“Dal momento che le tesi da me avanzate in questi anni sono
ancora soltanto parzialmente condivise, se non in molteplici
significativi casi rifiutate o ignorate… dovrò utilizzare come
rimandi bibliografici soprattutto lavori miei o testi che a me
sembrano fondamentali…”, così Abruzzese scriveva qualche anno
dopo la prima pubblicazione di Anemia (Theoria,
Roma-Napoli, 1984) in un breve saggio ospitato in una antologia
di brani dedicati ai nuovi programmi della scuola elementare
(L’immagine, in L. Dozza, a cura di, Nei sistemi dei
segni, EIT, Teramo, 1988).
Indice di
un atteggiamento nei confronti suoi e dei suoi allievi della
cultura – anche “di sinistra” – più istituzionale, più che
restia ad accettare la necessità di fare i conti nelle proprie
analisi col ruolo che la “cultura di massa” lo sviluppo dei
media e l’immaginario collettivo avevano e avrebbero avuto nella
determinazione dei processi reali.
In realtà,
questo intervento del 1988 riprendeva sul piano direttamente
saggistico il discorso avviato nel 1984 pubblicando Anemia,
“romanzo breve” di vampirismo attualizzato ai nostri tempi e
messo in scena nell’apparato della sinistra italiana, sempre
intorno all’incapacità della nostra sinistra di confrontarsi con
i cambiamenti in atto.
E il
tentativo riesce. Perché lo stile e il ritmo del racconto, il
suo avanzare per allusioni e non detti, non solo rispetta
perfettamente i canoni di alcuni dei più riusciti romanzi
fantastici (primo fra tutti il Giro di vite di Henry
James), ma riesce a trasmettere attraverso l’allusione e il
rimanere sopra le righe il clima che si doveva respirare allora
in luoghi che del clima politico del potere riuscivano solo a
scimmiottarne i fenomeni e i comportamenti esteriori, senza
capirne i meccanismi di fondo, prigionieri di una orgogliosa
autoreferenzialità che – lo abbiamo oggi sotto gli occhi – non
poteva cogliere i disastrosi effetti che avrebbe provocato con
la sua distrazione.
Anemia
è nei
fatti il romanzo di una assenza e di una predisposizione
vicaria: del vampiro che non è realmente presente (gli
specchi non ne rimandano l’immagine), e che dipende sempre dai
fluidi vitali altrui, come della nostra sinistra di allora,
ormai esangue, assente dalla comprensione dei processi in atto e
della necessità di liberarsi dal giogo della cultura
tradizionale (ricordo come Giorgio Amendola dichiarasse con
orgoglio il suo ostinato crocianesimo e idealismo, l’ostracismo
diffuso verso Pasolini, Silone, il disprezzo per fumetti,
science fiction, e così via), e vicaria nei confronti del
potere vero, quello degli avversari, veloci a comprendere quale
sarebbe stata la forza dirompente implicita nello sviluppo dei
media e di un immaginario al loro servizio.
Essenziale, in questo senso, la postfazione, che permette di
decifrare e comprendere meglio il romanzo, specie per coloro
che, come avverte l’Autore, è nato o cresciuto dopo la sua
pubblicazione, e che in questo tempo veloce sembra, a noi
“adulti”, cittadino di un'altra epoca, e di cui noi ci troviamo
a far parte forse per caso, forse di passaggio, ma a cui
fortunatamente i maestri di un tempo riescono ancora a fornire
indicazioni e segnali per orientarsi.