte dell’autore, sia esso Frasca o il regista newyorkese, che quello che avete in mano o state guardando è un artefatto.

Più riuscito è il cattivo, più riuscito è il film: ogni storia, per essere davvero intrigante, diceva Alfred Hitchcock, deve osservare solo questa regola. E in Dai cancelli d’acciaio di vilain ce n’è più d’uno, a partire naturalmente dalla “terribile signora” Regina Mori, per passare al cardinale Ramsey, la mente che ordisce un efferato tradimento (il tradimento d’altronde è ciò che accomuna tutti i personaggi del romanzo), fino a Gerardo Quagliarone, il personaggio (forse) più riuscito tra i tanti comprimari del romanzo. L’infallibile ex uomo dei servizi segreti Quagliarone (“dall’epoca del rapimento Moro, quando era un trentenne con una tale voglia di intraprendere la strada maestra che avrebbe portato per quelle laterali finanche se stesso se glielo avessero chiesto, non aveva mai sbagliato un colpo, e poteva vantare di essere stato per anni il riferimento principale della CIA nel nostro paese”, p. 184), la “Primula Nera”, a capo della struttura di sicurezza della megadiscoteca, che nelle ore notturne della notte tra il venerdì e il sabato sera deve fronteggiare nientemeno che uno dei Figli dell’Evento, l’organizzazione segreta di kamikaze, di cui fa parte anche il nostro autore (DC, p. 484), che dopo l’11 settembre 2001 attenta alle strutture dei micropoteri del socius del romanzo (“non esiste alcun Potere con la P maiuscola, capace di attraversare i tempi per determinare segretamente il mondo”, DC, p. 571). In un luogo di capitale importanza per l’economia dell’intera opera, il Quagliarone short statement (DC, pp. 554-579), la Primula Nera mette a giorno le conseguenze della saldatura, avvenuta negli anni settanta, che ha portato anni dopo alla serie “Gelli Sindona Buscetta mafia camorra massoni e il rapido 904” (DC, p.43). “Non s’era mica infranto il sogno, ad Hammamett” (DC, pp. 45, 112), si sente ripetere non a caso più di una volta nel romanzo, né poteva dirsi conclusa la relazione pericolosa tra “confratelli e uomini di fede”, Craxi e la Compagnia delle Opere, che avrebbe dato origine al decennio successivo. Nel suo quasi-monologo fanta-politico, molto poco fantasioso in verità, Quagliarone dà una lettura del nostro sociale oltremodo inquietante, passando dall’illusione che la fine della guerra fredda abbia risolto gran parte dei problemi del mondo occidentale, alla nostra storia più nera, citando l’operazione Blue Moon, la riforma improvvisa dei servizi, una storia nemmeno tanto segreta delle Brigate Rosse e del terrorismo, Ronald Stark e le sue ricerche farmacologiche, per arrivare al passaggio cruciale del caso Moro. Dopo essersi disintossicato, perché Quagliarone i primi anni di servizio se li era giocati sotto copertura, per cui se ne era fatta tanta di “bella roba tosta”, la nostra oscura primula viene assegnata al SISMI, in pieno caso Moro, e qui sobbalziamo insieme all’interlocutore (di cui non facciamo il nome, così come non abbiamo anticipato nulla o quasi del plot), perché il nostro è abbastanza sicuro della data: “doveva essere metà febbraio” (DC, p.561). Metà febbraio? Eh sì, perché a dar credito all’autore del Quagliarone statement si nasconde ben altro dietro la storia più o meno ufficiale del rapimento Moro, e non siamo sprofondanti in un romanzo di Thomas Pynchon, o di Stephen King. Diamo solo un altro indizio al lettore, che se desidera seguire gomito a gomito questo romanzo, lo avrà forse capito, deve diventare alla lettera paziente. Anche se Moro fu rapito il 16 marzo 1978, “diciamo che per noi”, continua Quagliarone, “quell’evento era già avvenuto” (DC, p. 562). Gladio, cioè, già sapeva. La nostra storia più recente, “la P2 e la mafia, Pecorelli e Sindona, Marcinkus e Pazienza, le stragi e gli attentati, Cossiga e Andreotti, Craxi e De Mita, il monopolio delle televisioni private e la camorra, e finalmente l’inchiesta di Mani Pulite” (DC, p. 565), a metterla in risonanza con il memoriale di Aldo Moro, potrebbe davvero dare i brividi. Quello che fa Quagliarone è invitarci tutti a ragionare “sul decennio immediatamente successivo al caso Moro, che è a quando a mio parere si è giocata la partita” (DC, p. 569). Per chi voglia davvero capire che partita intende giocare il romanzo di Frasca, non resta che augurare buona lettura, e magari buon ascolto.

Romanzo formidabile e ambizioso, Dai cancelli d’acciaio s’impone sul crinale della rilevanza conoscitiva, creando una linea di fuga dal sempre più soffocante flux de connerie, il chiassoso chiacchiericcio mediale che sa di morte, di morte dell’anima, e che avvolge la nostra pellicola di mondo. O ambisce a fare questo, un romanzo, o è per davvero “un pacco”.

 


LETTURE

× Deleuze G., Critique et Clinique, 1993, trad. it. Critica e clinica, Milano, Cortina, 1995.

× Deleuze G., Guattari G., Capitalisme et schizofrénie. L’anti-Œdipe, 1972, trad. it. L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 1975.

× Donati R., La maschera e il volto radioso nella ruota delle italiche generazioni, in Giovannetti, a cura, 2011, pp. 5-22.

× Frasca G., La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale, Costa & Nolan, Genova, 1996.

× Frasca G., La lettera che muore. La ”letteratura” nel reticolo mediale, Meltemi, Roma, 2005.

× Frasca G., L’oscuro scrutare di Philip K. Dick, Meltemi, Roma, 2007.

× Frasca G., Blogaritmi di Gabriele Frasca, in Giovannetti, a cura, 2011, pp. 97-220.

× Finzi S., Gli effetti dell’amore. Storia di una credenza, di un restauro, di un matrimonio, e di certe storie sessuali infantili, Moretti & Vitali, Bergamo, 1995.

× Francucci F., La carne degli spettri. Tredici interventi sulla letteratura contemporanea, O.M.P., Pavia, 2009.

× Giovannetti P, a cura, Il compagno d’acciaio, Sossella, Roma, 2011 (solo in pdf).

× Maffei G., Io ho letto Dai cancelli d’acciaio, in Giovannetti, a cura, 2011, pp. 35-60.