“Un robot non può recare danno a un essere umano, né può
permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un
essere umano riceva danno”. È una delle tre leggi della robotica
formulate da Isaac Asimov per regolare i rapporti tra
intelligenze artificiali e umani.
Il rimando
al papà della robotica è doveroso dal momento che parliamo di
uomini-macchina, ovvero dei tedeschi Kraftwerk. Quelli che hanno
cantato, è proprio il caso di dirlo, la comunione fra uomo e
robot, puntando a disinnescare il radicato timore dell’uomo
vittima del dominio dei mostri tecnologici (la versione hi-tech
dell’apprendista stregone). D’altronde, i loro famosi manichini
meccanici (veri e propri alter ego dei quattro membri della
band), studiati per il lancio di The Man-Machine del
1978, fecero il giro del mondo e divennero i protagonisti di
ogni loro happening mediatico spiazzando critica e pubblico.
Questo e
molto altro si trova nel libro di Gabriele Lunati, la prima
biografia italiana a coprire tutto l’arco della carriera del
quartetto di Dusseldorf, dagli esordi, sotto il nome di
Organisation, al tour mondiale del 2004 dove, immobili ai loro
laptop, eseguirono la carellata delle loro “filastrocche
elettroniche” (Autobahn, Radioactivity,
Trans-Europe Express, The Robots, Tour de France,
Computer World ecc.) sempre accompagnati dagli
insostituibili manichini per rimarcare, se ancora ce ne fosse
bisogno, la fratellanza uomo-macchina.
I capitoli
più interessanti del libro, che è arricchito anche da
dettagliatissime appendici su discografia e concerti, sono
quelli iniziali che trattano delle radici del “robot pop” dei
Kraftwerk. Radici che affondano nella Germania degli anni
Sessanta, un paese in piena “guerra fredda”, ma ricchissimo di
fermenti culturali e artistici (pensiamo solo al cinema con
Fassbinder e Wenders o agli “eventi” del movimento Fluxus).
Questa ansia di ricerca di nuove strade per ritrovare
un’identità culturale tedesca caratterizza la genesi dei
Kraftwerk che parafrasando una citazione contenuta nel libro di
Lunati “rifiutano il consumismo commerciale cheap e tentano di
dare un’anima e un’estetica alla tecnologia”.
La formula
espressiva scelta è la musica elettronica. Un’opzione
inevitabile visto che a parte i classici e Stockhausen nella
Germania post-bellica non esisteva più alcuna forma musicale
“vivente”. I Kraftwerk non hanno poi nessuna intenzione di
scimmiottare le band inglesi o americane e arrivano a
sperimentare un pop sintetico inconfondibile: disciplinato,
teutonico, futuristico e, nonostante le premesse culturali ed
estetiche, per nulla elitario. Una vera Volkmusic, musica
popolare del XX° secolo.