Parliamo di pallone – del gioco
del calcio, insomma – e sgombriamo prima di tutto il campo
della discussione da tutto ciò che non c’entra.
Come se prima di una partitella fra amici su uno sterrato, ripulissimo
il pezzo di terra che abbiamo eletto a campo di gioco da tutto
ciò che è superfluo, o fastidioso: bottiglie
vuote, cartacce, lattine…
Quindi
lasciamoci alle spalle tutte le polemiche e le finte discussioni del
tipo: “A me il calcio non piace perché i tifosi
fanno a botte.” Oppure: “Odio il calcio
perché ci girano troppi soldi…”
“I calciatori sono bamboccioni viziati…”
“… Perché Maradona si
drogava!” Insomma tutto ciò che non ha a che fare
col gioco in sé.
D’altra parte, giusto
per chiudere l’argomento, delle due l’una: o questa
affermazioni, sentite migliaia di volte, vengono da chi non conosce il
gioco, o lo conosce e non gli piace – eventualità
del tutto legittima, che non richiede giustificazioni –,
oppure il calcio gli piace pure, e costui si priva di un piacere per
motivi non pertinenti – opzione altrettanto legittima, ma
quanto meno bizzarra.
Allora, veniamo a noi: anche se ad
alcuni non piace, il football piace a milioni di persone in tutto il
mondo. Forse non è lo sport più praticato nel
mondo, ma è quello più seguito sul pianeta (Dal
Lago, 1990, p. 12). Specialmente da quando in gioco
sono entrate Africa e Asia. Un motivo ci sarà. Forse
più d’uno. È interessante ricercarli?
Crediamo di sì, perché se un fenomeno
spettacolare, estetico, e quindi culturale
coinvolge un pubblico così ampio, una ragione ci deve
essere. Anzi, più d’una. Ragioni presumibilmente
connesse al fenomeno in sé: come funziona il gioco; e alla
dimensione simbolica che assume.
Prima di tutto, allora, il
gioco (avvertendo che useremo indifferentemente i termini gioco
e sport considerandoli, in questo
contesto, sinonimi). Senza andare a cercare origini nobili,
nell’antichità o nel Rinascimento fiorentino,
accettiamo il fatto che il calcio in senso moderno, come peraltro tutti
gli altri sport come li intendiamo oggi, nascono e si diffondono
durante l’Ottocento grazie al diffondersi nella borghesia e
nelle classi popolari delle pratiche sportive fino ad allora
appannaggio delle aristocrazie (Cfr. Pivato, 1992, pp. 19 e segg.).
Naturalmente
con delle differenze: se alcuni sport implicavano l’uso di attrezzi
specifici e campi particolarmente
dedicati, come le racchette e la rete per il tennis, sci, bastoncini e
campi innevati per lo sci, cavalli e bastoni per il polo, e
così via, tutto ciò per il football (e in fondo
anche per il suo parente più stretto, il rugby) non era e
non è necessario: bastano quattro sassi o bastoni per
delimitare le porte, uno spiazzo più o meno pianeggiante e
sgombro, e – naturalmente – un pallone (che in casi
estremi può essere sostituito con una palla di stracci
– o con un’arancia, ma questa è
un’altra storia…)
Un altro
argomento preliminare è proprio questo: il pallone
è l’attrezzo del calcio? No, il pallone non
è un attrezzo: nel senso che non è una protesi,
come lo sono la mazza da baseball, gli sci, i pattini da ghiaccio
dell’hockey su ghiaccio, l’asta nel salto con
l’asta, e tutti gli altri artefatti che servono a potenziare
le capacità del corpo umano nei singoli sport.
In
fondo, il pallone è la posta in gioco:
bisogna controllarlo, e infilarlo il più volte possibile
– almeno una in più dell’avversario
– in quello spazio delimitato da due oggetti (pietre, pali,
mucchi di abiti) che viene difeso dalla squadra avversaria. O forse,
meglio ancora, proprio per la difficoltà di controllare la
palla e mantenerne il possesso, un feticcio, un Graal…
Questo
elemento diventa una prima specificità del calcio rispetto
ad altri giochi. Certo, ci sono altri sport con la palla: pallavolo,
basket, lo stesso rugby. Ma il calcio ha, dal punto di vista attuale,
fenomenico, una caratteristica in più, che lo rende diverso
dagli sport parenti: è difficilissimo raggiungere il
risultato voluto. Basta confrontare i punteggi finali medi dei giochi
simili. Basket e rugby, ad esempio: anche questi sono sport a tempo,
nel senso che sono divisi in tempi di una certa durata. Ma i loro
punteggi medi non sono neanche paragonabili con quelli del calcio, in
cui lo 0 – 0 finale è comunissimo e legittimo. Il
che implica una profonda difficoltà intrinseca nel fare
punti. E la difficoltà porta fascino… e
conseguente piacere, a differenza di altri sport. Prendiamo
“la pallamano è come il calcio, ma si gioca con le
mani. È interessante, però i punteggi sono simili
a quelli del basket, 29 a 28 per esempio. Ci si chiede quindi di
entusiasmarci ventinove volte a partita, cosa che alla lunga, anche per
il pubblico più appassionato risulta stancante”
(Dimitrijević, 2000, p. 44-45). E se vogliamo essere esaustivi in
questa parte della discussione, aggiungiamo che anche il confronto con
la pallavolo ci indica un’altra differenza strutturale: la
pallavolo (che Dimitrijevic chiama pallamano) non ha un tempo fisso.
Fatto un certo numero di punti, ogni set (di una serie di tre o cinque)
si chiuderà solo quando ci saranno almeno due punti di
distacco fra le due squadre – anche fino allo sfinimento,
eventualmente, in una versione più radicale delle maratone
di ballo ricordate in, per esempio, Non si uccidono
così anche i cavalli? (Pollack, 1969).
Per
ultimo, le regole: solo diciassette regole, semplici da memorizzare
(anche se UEFA e FIFA, le organizzazioni internazionali che governano
questo sport, per motivi vari, ma intuibili, cercano continuamente di
complicarle).
Il calcio è fatto, diciamola tutta,
di ventidue persone che corrono dietro a una palla, controllati da
altre tre persone, gli arbitri. Questi stessi fanno parte del gioco,
anzi del campo, come i pali delle porte: se la
palla li urta, è come se avesse toccato il terreno.
Allora,
ventidue persone che corrono dietro a un pallone, cercando di
governarlo con i soli piedi, con cui devono anche spostarsi a volte
repentinamente, facendo aggio delle irregolarità del
terreno, delle condizioni atmosferiche (a differenza degli sport
indoor). È il motivo per cui, come sostiene Dimitrijević:
“Il calcio è il re dei giochi…
perché – come la danza – riporta il
nostro corpo a quel che si potrebbe definire la preistoria dei
movimenti… nel calcio… Potete adoperare solo
piedi e gambe, questi antenati sottosviluppati della mani e delle
gambe. Ed ecco che, non potendo più fare ciò che
per voi sarebbe normale o naturale, siete ritornati a funzioni
arcaiche. Costretti a riannodare il legame con una memoria animale
sepolta dentro di voi” (Dimitrijević, pag. 15).
Sarà per questo che Gianni Brera ribattezzò
Maradona Re Puma. Già, Maradona, il
semidio. Ancora, un’ultima volta, lasciamo parlare
Dimitrijević: “Intendiamoci: Pelé, Platini,
Beckenbauer sono grandi giocatori… Beckenbauer incarna il
genere del giocatore perfetto, del professionista…
imperturbabile sempre in cravatta, inforca occhiali d’oro e
continua vivere un’esistenza che non mi appassiona per nulla.
È come quei poeti accademici che consultano i rimari, si
scelgono temi raffinati e diventano, nel migliore dei casi, epigoni di
Valéry. È ammirevole ma non è niente.
Quando Don Diego fa il suo ingresso in un qualsiasi bar, tutti gli
vogliono offrire un bicchiere. Ma a Beckenbauer no, aspettano che il
giro lo paghi lui” (Dimitrijević, 2000, p. 117).
Allora, palla al centro… ventidue persone che
corrono dietro a un pallone, in un tempo predefinito: due tempi di tre
quarti d’ora ognuno. Punteggi in genere bassi. Che peso
avrà la casualità in questo gioco? Che la si
chiami neutralmente caso, o miticamente fato,
destino, non cambia molto: la casualità
c’entra parecchio, nel pallone (appunto, “La palla
è rotonda”!) – e nella percezione degli
appassionati fa parte strutturale, legittima del gioco. E costituisce
– crediamo – un aspetto essenziale della sua
bellezza: rende l’esito delle partite imprevedibile, fino
all’ultimo secondo. Condizione sintetizzata perfettamente da
Vujadin Boskov, calciatore e poi allenatore vagabondo, quando
dichiarò “Rigore è quando arbitro
fischia”, come a dire che a decidere è, alla fine,
il caso: e quando questo si è espresso, produce e istituisce
la verità delle cose, a prescindere da
qualsiasi evidenza fattuale.
Negli sport, o meglio, in come
gli sport si collocano fra le altre forme spettacolari di massa nella
modernità, che questo o quello piacciano o meno al singolo,
c’è sempre un aspetto simbolico, che li rende
produttori di miti. In termini di auraticità del campione, e
in quelli di mitizzazione di eventi sportivi particolari, trasferiti
nell’immaginario per la loro esemplarietà. Questo
vale a maggior ragione per quelle discipline sportive particolarmente
“audio/videogeniche”, cioè
particolarmente adatte a essere diffuse attraverso i media audiovisivi.
Il football è scuramente fra questi. E qui si è
innestato, ormai da decenni, un circolo virtuoso: più i
media se ne occupano, più il calcio cresce, più
cresce, più è medializzato. Più ce lo
si può godere.
Altro argomento su cui si innescano
polemiche furibonde, naturalmente, fornendo ad
“apocalittici” e “integrati” in
versione sportiva l’occasione per esercitare la propria verve
moralistica.
Dimenticando – o meglio, mostrando di
ignorare – uno degli assunti fondamentali delle scienze
sociali: il “successo” del rapporto fra una merce e
i suoi consumatori si colloca in un luogo dove si incontrano bisogni e
loro soddisfazione, al di là degli eventuali – e
fantasmatici – “condizionamenti”,
“pressioni”, e così via…
Specialmente quando la merce in questione ha alti contenuti simbolici,
affettivi, emotivi: quando cioè è una merce
estetica (Cfr. Abruzzese, 1973). E il calcio, come tutti gli
sport, nel momento in cui è entrato in una dimensione
spettacolare di massa – e quindi nell’orbita dei
mezzi di comunicazione – è diventato merce
estetica. Con, in più, la caratteristica, rispetto
a molte altre discipline sportive, di conservare uno stretto
rapporto con la sua praticabilità concreta da parte di
chiunque – quindi con la conoscenza diretta, per esperienza,
da parte dello spettatore, del suo linguaggio, della sua parole.
Permettendo così continuamente all’appassionato di
vivere simbolicamente ciò che avviene sul campo.
Nel
successo continuamente crescente che ha vissuto durante
l’intero XX secolo il football assomiglia ad
un’altra formidabile macchina mitopoietica novecentesca, il
cinema. Laddove il pallone permette una identificazione fra spettatore
e calciatore nella complessità dei gesti atletici che
caratterizzano questo sport – in cui l’intero corpo
è continuamente coinvolto, con la difficoltà
ulteriore di manovrare la palla con i piedi, mentre questi si muovono
per spostare il corpo dell’atleta – il film
istituisce una analoga mimesi con l’affettività e
l’emotività dello spettatore.
Ma
c’è di più, una caratteristica dei due
dispositivi spettacolari, elementare e concreta, che li rende
più che affini – e che crediamo aggiunga un
ulteriore motivo alle ragioni del suo successo.
La partita di
calcio è tradizionalmente composta di due tempi, divisi da
un intervallo, di 45 minuti. Esattamente come il film classico. Questa
durata ha un carattere quasi fisiologico, necessario a una corretta
gestione del lavoro simbolico da parte dello spettatore. In
applicazione, quasi, di una riflessione che faceva Edgar Allan Poe agli
albori dello sviluppo della cultura di massa, quando nel suo saggio Filosofia
della composizione scriveva: “Appare dunque evidente che, in tutte le opere letterarie, esiste un netto limite per quanto concerne la lunghezza – il limite di una singola
seduta…” (Poe, 1974, pag. 1074, corsivo nostro).
Lo
scrittore americano sostiene questo punto di vista
in particolare per la poesia, ma il linguaggio del cinema –
evocativo, e metaforico, logopatico (Cabrera, 2000)
com’è – è assimilabile
proprio a quello della poesia piuttosto che della prosa. La partita di
calcio segue lo stesso andamento temporale…
Una
coincidenza? O una caratteristica che fa del pallone il gioco
– lo sport – per eccellenza della
modernità?
Il calcio, nonostante tutti i tentativi
– spesso riusciti, specie negli ultimi decenni –
di forzarne la natura: i tre punti per la vittoria,
l’allungamento della durata della partita con i recuperi
finali, le sostituzioni, tutti attentati all’equilibrio
sostanziale della sua forma, strumentali a una presunta maggiore
telegenicità, conserva la sua forza strutturale. Conserva la
capacità di produrre Mito, attraverso i gesti vertiginosi,
sciamanici, dei suoi eroi, gli esiti imprevisti, gli incidenti, le
coincidenze, le sostanziali ingiustizie: gli interventi imperscrutabili
del dio del pallone. Come scrive Osvaldo Soriano, dando voce a un
piccolo arbitro caduto in disgrazia:
Non ci fece caso e mi indicò i denti che gli mancavano: “Vedi? Questo fu un gol di Sivori in off-side. Ora guarda un po’ dove sta lui e dove sto io. Non c’è un dio del futbol, ragazzo, non c’è un dio. Perciò questo paese è ridotto così. Di merda.” (1991, p. 22, tondo nel testo).
:: letture ::
— Abruzzese A., Merce estetica e società di massa, Marsilio, Padova, 1973.
— Cabrera J., Cine: 100 años de
filosofía. Una introducción a la
filosofía a través del análisis de
películas,
1999; trad it. Da Aristotele
a Spielberg Capire la filosofia attraverso i film, Bruno
Mondadori, Milano, 2000.
— Dal Lago A., Descrizione di una battaglia, Il Mulino, Bologna, 1990.
— Dimitrijević V., La vita è un pallone rotondo, Adelphi Milano, 2000.
— Pivato S., Il pallone
prima del football, in Lanfranchi P. (a cura di), Il
calcio e il suo pubblico,
Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 1992.
— Soriano O., Rebeldes, soñadores y
fugitivos, 1987, trad. it. Ribelli, sognatori
& fuggitivi,
Manifestolibri, Roma, 1991.
:: visioni ::
— Pollack S., They Shoot Horses, Don't They?, Usa, Non si uccidono così anche i cavalli?, 01 Distribution, 2009.