LETTURE / I GENIETTI DELLA DOMENICA
di Julio Ramón Ribeyro, La Nuova Frontiera, Milano, 2011, pagine 255, € 16,50
L'irridente catarsi
di un'etica urbana
di Livio Santoro
L’epilogo tragico, il volgersi terribilmente catartico degli eventi, ha sempre rappresentato una conclusione comune e adeguata per gran parte di quelle storie che si sono date uno scenario urbano. Quanti personaggi della modernità e della post-modernità (il fantasioso pezzo di storia a cui convenzionalmente abbiamo dato con tracotanza questi nomi sensazionali) ce l’hanno insegnato! D’altronde, è chiaro, proprio nella città si rintraccia lo scenario privilegiato della post- e della modernità.
A partire da Franz Kafka, quando il praghese Joseph K. viene ucciso come un cane vergognoso vissuto inutilmente (Kafka, 1983); e ancor prima a partire da Fëdor Dostoevskij, quando in una San Pietroburgo fuligginosa e pesta, Raskol’nikov subisce la sua ultima condanna dopo averne reiterato per tutta la vita una più grande e più totale (Dostoevskij, 1999). A ben vedere, infatti, entrambi non hanno fatto altro che diluire un epilogo costante fin dalla prima pagina delle loro tragedie, in quella brutale e costante esecuzione che altri chiamano esistenza.
Anni più tardi, anche se con toni decisamente differenti, sono altri protagonisti a caricarsi il peso del vivere nella purulenta ambientazione cittadina, diluendo costantemente il proprio epilogo, come per esempio avviene nei frammenti bukowskiani di una sconfinata Los Angeles, sordida e suburbana, che accoglie e respinge Henry Chinaski (tra gli altri, Bukowski, 2006). Per non parlare del tormento apolide dell’indifferente Meursault, dentro e fuori Algeri (Camus, 1967), che apre e chiude accompagnato dalla morte: quella della madre prima, successivamente la sua; entrambe irrilevanti. Oppure ancora della costante inquietudine, messa sotto forma di un’imbarazzante abitudine novecentesca, su cui si adagia la biografia lisboneta di Bernardo Soares, un altro disgraziato protagonista della nostra letteratura (Pessoa, 2001).
Sicché, adesso, si azzardi un’ipotesi forse leggermente esuberante: tutti questi personaggi, tutti questi protagonisti oramai eterni della letteratura occidentale, tutti questi meravigliosi esemplari del marcio irrisolto che abita dentro ognuno di noi cittadini umani, si ritrovano insieme proponendosi come modello per un nuovo carattere, ritraendo altrove il profilo di un altro irriducibile uomo sfortunato, inadatto ed inattuale: Ludo Totem, figlio dell’ingegno e della penna di Julio Ramón Ribeyro. Dalla vecchia Europa e dal Settentrione Americano fino al Sudamerica: al Perù, Lima.
Non a caso, ognuno di questi infelici che abbiamo citato nella nostra lista di disgraziati urbani della letteratura occidentale, fa il paio con la soggettività del proprio autore in quella costruzione autobiografica che rende la cifra più intima della letteratura universale: ogni autore scrive di se stesso, ogni autore deve confrontarsi con la sua vita, con i suoi spazi, e trarne personaggi, farne letteratura – la memoria stessa è vita e spazio, così come l’immaginazione, la fantasia: pertanto non inganniamoci sulla natura asettica del narrare. A maggior ragione, in coloro che si danno al realismo più diretto ed immediato (come ha fatto Ribeyro), e che si offrono nella loro (e nostra) disgraziata dimensione urbana, questo gemellaggio di anime rappresenta la più semplice delle relazioni: l’autore è ciò che scrive, l’autore è colui (o coloro) di cui ha scritto. Così Soares/Pessoa, così Chinaski/Bukowski, Raskol’nikov/Dostoevskij e tutti gli altri. Allo steso modo Ludo Totem/Ribeyro.
Ecco, Ludo Totem, come tutti gl’altri, e per dirla con Céline (che restando sulle nostre note, in questo caso parla per bocca del suo alter ego Ferdinand Bardamu), non è altro che un “sacco di trippe tiepide e corrotte” (Céline, 1992). E questa corruzione, che gli proviene dalla dimensione organica della sua carne tiepida, non fa altro che incrementarsi in quell’ambiente delle possibilità asintotiche quale è la città, che il protagonista/autore ha scelto per la sua stessa storia.
La città è dunque per noi lo spazio, e chi ne usufruisce è come un reo condannato a scegliersi la sua bolgia d’elezione. La città, in sostanza, non deve essere più vista come il miraggio moderno (e post-moderno) dell’autoelezione, della promozione del singolo soggetto che s’innalza positivamente sul tappeto dei valori urbani. Niente affatto. La città di Ludo, che altrove era stata la città di Raskol’nikov, di Chinaski e di Soares, è solo il luogo in cui trovare la propria dannazione, destreggiandosi tra i cantoni del suburbio, al margine della vita stessa. Le possibilità infinite trasportate dalla retorica cittadina, si danno al negativo.
Odissee urbane. Viaggi rocamboleschi nella periferia. Tragitti ineffabili costruiti nella dannazione della modernità. L’uomo è solo, questo è il punto. L’uomo moderno (e post-moderno), nella sua vaga epopea urbana, si trova a intrattenersi soltanto con se stesso, nonostante gli altri episodicamente incontrati in qualche angolo di strada, nelle scale del palazzo, a girare per le piazze. In quanto tale quest’uomo, che è il costante protagonista di tutte le nostre storie, non è altri che lo speculum del narratore. Due anime a braccetto nei fumi cittadini.
Ludo Totem, il nostro ultimo protagonista, ha imparato a mal destreggiarsi in questa dimensione proprio dagli altri suoi modelli, provando a riproporre uno schema classico della letteratura occidentale, nello scenario altrimenti fantastico della narrazione sudamericana. Da K., Ludo ha recuperato il modo di presentarsi, estendendo nel chiuso dell’ufficio il suo urlo atroce e inascoltato, come K. fuori contesto. Da Bernardo Soares ha imparato l’inadeguatezza, la cancrena routinaria dell’anima sua. Da Raskol’nikov il peso indeterminato (e per questo ancora più gravoso) di una colpa diluita nell’essenza dell’umano. Allo stesso modo Ludo Totem s’è preso l’originaria solitudine di Meursault, e la disposizione cirrotica che trascina Henry Chinaski nell’abuso del proprio fegato.
Ma Ludo ha rilanciato in questo gioco disperato, come gli altri ci ha messo il tratto ironico, ma l’ha coniugato attraverso quell’innocente motivo parodico già presente nel suo contesto sudamericano, trascinandolo con sé per tutte le sue pagine, ed estendendolo drammaticamente nella chiusura della sua piccola epopea, del suo viaggio di uomo francamente inutile. Perché gli epiloghi, in questa letteratura, spesso hanno soffocato il parodico: ché la fine è pur sempre la fine. E Ludo, poco utile e incapace non riesce nemmeno a mettere fine alla sua storia con la morte, l’espiazione o l’abbandono. Ridicolo bamboccio consapevole della sua scema esistenza, grottesco anche nella preparazione di un’impossibile catarsi. Di suo K. viene pestato fino alla morte, Mersault vive invece nell’ultimo atto la concretizzazione della condanna dell’uomo. Ma Ludo, una volta preparatosi a porre fine con la sua stessa mano alla propria vita (nello sguardo di Ribeyro, che è quello dello stesso Ludo), eroicamente, trova il coraggio di cominciare un’altra giornata radendosi come ogni mattina. Come a dire che non è la chiusura a determinare il tratto tragico di una storia, ma l’inizio costante e reiterato di una vita che si ripete giorno dopo giorno. Ogni volta uguale a se stessa. Di modo tale che ci si debba macerare nella merda, rimestare nel torbido che ci caratterizza, rotolare nella corruzione come fanno i maiali nel fango, ma senza troppa serietà, ché tanto, come ci ha ricordato Céline, non siamo fatti d’altro che di trippa tiepida. E la trippa tiepida, nella sua ridicola suppurazione esistenziale, non può far altro che guardarsi e riconoscersi, sbeffeggiandosi, così da potersi affermare nella sua stessa dannazione: almeno quello può farlo, sì.