Entrati – più o meno
trionfalmente – nel terzo Millennio (ricordate il finale di Strange
Days?), possiamo cominciare a riflettere sul decennio che
lo ha immediatamente preceduto: gli anni ’90 del Novecento.
Periodo importante, perché è quello durante il quale vengono a
maturazione i processi che accompagnano l’assestarsi della tarda
modernità, della globalizzazione, della virtualizzazione delle
cose.
Decennio di transito, come forse è stato il periodo a cavallo fra ‘800 e
‘900 (il punto di riferimento rimane lo Stephen
Kern de Il tempo e lo spazio), perché vede dispiegarsi le mutazioni in
senso “elettronico” dell’immaginario, ma anche, molto più
prosaicamente e concretamente, due laceranti eventi “reali”, i
crolli cui fa riferimento nel titolo Belpoliti: quello del
“muro” di Berlino, quello delle “torri gemelle”.
Un decennio cosparso di macerie e
relitti – sul piano locale, italiano, come su quello
internazionale (cfr. anche la recensione di Anemia di Alberto Abruzzese in
questo stesso numero di Quaderni),
sul piano storico come su quello simbolico e estetico.
Marco Belpoliti è un sociologo
della cultura, e quindi, citando Baudrillard
ma anche Dick, Virilio ma anche Kundera e
molti altri, si preoccupa di confrontare gli eventi “reali”
con i riflessi che hanno avuto nell’immaginario e nella
produzione estetica: sul corpo,
quindi sulla sua destrutturazione attraverso le performances
e le pratiche di artisti come Orlan
e Stelarc; sugli
oggetti e l’ambiente, attraverso la riflessione sulla categoria
del kitsch, citando Hermann Broch,
prima di tutto; sulla distesa di detriti
che riempie simbolicamente il nostro orizzonte, anche attraverso
il richiamo a pellicole come Matrix, Blade
Runner, The Truman Show.
L’autore descrive un panorama
complesso e articolato, che forse consapevolmente assume come
luoghi cruciali tre elementi che individuano i tre
mondi di cui parla Karl
Popper: quello fisico fatto della pietra, del metallo, del
vetro del muro e delle torri gemelle,
che possiamo assimilare a elementi del paesaggio naturale; quello
sociale, rappresentato dalle produzioni estetiche, dagli oggetti
del kitsch alle opere
artistiche; quello interiore, che possiamo anche individuare nel
corpo individuale, in via di mutazione da sintesi di carne e
“anima” forse nel corpo elettronico di cui sempre Alberto Abruzzese scriveva negli anni
’80 del secolo scorso.
Il corpo, il luogo del nostro abitare,
sentire, significare il
mondo, pare tendere a svanire, come materia e come coscienza:
l’arte degli anni ’90, sostiene Belpoliti, sembra cercare di
scongiurare questo rischio – attraverso, aggiungerei, la
denuncia e la rappresentazione della sua stessa sparizione.
Alle
spalle, e alle origini di tutto il processo, sentiamo affacciarsi
ancora una volta gli avvertimenti da Cassandra dei personaggi di
Philip K. Dick e di
George J. Ballard: Ubik, il Vaughan di Crash, Palmer Eldritch,
il Crawford di Cocaine Nights.
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