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Il robot che non sembra più me | |
di Pierluigi De Rosa | |
Quando
negli anni ’60, Asimov enunciava le tre
regole della robotica[1],
tracciava, contemporaneamente, una linea di confine tra l’uomo e la
macchina. Nessuna macchina poteva recare danno ad un essere umano, ma
nell’era della meccanica, in cui le risorse del nostro mondo sembravano Nessuno poteva immaginare che l’attacco delle macchine sarebbe avvenuto indirettamente, spostando la competizione dal livello fisico a quello economico. Già Philip Dick svincola le macchine dalla loro dimensione meccanica e le dota di emozioni, attese e speranze. Simili agli esseri umani, invidiano a questi ultimi una vita che a noi sembra brevissima. Gli androidi di Blade Runner non sono più robot figli della modernità, ma riflettono un’umanità di serie B, senza prospettive e risorse sufficienti. In questa metafora del capitalismo dello scorso millennio c’è già l’epilogo catastrofico, in cui le risorse diventano insufficienti e sono le macchine ad uscirne vincitrici, aiutate dall’unico essere in grado di decidere le sorti della battaglia: l’uomo.
La sindrome del nuovo
millennio è quella del dottor Frankenstein,
in cui la creatura sfugge al suo creatore. Senza rispetto e senza pietà le
macchine del futuro si impadroniscono di un
pianeta, di cui noi siamo la più alta espressione evolutiva,
trasformandoci in energia. Sono i nuovi robot di
Matrix, che allevano esseri umani per trasformarli in pura
energia, necessaria alla loro sopravvivenza. Ma non è solo la parabola
discendente di una fantascienza, che, nell’ultimo trentennio, ha
proiettato la paura diffusa e crescente per una tecnologia di cui non
abbiamo più il controllo, ma è anche
l’affermarsi del principio della non corporeità dell’essere umano,
indispensabile per affrontare gli orrori di un nuovo mondo, a cui In Matrix gli uomini sono collegati alla matrice, immensa rete neurale, dove vivono una vita virtuale che ricostruisce fedelmente il mondo del XX° secolo. Mentre il loro corpo dimora in piccole vasche alimentate da liquidi, la loro mente vive nel secolo scorso, insieme a milioni di altre menti, creando una dimensione virtuale, ma sociale, che la fa apparire reale. “Senza l’illusione di una vita gli uomini tendevano a morire” afferma Morpheus, così le macchine hanno creato la “grande illusione” capace di ingannare la percezione del reale e rendere vero il virtuale. La matrice risponde ad un’esigenza sociale, la necessità di essere accettati e di condividere un universo comune. Tale condizione non richiede più un corpo per essere accettati all’interno di una nuova agorà virtuale. Si afferma la nuova concezione dell’umano; un principio che rende l’uomo cosciente di sé anche senza il suo corpo. Alla consapevolezza del sé, unione di mente e corpo, si sostituisce la consapevolezza del pensiero, vero ed inequivocabile segno distintivo dell’essere umano. La scelta è consapevolezza: la possibilità di orientare la propria mente rappresenta essa stessa la certezza di essere umani.
[1] 1. Un robot non può far del male ad un essere umano, né permettere — non intervenendo — che qualcosa o qualcuno facciano del male ad un essere umano. 2. Un robot deve sempre obbedire agli ordini impartiti da un essere umano, a meno che essi non confliggano con la Prima Legge. 3. Un robot deve sempre salvaguardare la propria esistenza, a meno che così facendo non debba infrangere la Prima o la Seconda Legge.
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