LETTURE / PADRE E MEMORIA
di Federico Campbell / Ipermedium, S.M. Capua Vetere, 2011 / pagine 175, € 14,00
Raccontare per essere*
di Gianfranco Pecchinenda* Introduzione a Padre e memoria di Federico Campbell, che pubblichiamo con il consenso dell’autore e del’editore.
“Ho quarant’anni e so che la morte di un padre è un evento che lascia il segno e che la dovrò immortalare, se voglio chiamarmi scrittore”. Questa frase, con la quale Alan Bennett sembra quasi voler giustificare il suo dilungarsi sulla figura paterna nel corso della sua delicata e commovente autobiografia (Bennett, 2010), potrebbe essere stata scritta da uno dei tanti autori che lo studioso messicano Federico Campbell analizza in questo bel libro che oggi appare in edizione italiana.
Sarebbero innumerevoli, in effetti, gli esempi nella storia della letteratura in cui traspare, dirompente, l’importanza della figura paterna nella vocazione di uno scrittore. Campbell ne cita molti, moltissimi: dai grandi classici, come Franz Kafka, Fëdor Dostoevskij, Jorge Luis Borges o Juan Rulfo, passando per diversi tra i più significativi autori contemporanei – Raymond Carver, Peter Handke, Sam Shepard, Paul Auster, Orhan Pamuk, Philip Roth, Jonathan Franzen e tanti altri ancora – i quali, sempre con grande suggestione, riescono a tradurre, ognuno a suo modo e con la propria cifra stilistica, la ricerca di un rapporto con questa necessaria quanto ingombrante figura, così centrale per la conoscenza del sé quanto per la strutturazione di qualunque tipo di organizzazione sociale.
Se vogliamo, però, i diversi riferimenti al padre che accomunano molti dei capitoli che compongono questo libro, possono essere considerati anche uno spunto, se non un vero e proprio pretesto, per introdurre tutta una serie di altre importanti tematiche, variamente connesse tra loro, che riguardano la memoria, il vissuto temporale, l’identità, la narrazione, l’arte, la scienza. E la letteratura, soprattutto. Sì perché la letteratura – sembra volerci dire Campbell – ha qualcosa di proprio e di specifico da insegnare su molte delle questioni su cui le diverse discipline scientifiche si dibattono da sempre. Molti scrittori, e Marcel Proust in tal senso potrebbe essere considerato emblematico, sono stati spesso in grado di comprendere e spiegare alcuni dei meccanismi emotivi connessi al funzionamento del comportamento umano ben prima che tali spiegazioni venissero riconosciute e poi corroborate dalla ricerca scientifica, facendo ricorso alle diverse metodologie ad essa più consona.
Per le scienze sociali, lo sappiamo, i modelli possibili tratti direttamente dalla letteratura sono infiniti e possono essere fatti risalire alle origini stesse del dibattito metodologico emerso al loro interno. L’esempio migliore è forse quello di Balzac, oppure dello stesso Émile Zola, di cui è stato scritto: “si on peut dire que Balzac est le Parsons du Roman, Zola sera son Bourdieu” (Barrère, Martuccelli, p. 14n.; Dubois, Seuil, 2000). Come ha dimostrato Pierre Barbéris in una sua originale ricerca (Barbéris, Fayard 1980), Balzac aveva trattato e messo in opera in Les Chouans tre grandi questioni che sarebbero poi state analizzate soltanto negli anni Sessanta del Novecento dalle scienze sociali: la marginalità, l’oppressione delle donne, la gioventù. Così come I Buddenbrook di Thomas Mann, la storia dell’ascesa e del tramonto di una famiglia dell’alta borghesia mercantile attraverso l’arco di quattro generazioni, riesce a dirci sulle origini, le contraddizioni e le incertezze della società capitalistica occidentale molto di più, e molto meglio, di quanto non abbiano fatto decine di ricerche e studi sociologici nel corso di tutto il Novecento. O, ancora, così come Lev Tolstoj, con La morte di Ivan Il’ič, ha offerto a tutti noi quello che può essere considerato un insuperabile trattato di tanatologia. Nessuno, meglio di lui, è mai riuscito – com’è stato efficacemente scritto (Cavicchia Scalamonti, 2007) – a narrare e a rendere umanamente comprensibile cosa significhi l’esperienza della morte nella società moderna. Ma anche spingendoci al di là dei singoli grandi capolavori, il romanzo contemporaneo non cessa di fornirci esempi di opere che potrebbero essere considerate dei veri e propri laboratori sociologici (Barrère, Martuccelli, cit.; Lassave, 2002; Rallo Dichte, 2010), in particolare per ciò che concerne l’analisi di alcune delicate tematiche.
In un prezioso saggio su Robert Musil pubblicato circa vent’anni or sono Peter L. Berger (1992), lamentando la persistente incapacità da parte degli storici e dei sociologi (nonostante i loro molteplici ed anche apprezzabili tentativi) di riuscire a tematizzare in modo definitivo e soddisfacente, ad esempio, il fenomeno dell’identità moderna – ovvero di “come l’uomo moderno differisca da altre variazioni della specie” –, proponeva di superare tale impasse cercando una guida proprio nella letteratura e, in particolare, nel grande romanzo moderno. Certi generi narrativi – egli sosteneva – conferendo una forma particolare all’esperienza, la rendono intelligibile secondo modalità che a loro volta consentono di potergli attribuire un senso e un significato sia a livello individuale che collettivo. E tale “forma particolare” viene resa possibile dalla narrazione essenzialmente grazie all’elaborazione di una grammatica del tempo. La narrazione, in questo senso, è il modo attraverso il quale gli esseri umani organizzano e costruiscono il proprio rapporto con la temporalità e – attraverso la sua «grammatica» – è il modo che rende possibile la creazione di una “realtà” o di un “mondo” possibile e non necessariamente certo, oggettivo o verificabile empiricamente.
Secondo una suggestiva intuizione di George Steiner il tempo, e in particolare la percezione umana del tempo futuro (“la capacità di discutere fatti che potrebbero succedere il giorno dopo il proprio funerale o fra un milione di anni nello spazio interstellare”), sarebbe una caratteristica apparsa relativamente tardi nell’evoluzione del linguaggio umano. E lo stesso vale per il congiuntivo e per i modi controfattuali collegati ai tempi futuri. “Soltanto l’uomo – scrive Steiner – per quanto possiamo concepire, dispone dei mezzi per modificare il proprio mondo attraverso le subordinate ipotetiche, generando espressioni come: «se Cesare non si fosse recato al Campidoglio quel giorno». Mi sembra che questa «grammatologia» immaginaria, formalmente incommensurabile, dei futuri verbali, dei congiuntivi e degli ottativi abbia svolto un ruolo indispensabile, ieri come oggi, per la sopravvivenza e per l’evoluzione dell’animale linguistico.” (Steiner, 2003, p. 11).
Sulla base di tali considerazioni, che ritroviamo attraverso citazioni e riferimenti di diverse derivazioni nel testo di Campbell, l’asse della ricerca contemporanea sembrerebbe evidenziare un tendenziale spostamento da un orientamento di carattere prevalentemente ontologico ad uno fondato principalmente sui processi relazionali e comunicativi; ovvero una ricerca orientata non più verso un’analisi descrittiva e formalizzata di determinati modi dell’essere, ma verso un’analisi narrativa delle intenzioni dell’essere nell’ambito di una realtà da coniugare “al congiuntivo”. Ovvero a quel modo grammaticale le cui forme – come ha spiegato molto efficacemente Jerome Bruner – “vengono usate per denotare un’azione o uno stato così come vengono pensati (e non come un fatto), e perciò è usato per esprimere un desiderio, un ordine, un’esortazione, oppure un evento contingente, ipotetico o previsto.” (Bruner, 2003, pp. 33-34). Questa cosiddetta congiuntivizzazione della realtà implicherebbe a sua volta la produzione di un universo di riferimento in cui abbiamo a che fare non più con delle stabili certezze ma con delle ipotetiche possibilità umane; quelle denotate dagli ottativi, dai modi grammaticali del desiderio che aprono il carcere della necessità fisiologica e delle leggi meccaniche. Secondo una felice espressione di Milan Kundera, si tratta di porre al centro dell’attenzione non tanto la cosiddetta realtà ma l’esistenza. E quest’ultima non è necessariamente limitata a ciò che si è effettivamente realizzato, ma diventa “il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace” (Kundera, 1988, p. 68).
Il passaggio da questi temi a quelli, tanto delicati quanto affascinanti, relativi al rapporto tra “fiction e realtà”, è estremamente breve. E questo a maggior ragione se, come ci invita a fare lo studioso messicano, si convoca al tavolo dei nostri relatori una mente acuta e saggia del calibro di Borges per riflettere, attraverso le sue parole, sul fatto che: “se pensiamo a un personaggio storico del passato, ad esempio Alessandro il Macedone, e se pensiamo a un personaggio della letteratura come Macbeth, non pensiamo ad essi in modo distinto.
Vale a dire, alla lunga, tutti gli esseri diventano memoria, non soltanto gli esseri in carne ed ossa, ma anche quelli della letteratura. Noi stessi, dopo la nostra morte, saremo tanto reali o irreali quanto lo sono i personaggi letterari. E nel caso di persone famose, queste possono esserlo anche in vita, ovvero possono essere immaginati dagli altri. Non ci sono due modi diversi di immaginare un personaggio (...) e il fatto che uno sia stato creato con le parole e l’altro sia esistito in carne ed ossa non presuppone una differenza: immaginiamo entrambi in modo identico”.
È un tema, com’è noto, molto caro ad altre grandissime figure della letteratura degli inizi del Novecento, basti pensare a Miguel de Unamuno e Luigi Pirandello, tra i principali attori di quel vero e proprio manifesto artistico secondo il quale l’idea della finzione narrativa dovrebbe essere considerata il dispositivo più adatto per smussare anche il più effimero dei possibili confini tra la realtà e l’illusione artistica e come strumento di indagine non solo filosofico-esistenziale ma anche storica e sociologica. “Io dico – scriveva il grande Don Miguel de Unamuno, già nel lontano 1927 – che noi, gli autori, i poeti, ci creiamo e ri-creiamo anche quando scriviamo una storia, quando inventiamo, quando diamo vita a delle persone che pensiamo esistano in carne ed ossa, al di fuori di noi. Il mio Alfonso XIII di Borbone e d’Asburgo-Lorena, il mio Primo de Rivera, il mio Martinez Anido, il mio conte di Romanones non sono altrettanto delle mie creazioni, parti di me stesso, di quanto non lo siano il mio Augusto Pérez, il mio Pachico Zabalbide, il mio Alejandro Gomez e tutte le altre creature dei miei romanzi? Tutti noi, che viviamo principalmente della lettura e per la lettura, non possiamo separare i personaggi storici dai personaggi poetici o romanzeschi” (de Unamuno, 1927, pp. 18-19). Allo stesso modo, come ricorda ancora lo stesso Campbell, autori quali Camus, Borges o Rulfo, nel raccontarsi e nello sdoppiarsi nelle loro opere, sopravvivono come esseri di finzione di se stessi trasformandosi dalle creature che furono nei personaggi che poi resteranno. Il fatto di dire – come ricordava ancora Don Miguel – che Don Chisciotte e Sancio Panza hanno più realtà storica di Cervantes, e che non fu Shakespeare a creare Macbeth e Amleto o Re Lear, Falstaff e Otello, ma furono tutti questi a creare lui; tutto ciò sembra che non voler entrare nella testa di coloro che hanno studiato la storia senza un minimo di senso storico. E ancora – facendo in particolare riferimento a quanto fortemente condividesse con Pirandello l’idea che gli esseri cosiddetti “di finzione” potranno forse essere meno reali degli uomini storici, empirici e fisiologici, ma risulteranno essere certamente più veri o, si direbbe oggi, quantomeno più verosimili - egli aggiungeva: “Gli eroi di quella che chiamiamo finzione, tutti gli uomini archetipici e creatori – nessuno crea più di un eroe di finzione – non vivono di ciò che si chiama realismo ma della loro verità: quella verità che si affoga nel realismo” (de Unamuno, Pirandello y yo, 2010, pp. 82-85).
Ma anche gli esempi derivanti dal rapporto tra letteratura e scienze quali la neurobiologia e la neurofisiologia del cervello non mancano tra i tanti riferimenti proposti da Federico Campbell. Prendendo spunto dal lavoro di Oliver Sacks e del celebre neurofisiologo russo Alexandr Lurija, Campbell sostiene, molto ragionevolmente, che tra tutte le scienze la neurologia è forse quella che maggiormente si avvicina alla letteratura: entrambe hanno a che fare – egli dice – con la percezione e i suoi problemi, le sue sfumature e i suoi colori. Può essere opportuno allora ricordare quanto alcuni lavori di Lurija, e in particolare le sue analisi dei due celebri “casi biografici” raccolti nei volumi Un mondo perduto e ritrovato (Lurija, 1973) e Un piccolo libro una grande memoria, (Lurija, 1972) abbiano contribuito in modo assolutamente originale alla comprensione dei complessi rapporti che intercorrono tra neuropatologie e coscienza del Sé. L’asse portante di questi lavori, condotti sulla scia delle brillanti intuizioni del suo maestro Lev S. Vygotskij, era costituito dall’idea secondo la quale le funzioni più elementari del cervello e della mente non sarebbero di carattere esclusivamente biologico, ma fossero invece condizionate dalle esperienze, dalla cultura, dalle relazioni con gli altri e con il mondo circostante. Tale impostazione rappresentava peraltro uno dei pilastri di quella che era stata definita una vera e propria “scienza romantica”, in opposizione alla visione classica della scienza dell’epoca che riteneva di dover osservare gli eventi nei termini delle loro parti, isolando i singoli elementi, analizzandoli partendo dai più semplici ai più complessi, formulando leggi e categorie aride ed astratte. Al contrario la visione «romantica» non intendeva né suddividere la realtà né tanto meno ridurre o semplificare – generalizzando – la sua enorme ricchezza, né quella delle sue singole e complesse qualità. Per Lurija restava di fondamentale importanza “preservare integra la ricchezza della realtà vivente”, approdando ad un nuovo modo – molto sociologico – di pensare alla natura dell’essere umano. A tal fine, e in particolar modo nei lavori citati, i pazienti vengono presentati nella loro totalità: l’unicità di questi due “romanzi neurologici”, come ha scritto Oliver Sacks in un suo saggio introduttivo, “sta nel loro stile, nella combinazione di una descrizione rigorosa, analitica, con una comprensione e immedesimazione profondamente personale con i suoi soggetti” (Sacks, 1972, p. XIII). Il primo saggio riguarda le vicissitudini di L. Zasetskij, un uomo ferito durante la seconda guerra mondiale da frammenti di un proiettile che gli avevano provocato un danno massivo al cervello, e in particolare alla regione occipito-parietale sinistra. Intercalando la voce narrativa del protagonista con digressioni di carattere neuroanatomico sul funzionamento cerebrale, Lurija riesce a raccontarci della devastante disgregazione di specifiche funzioni cerebrali e mentali del paziente, cui corrisponde una drammatica frammentazione che colpisce la sua identità, lacerando praticamente tutti gli aspetti della sua esistenza. “Nella memoria non c’è nulla – egli dice – non riesco a ricordare una sola parola. Tutto ciò che è rimasto nella memoria è stato polverizzato, letteralmente frantumato in parti a sé stanti, senza alcun ordine”. Il suo sé e il suo mondo precedenti sono andati perduti. Allo stesso tempo, poiché i suoi lobi frontali sono intatti, egli è del tutto consapevole della sua situazione ed è capace di compiere gli sforzi più determinati e ingegnosi per migliorarla.
“Questo libro – ricorda ancora Sacks nel suo scritto – non sarebbe stato possibile senza quanto aveva scritto Zasetskij stesso, che per la sua amnesia e afasia gravi (cosicché non era in grado né di leggere né di ricordare ciò che aveva scritto) poteva soltanto mettere insieme dei ricordi e dei pensieri così come venivano, a caso, e con le più strazianti difficoltà e lentezze. Spesso non sapeva ricordare o scrivere del tutto e nei casi migliori riusciva soltanto a scrivere poche frasi al giorno. Ciononostante, con perseveranza e tenacia incredibili, riuscì a scrivere tremila pagine in un periodo di venti anni e poi – e questo è il punto cruciale – a metterle insieme e a riordinarle e così a ristabilire e ricostruire la sua vita, realizzando un insieme significativo di questi frammenti” (Ivi, pp. XV-XVII). Il modo in cui, ricostruendo il suo proprio racconto, riuscì a riappropriarsi del senso del suo vissuto, del significato della sua propria vita, costituisce un esempio straordinario per la comprensione del rapporto tra linguaggio, formazione del Sé e autonarrazione. Il secondo “caso neurologico” tratto dalle ricerche di Lurija, rappresenta una biografia altrettanto “estrema”, che si oppone diametralmente alla prima. Šeraševskij (il protagonista di questo secondo caso) è infatti un mnemonista, un uomo che si presenta dinanzi al suo medico con una ipertrofia della memoria particolarmente straripante – che, facendo un parallelo letterario, potrebbe equipararsi al famoso Funes narrato da Borges. Anche in questo caso, più che a un arido e astratto rapporto clinico, ci troviamo di fronte ad un’interpretazione umana di che cosa significhi vivere con una mente che registra meticolosamente ogni dettaglio dell’esperienza senza però essere in grado di cogliere da tale registrazione il significato, di “coglierne il senso”. “Sotto questo aspetto – ha scritto Jerome Bruner – l’essenzialità del racconto umano di Lurija è nello spirito dei personaggi di Kafka e Samuel Beckett, simbolicamente spogliati del potere di trovare significati nel mondo” (Bruner, 1973, p. X).
L’argomentazione che Oliver Sacks propone al termine della sua presentazione a questo grande e sottostimato studioso è pregna di significato e costituisce una riflessione che, a mio avviso, si adatta perfettamente alle proposte analitiche che si possono trovare nel libro di Federico Campbell: in questi lavori – egli scrive – è presente “un concetto generale” che si applica a tutti gli esseri umani, anche se lo impariamo attraverso l’analisi di casi estremi di carattere patologico. Si tratta, a ben vedere, della riproposta di una vecchia lezione già a suo tempo trasmessaci da celebri pensatori come Socrate, Sigmund Freud o Proust: “che una vita, una vita umana, non è una vita fino a quando non è esaminata; che non è una vita fino a quando non è veramente ricordata e assimilata; e che questo ricordo non è qualcosa di passivo, ma attivo, la costruzione attiva e creativa della vita di un individuo, la scoperta e la narrazione della vera vita di un individuo. È profondamente ironico – conclude Sacks – in questi due libri meravigliosi e complementari, che sia l’uomo della memoria, il mnemonista, ad avere in questo senso perduto la sua vita e che sia l’uomo amnesico, distrutto, ad averla conquistata e riconquistata” (Sacks, cit., p. XVII). Un’identità diventa tale – si potrebbe dire, a parziale conclusione di questo complesso quanto affascinante discorso –, attraverso l’autocoscienza, se e solo se si riesce a trasformare un materiale più o meno grezzo depositato nella memoria (i ricordi che in un modo o nell’altro riguardano la vita che si è vissuta), in una storia, la nostra storia. La questione, di non poco conto, che talvolta può però emergere a tal proposito, concerne proprio la presunta veridicità dei ricordi e quella – non meno significativa – dei criteri più o meno legittimati, delle “prove” che una collettività richiede per valutarne l’attendibilità e l’autenticità. L’autocoscienza individuale è, di fatto, un fenomeno caratterizzato da intermittenze e irregolarità. I singoli e circoscritti episodi in cui gli esseri umani, ricollegando i diversi fenomeni autocoscienti, elaborano il loro senso unitario del Sé, non possono che essere spiegati facendo riferimento, come già evidenziato, alla questione della narrazione e dell’autonarrazione (Pecchinenda, 2008). Del tutto condivisibile risulta, a tal proposito, la seguente definizione: “L’autocoscienza è una specie di discorso con cui la nostra mente cerca di mettere insieme le diverse esperienze in cui il nostro corpo si trova (e si è trovato) coinvolto per renderle unitarie. L’autocoscienza, in questo senso, è una storia che si costruisce nella nostra mente – basandosi sulle conoscenze in suo possesso, sulle regole del linguaggio, sulle parole di cui dispone, sulla percezione dell’ambiente esterno – e in cui in qualche modo trovano posto tutte o quasi, o almeno quelle accessibili, le informazioni di cui la mente dispone” (Cimatti, 2000, p. 217). “In qualche modo” perché queste storie, molto spesso, non sono né coerenti né vere, come nel caso delle spiegazioni del proprio comportamento che danno i pazienti che soffrono di determinate patologie di carattere cerebrale. Narrare a se stessi significa in questo senso fornire una coerenza linguistica – e dunque un’identità unica di riferimento – alle esperienze in cui ci si viene a trovare nel corso dell’esistenza. E su questo aspetto ritroviamo, per concludere, un altro dei temi che Federico Campbell ripercorre attraverso i saggi, solo apparentemente svincolati tra loro, che compongono il puzzle di questo volume: Bisogna raccontare per essere – come ricorda Jonathan Franzen – e raccontare significa ricostruire il passato, inventarlo, crearlo e ricrearlo nella scrittura. Significa mentire, anche! (Cfr. Manguel, 2010; Pecchinenda, 2010). Perché “… il discorso umano non può mai fare a meno della menzogna. Forse essa è nata dalle necessità dell’invenzione narrativa, dal bisogno complesso di «dire la cosa che non è». Nelle nostre grammatiche i congiuntivi, i condizionali, gli ottativi e le proposizioni che incominciano con “se” rendono possibile un’opposizione alla realtà, radicalmente umana e indispensabile” (Steiner, 1997, p. 88). Il vissuto temporale è una questione di ottica interna. La memoria ordina le nostre esperienze nel tempo come un pittore ordina lo spazio in prospettiva: ricordare significa organizzare in categorie il mondo che ci circonda e non c’è alcun modo per poter descrivere il passato senza mentire. Raccontare il passato significa trasformarlo e, se non si vuole correre il rischio di trasformarlo, allora non vale neppure la pena provare a raccontarlo. Ma anche qui, come aveva fatto in precedenza con Borges, è sufficiente lasciare intervenire un autore del calibro di Isaac Singer, con il quale potremmo chiosare: “Quando un giorno passa, smette di esistere. Cosa resta? Nient’altro che una storia. Se le storie non venissero raccontate o i libri non venissero scritti, l’uomo vivrebbe come gli animali: senza passato né futuro, in un presente cieco”. E allora è preferibile scrivere, è meglio mentire, anche, pur di poter raccontare e trasmettere ai nostri contemporanei e alle generazioni future le storie più autentiche ed esemplari di quelli che, nel bene e nel male, sono stati, e riconosciamo essere ancora, i nostri padri, la nostra memoria.
LETTURE
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× Bennett A., A Life Like Other People's, 2009, trad. it. Una vita come le altre, Adelphi, Milano, 2010.
× Berger P., Robert Musil and the Salvage of Self, 1984, trad. it. Robert Musil e il salvataggio del sé, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1992.
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× Lurija A., Poterjannyj i vozvroscennyj mir, Un mondo perduto e ritrovato, Editori Riuniti, Roma, 1973.
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× Pecchinenda G., La verità è finzione. Manguel e il grande dubbio della modernità, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero29/bussole/q29_b01.htm
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