VISIONI / WHEN YOU'RE STRANGE: A FILM ABOUT THE DOORS
di Tom DiCillo / Feltrinelli, Milano, 2011 / libro+dvd pagine 128, € 14,90
Torna all'opera il fantasma del "vero" Jim Morrison
di Diego Rossi
A distanza di quasi vent’anni dal
The Doors di Oliver Stone (1991), nel 2008, viene annunciato da Ray Manzarek il progetto di un documentario sulla band californiana che si pone dichiaratamente come un anti-Stone. Il documentario, diretto da Tom DiCillo e prodotto da Peter Jankowski, ha richiesto quattro anni di lavoro ed è stato proiettato per la prima volta il 17 gennaio del 2009 al Sundance Film Festival. Il film ha ricevuto un’accoglienza favorevole, se non per una certa monotonia nella narrazione. Il che spingerà DiCillo ad affidare la voce narrante nientemeno che a Johnny Depp, peraltro notoriamente appassionato dei Doors. Con questa modifica,
When You’re Strange (DiCillo, 2010) debutterà il 21 giugno 2009 al Los Angeles Film Festival e sarà presentato ad ottobre dello stesso anno al London Film Festival per uscire poi nelle sale cinematografiche statunitensi il 9 aprile 2010. In Italia, dove il film-documentario è distribuito da GA&A, è stato visto in anteprima nazionale al 51° Festival dei Popoli di Firenze il 18 novembre 2010, dove ha riscosso una grande partecipazione di pubblico. Dopo una lunga attesa (funzionale, forse, anche ad una certa pubblicità, data l’ansia suscitata nei fan italiani dei Doors, di cui è testimone la pagina Facebook
When You’re Strange – Italia), la versione italiana, con voce narrante affidata a Morgan, è finalmente stata proiettata nelle sale lo scorso 21 giugno, in occasione delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario dalla scomparsa di Jim Morrison (3 luglio 1971), per il piacere di tutti i fan italiani che hanno così potuto avere qualcosa di nuovo da addentare.
Che fosse necessario un film anti-Stone sulla storia di Jim Morrison e dei Doors è sempre stato sostenuto da Ray Manzarek, Robby Krieger e John Densmore, nonché da molti esperti e fan: Oliver Stone, nonostante l’indubbio merito di riportare in auge il vecchio mito e contribuire ad un revival dei Doors che ha caratterizzato l’intero arco degli anni Novanta, ha dato un taglio alla vicenda di Jim Morrison molto romanzato e molto hollywoodiano, ovviamente, creando ad hoc un personaggio per molti versi posticcio e poco interessante, un esempio negativo di ribellione che, in ultima analisi, risultava un po’ patetico e narcisistico. Il problema del film di Stone del 1991 è, secondo Robby Krieger, che “… la sceneggiatura era un po’ stupida. Non coglie assolutamente com’era Jim” (N. Patch, 2010). L’unica persona che possa ritrarre veramente Jim Morrison è solo Jim Morrison, sostiene Krieger, probabilmente a ragione. Anche Ray Manzarek fu molto critico nei confronti di The Doors (Stone, 1991): “Jim è dipinto come un ubriacone privo di senso dell’umorismo. In quel film non ride mai nessuno. Ehi, ma noi eravamo un gruppo di cannaioli! Jim era divertente! Ridevamo un sacco” (S. Davis, 2006, p. 551). Forse ancor più significativa è la presa di distanza dal film di Stone di Jerry Hopkins, noto biografo autore di Nessuno uscirà vivo di qui (J. Hopkins, D. Sugerman, 1990): “Sfortunatamente, la sceneggiatura non dava a Val Kilmer la dimensione che Morrison avrebbe meritato e che la storia avrebbe richiesto […] La macchina da presa di Stone ce lo mostra come un ubriacone spregevole, indulgente con se stesso e autodistruttivo. Tutto vero, naturalmente. Ma era anche un personaggio affascinante, arguto, intelligente, articolato e autoironico […] Il film di Stone ne dà una descrizione sgradevole e parziale. Quando alla fine Morrison porta alle labbra l’ultima bottiglia e se la scola, molti fra il pubblico saranno proprio contenti di vederlo andare a farsi il bagno” (J. Hopkins, 2004, p. 167). Oliver Stone, in fin dei conti, più preoccupato di costruire un personaggio da dare in pasto al pubblico che di ricostruire la complessa personalità di Jim Morrison, inventa un mito degli anni Novanta (compreso l’eccessivo peso dato alla leggenda dell’anima dello sciamano che si sarebbe impossessata di Morrison) che è meno interessante, in fondo, della realtà storica, come spesso accade al cinema hollywoodiano – e a Oliver Stone in particolare.
A Jim Morrison è un po’ toccato in sorte lo stesso destino di Achille in Troy (Wolfgang Petersen, 2004) o di Alessandro Magno in Alexander, dello stesso Stone (2004), entrambi personaggi molto affini, nella loro carica tragica, al cantante di Los Angeles (in particolare Alessandro Magno, che Jim Morrison ammirava al punto da atteggiare la sua stessa postura alla maniera del condottiero macedone): il destino cioè di essere omaggiati, e forse anche magnificati, dal cinema hollywoodiano, in una spettacolarizzazione della propria vicenda che, oltre ad essere manipolata per potersi inserire nei canoni del colossal americano, risulta alla fine stereotipata e banalizzata in un appiattimento del personaggio che lo rende il più delle volte ottuso e al limite odioso, come succede ai supereroi. Quasi che lo scopo di Stone sia quello di frantumare cinicamente i vecchi miti per rimpastarli in insipidi e meschini personaggi da industria cinematografica, privi di ogni spessore. “Quando gli chiesero come Stone vedesse Morrison”, racconta ancora Jerry Hopkins, “Val Kilmer rispose: «Tette e acido» […] L’intelligenza, i modi signorili e il senso dell’umorismo di Morrison erano da considerarsi dispersi in combattimento – per usare un’espressione che Stone dovrebbe riconoscere” (J. Hopkins, 2004, p. 164). Ecco perché, per lungo tempo, si è avvertita la necessità di un film che strappasse il personaggio Jim Morrison (e la parabola dei Doors) all’immaginario costruito da Stone, per ricollocarlo in una dimensione più giusta: un atto dovuto. Così, in fondo, è stato subito percepito il lavoro di Tom DiCillo. Non a caso il regista, autore di film come Johnny Suede (1991), Si gira a Manhattan (1995) e Delirious (2006), sceglie per i Doors di girare il suo primo documentario, lavorando unicamente su materiale d’archivio ed evitando, secondo le sue stesse parole, “interviste con teste parlanti che ricordano eventi passati”.
Un lavoro d’archivio, improbo e meticoloso, che ha richiesto circa quattro anni a DiCillo per analizzare tutto il materiale disponibile: When You’re Strange si caratterizza dunque come un documentario dagli intenti filologici, il cui principale obiettivo è quello di districarsi tra il mito e la realtà, dipingendo un ritratto vero del Jim Morrison uomo e artista, con tutta la sua complessità, senza nasconderne i lati oscuri, ma ritraendolo, per così dire, dal vivo, con tutto il suo fascino e carisma; lasciando parlare, attraverso le interviste e i filmati dell’epoca, lo stesso Jim Morrison, gli amici e colleghi, i fan.
Detto questo, When You’re Strange è un film molto deludente. Il taglio revisionista, da inchiesta storica, è l’aspetto migliore del film, oltre a un’ottima qualità della fotografia. In altre parole, se ne apprezzano le intenzioni, e la possibilità di vedere in un buon formato il beneamato Jim e soci. Per il resto, l’intero documentario lascia l’amaro in bocca. E questo per svariati motivi. In primo luogo, per quanto si tratti di un montaggio di materiale in parte inedito, non c’è nulla di significativamente nuovo. L’inizio del film è interamente dedicato alla ricostruzione del contesto storico: il Vietnam, il Sessantotto, gli hippy e così via; ma non si va mai veramente oltre un’introduzione da manuale delle medie. E quello che vale per il contesto storico vale anche per l’intera vicenda narrata. Non c’è nessuna indagine particolare, nessun approfondimento, nulla che un qualunque fan dei Doors non conoscesse già. Alla fine, la sensazione che si ha, è che When You’re Strange sarebbe un ottimo documentario da mandare in onda su un canale di musica come ennesimo dossier sui Doors. Nulla di più. Ed è un vero peccato, in realtà, perché c’erano forse tutte le carte in regola per rilanciare effettivamente l’immagine, un po’ offuscata dai cliché, di un artista assolutamente sopra le righe, che meriterebbe tutt’altra attenzione. Lo dimostrano le – poche – scene di HWY (Ferrara, Morrison, 1969), il film di Jim Morrison rimasto a tutt’oggi inedito, inserite nel documentario e che sono forse le migliori scene filmiche dell’intero lavoro. Questa, forse, è una delle principali cause di quella sensazione di amarezza che si prova nel vedere When You’re Strange: la sensazione che si sarebbe potuto vedere qualcosa di molto migliore, se si fosse dato maggior spazio direttamente ai lavori di Jim Morrison, unita alla sensazione che qualcosa di veramente nuovo e originale, legato ai Doors, non lo si vedrà mai più. Il meglio di When You’re Strange è tutto lì: in HWY, in Feast of Friends e nei concerti dei Doors. Immagini già viste, bene o male, attraverso i bootleg e YouTube, ma comunque direttamente riconducibili all’estro di Jim Morrison. Ancora una volta, nessuno può parlare di Jim Morrison meglio dello stesso Jim Morrison.
Tutto questo induce a fare alcune riflessioni di carattere più generale. In primo luogo, per quanto sia apprezzabilissimo il tentativo di Tom DiCillo di dipingere un ritratto più fedele del vero Jim Morrison, il dubbio si insinua: è questo il vero Jim Morrison? Di più: esiste un vero Jim Morrison? O non è piuttosto ingenua già la stessa intenzione di DiCillo? Certo, fare storia vuol dire sempre ricostruire una verità piegandola al proprio punto di vista. Ma proprio in questo DiCillo si rivela un cattivo storico: nella pretesa, cioè, di poter mostrare il vero Jim Morrison, e nell’ingenuità di credere che lo si possa fare semplicemente mostrando materiale “vero”, come se questo fosse di per sé garanzia di autenticità. Alla fine, lo spettatore, anche inconsapevolmente, avverte comunque l’insufficienza dell’operazione, se non altro perché risulta insoddisfacente: manca qualcosa, nel film, non c’è nulla di veramente interessante. Basterebbe aver letto un libro sui Doors, per sapere già, e più approfonditamente, tutto quello che il film mostra. Certo, ci sono le interviste dell’epoca, in cui indubbiamente emerge un Jim Morrison molto più intelligente e raffinato di quello interpretato da Val Kilmer – ma anche questo, in fondo, già lo si sapeva all’epoca del The Doors di Stone. Insomma, lo spettatore – anche il più inconsapevole – avverte subito che sarebbe molto meglio vedere un’intera intervista di Jim Morrison, o vedere HWY per intero, se si vuol avere un’idea di chi sia il vero Jim Morrison, piuttosto che vedere un montaggio, in fondo abbastanza sommario, di diversi spezzoni. DiCillo tenta di aggirare questo problema attraverso la voce narrante, che non a caso affida a una star di primordine – Johnny Depp – nel tentativo di riempire l’assenza di un reale approfondimento storico. Ma la voce narrante – che, nonostante l’intervento di Depp, risulta pur sempre molto monotona – non riesce, in fondo, a dire nulla. E rivela infine l’inconsistenza dell’intera operazione: non si può recuperare una verità storica attraverso il solo materiale d’archivio – e la voce fuori campo, alla fin fine, inficia la pretesa autenticità perché è costretta ad inserirsi continuamente nel tessuto narrativo, con ciò stesso piegando il dato storico alla particolare visione della verità che ne ha il regista. E dunque si torna al punto di partenza.
Questo genere di impasse induce a fare una riflessione di carattere più generale sull’attuale tendenza, se non vera e propria moda, del cinema a proporre documentari. Il successo di pubblico, oltre che di critica, che il documentario ha avuto nell’ultimo decennio, dev’essere indubbiamente legato alla diffusa disillusione nei confronti del sistema massmediatico, alla sfiducia generata da una società dello spettacolo che spettacolarizza tutto e che altera e manipola il codice genetico, per così dire, dell’informazione. E della conoscenza. Fino al punto da rendere indistinguibili dato “naturale” ed artefatto, informazione e spettacolo, simulacro e reale. Il documentario tenta di rispondere a questa crescente esigenza di genuinità e veridicità. Sotto questo aspetto, il successo del genere documentaristico rientra nello stesso ordine di fenomeni cui appartengono la diffusione di prodotti bio e d’origine protetta, o l’interesse turistico per la rievocazione storica. In tutti questi casi c’è una richiesta di prodotti naturali, percepiti come più veri o veraci, in quanto non contraffatti o artefatti. È un segno dei tempi: dalla fine degli anni Ottanta, che hanno rappresentato il trionfo dell’estetica cyborg, dell’artefatto e della spettacolarizzazione, si è arrivati, nel primo decennio del nuovo millennio, ad una ricerca spasmodica del naif, del genuino, del vero. Ironicamente, tale ricerca passa però attraverso una complicazione procedurale che rende spesso il prodotto naturale più artefatto di quello costruito. Sicché, alla fine, questa esigenza di veracità e di verità rimane fondamentalmente inappagata, contribuendo con ciò stesso ad aumentare sempre più il regno del simulacro. Il documentario di Tom DiCillo, come la maggior parte dei documentari proposti negli ultimi anni, cade proprio in questo vizio di fondo. Sotto questo aspetto, i pochi documentari davvero interessanti sono quelli nei quali il regista ha rinunciato sin dall’inizio a mostrare una qualche verità oggettiva ed è entrato direttamente nella narrazione, prendendo posizione in maniera netta e dichiarata: è il caso di un capolavoro come Grizzly Man (Herzog, 2005) o anche delle inchieste di Michael Moore, le quali hanno evidenti intenzioni politiche. Oppure quelli che vedono un’immediata partecipazione personale da parte dell’autore e che sono dunque fortemente orientati verso una narrazione autobiografica, come nel caso di Un’ora sola ti vorrei (Marazzi, 2002). Peraltro, proprio un film come Grizzly Man sviluppa una riflessione critica sull’impossibilità di riempire il vuoto di autenticità attraverso la ricerca di una natura presunta “vera”, o comunque più vera e più pura rispetto al mondo umano, troppo umano, che costantemente abitiamo. Lì questa impasse diventa tragedia. E il regista riesce a bilanciare sapientemente l’intervento artistico (e la riflessione estetica) con quello documentaristico: la presa di posizione critica nei confronti del protagonista, Timothy Treadwell, innesca una serie di riflessioni sul rapporto tra persona e personaggio (l’intero film è strutturato, come è noto, sul materiale filmico raccolto dallo stesso Timothy), tra autenticità e finzione, e, non ultima, sull’impossibilità di mediare tra natura e cultura. Bisognerebbe forse contrastare l’esigenza attuale di verità e genuinità, questa “volontà di verità” (Nietzsche, 1977) che contraddistingue l’inizio del nuovo millennio, sintomo, a dirla tutta, del nichilismo incompiuto. Bisognerebbe forse rassegnarsi alla “morte di Dio” (idem) e accettare il labirinto della gettatezza, senza troppi rimpianti. Preferire, decisamente, l’illusione alla simulazione (Baudrillard, 2006).
Tornando a When You’re Strange, ciò che manca a questo film è proprio una simile consapevolezza. Per quanto tecnicamente sia di ottima qualità, il film di DiCillo rinuncia sin da subito, e per una precisa scelta registica, ad una dimensione estetica, preferendole decisamente un taglio storiografico, obiettivo, che necessariamente, per le ragioni discusse, manca il bersaglio: Jim Morrison resta comunque precluso nella sua verità esistenziale (e come potrebbe essere altrimenti?), mentre per contro manca un reale sviluppo critico o un approfondimento realmente storico. Anzi vien quasi fatto di rimpiangere il vecchio mito hollywoodiano creato da Stone, che, sia pure forzando la mano su alcuni elementi particolarmente d’effetto, ha se non altro saputo restituire un certo spirito: il turbamento di un animo inquieto che, se non la dice tutta sull’uomo Morrison, coglie comunque un aspetto importante, evidentemente percepito dal regista come significativo. Né si può dire che When You’re Strange abbia reso effettivamente giustizia a Morrison: se nel film di Stone il cantante appariva come “un ubriacone spregevole, indulgente con se stesso e autodistruttivo”, ma pur sempre pienamente padrone, fino in fondo, del proprio destino, qui, nel tentativo di riabilitarlo, Jim Morrison passa quasi per un ubriacone incapace di compiere scelte significative, vittima degli eventi: addirittura, a tratti, incapace di rendersi conto delle conseguenze delle sue azioni. Se davvero lo si voleva riabilitare, si è scelta l’odiosa attenuante dell’immaturità psichica. Anzi l’intero capitolo della rivolta giovanile viene liquidato con una scrollata di spalle e con l’ammonimento che l’LSD avrebbe condotto Charles Manson alla follia, anziché all’illuminazione: mentre Manzarek, Krieger e Densmore l’avevano capito presto, Jim Morrison si sarebbe invece bruciato come qualunque ragazzo che non abbia imparato la lezione. In definitiva, bisogna ammettere che, se si pensa all’omaggio che altri personaggi hanno ricevuto da parte di grandi registi, come Diego Maradona nel film di Emir Kusturica (Kusturica, 2008), per rimanere nel genere del documentario biografico, Jim Morrison è stato finora abbastanza sfortunato. Il miglior omaggio, sia pur indiretto, che il cinema ha fatto al Re Lucertola, è forse, paradossalmente, Strange Days (Bigelow, 1995), scritto da James Cameron: film cyberpunk senza alcun riferimento esplicito, nella trama, ai Doors, ma che non a caso dedica loro il titolo (The Doors, 1967b), cogliendo forse più di Stone e di DiCillo l’essenza delle opere di Morrison. In conclusione, la speranza è che, se non altro, When You’re Strange possa fungere da stimolo per un rinnovato interesse e per una maggiore attenzione alla figura e alle opere di Jim Morrison.
Forse, anche in questo caso, si deve semplicemente rinunciare e rassegnarsi al fatto che Jim Morrison è morto: qualcosa di originale, al riguardo, è impossibile. Forse occorrerebbe, a questo punto, solo recuperare le sue – poche – opere e dedicare ad esse la giusta attenzione, restaurando e rendendo disponibile il materiale inedito (HWY, in primis, ma anche le interviste e le registrazioni audio, i concerti, il materiale cartaceo e gli appunti) e recuperando e sistemando quello edito (come, in parte, si è cominciato a fare). Forse occorrerebbe, soprattutto, liberare Morrison dall’industria discografica (e cinematografica) e dagli interessi economici. Liberarlo, anche, dai fan e dai dilettanti. Studiarlo. Del resto, la continua esigenza di processare Jim Morrison, giudicarlo, assolverlo o condannarlo, ancora a quarant’anni di distanza, è forse il sintomo delle nostre debolezze, più che della complessità di una ricostruzione storica. I fantasmi del Sessantotto continuano ad agitare i sogni dell’establishment e della buona società. Il fantasma di Jim Morrison, ancora oggi, continua in fondo, come la maschera dell’assassino nella galleria antica (The Doors, 1967a), ad agitare spettri che vorremmo scongiurare. Sotto questo aspetto, When You’re Strange è l’ennesimo esorcismo contro la Ghost Dance dello sciamano Jim Morrison.
LETTURE
× Baudrillard J., Patafisica e arte del vedere, Giunti, Firenze, 2006.
× Davis S., Jim Morrison: Life, Death, Legend, trad. it. Jim Morrison. Vita, morte, leggenda, Mondadori, Milano, 2006.
× Hopkins J., The Lizard King, the Essential Jim Morrison, trad. it. Jim Morrison. Vita e parole del Re Lucertola, Arcana, Milano, 2004.
× Hopkins J., Sugerman D., No One here Gets out Alive, 1980, trad. it. Nessuno uscirà vivo di qui, Kaos, Milano, 1990.
× Nietzsche F., Die fröliche Wissenschaft, 1882, trad. it. La gaia scienza, Adelphi, Milano, 1977.
× Patch N., Doors guitarist Krieger says new documentary shows the real Jim Morrison, in "The Canadian Press", 30 giugno 2010: http://www.680news.com/entertainment/article/72578--doors-guitarist-krieger-says-new-documentary-shows-the-real-jim-morrison.
ASCOLTI
× The Doors, The End, in The Doors, Elektra 1967a, ristampa cd in Perception, Rhino/Elektra, 2006.
× The Doors, Strange Days, Elektra 1967b, ristampa cd in Perception, Rhino/Elektra, 2006.
VISIONI
× Bigelow K., Strange Days, Lightstorm 1995, Strange Days, 20th Century Fox, 2002.
× DiCillo T., Johnny Suede, Arena 1991, Johnny Suede, Mondo, 1991.
× DiCillo T., Living in Oblivion, JDI 1995, Si gira a Manhattan, Eagle, 2004.
× DiCillo T., Delirious, Peace Arch 2006, Delirious – Tutto è possible, UBU, 2010.
× Ferrara P., Morrison J., HWY. An American Pastoral, inedito, 1969.
× Herzog W., Grizzly Man, Lions Gate Films 2005, Grizzly Man, Fandango, 2010.
× Kusturica E., Maradona by Kusturica, Estudios Picasso 2008, Maradona di Kusturica, RAI Cinema - 01 Distribution, 2008.
× Marazzi A., Un’ora sola ti vorrei, Cecchi Gori, 2011.
× Petersen W., Troy, Warner Bros. 2004, Troy, Warner, 2010.
× Stone O., The Doors, Penta Film 1991, The Doors, Universal, 2011.
× Stone O., Alexander, Warner Bros. 2004, Alexander, Warner, 2011.