Lem è un
funambolo. Le storie che propone sono zeppe di inventori
squinternati, di incredibili pianeti abitati da popoli ancora
più inverosimili che si industriano con mirabolanti tecnologie,
giustificate da conoscenze scientifiche meravigliose e balzane.
Buffa cosmologia che erompe dalla vulcanica fantasia di uno
scrittore da noi noto soprattutto per il romanzo Solaris,
divenuto in seguito film per la regia di Andreij Tarkovskji. Una
fama che ha oscurato e anche segnato (complice il film) la
produzione letteraria di Lem, che possiede un’effervescenza
naturale sconosciuta a Tarkovskji.
Lodevole,
quindi, il lavoro editoriale della Marcos Y Marcos, che giunge
con le Fiabe per robot al quarto titolo tradotto dopo Il
congresso di futurologia, Cyberiade e le Memorie di un
viaggiatore spaziale. Anche in questa raccolta di fiabe, datata
1968, Lem salta radicalmente la fase speculativa della
fantascienza, congiungendo la stagione segnata dal sense of
wonder con la postmodernità costellata di piccoli e grandi
gadget hi-tech, funzionanti grazie a leggi e logiche del tutto
ignote e su cui raramente ci interroghiamo. Esemplare l’elettroamico,
essere minuscolo e saccente inserito nell’orecchio di Automatteo
nel racconto L’amico di Automatteo. Una macchina più
macchina della macchina (Automatteo è un robot) che esaspera il
disgraziato. Il protagonista è un naufrago, uno sventurato come
Robinson Crosue, anzi di più, poiché il suo Venerdì è
l’esasperante marchingegno che, calcolata l’improbabilità di
ricevere soccorso immediato sull’isolotto dove è capitato
Automatteo, gli consiglia fraternamente di farla finita
suicidandosi. Un sapientone, tipetto odioso di quelli che un
altro grande, da poco scomparso, Robert Sheckley spesso
proponeva nelle sue storie. Quello di Lem è un mondo ibrido
abitato in coppia da uomini e macchine, dove la fantascienza
ritorna alla sua versione più folk e meno colta, quando ancora
non era del tutto distinguibile come genere letterario autonomo
all’interno del racconto fantastico.
Lem affida
ai suoi robot i compiti che La Fontaine assegnò agli animali:
mostrarci le piccole e le grandi miserie della vita, i
paradossi, le astuzie insite nell’arte di sopravvivere. Per far
questo si affida ad una straordinaria capacità di frullare
conoscenze scientifiche e invenzioni linguistiche poiché, come
scrive: “La scienza spiega il mondo, ma solo l’arte può
riconciliarci con esso.” Compito non semplice, occorre essere
fabbricanti d’universi come quelli nati dalla fantasia di Farmer,
o, più semplicemente, inventori.
Figure del
mondo della scienza che rimandano alla figura dello scrittore e
viceversa. In questo senso, Lem è un inventore. Narra di
inventori e delle loro invenzioni e le prime battute del
racconto I tre elettroguerrieri ne riportano la schietta
confessione: “C’era una volta un grande inventore che escogitava
senza sosta macchinari singolari e fabbricava gli apparecchi più
inverosimili.” Questo è Lem.