L’attitudine alla classificazione è un
correlato della cultura scientifica moderna, ma si estende ormai ad
ogni aspetto della vita quotidiana. Collocare eventi ed esperienze
all’interno di una griglia ordinativa, in grado di produrre
senso sulla base di un sistema di valori che rispecchi i conflitti
culturali in atto, è il metodo che ha caratterizzato
l’organizzazione dei saperi e l’attribuzione di
significato ai vissuti della società di massa. Uno sport
come il baseball, autentica piattaforma identitaria del continente
nordamericano, è – in maniera solo apparentemente
contraddittoria – una mitologia fondata sulla significatività
della statistica. Nemmeno il calcio, la più compiuta e
condivisa forma di affabulazione metaforica nell’economia
della comunicazione planetaria, si sottrae all’esigenza di
dotarsi di mitologie dall’evidente portato tassonomico. La
fine del secolo XX e del II millennio, in tal senso, è stata
animata da una querelle che ha tenuto banco sulle pagine dei quotidiani
sportivi e nelle tribune televisive dedicate allo spettacolo
– e dunque alla pratica rituale – più
diffuso nel mondo. Una domanda spinosa ha appassionato milioni e
milioni di calciofili: Maradona è davvero meglio di
Pelè, come sostiene la popolare canzone che accolse el
pibe de oro al suo arrivo a Napoli il 5 luglio 1984? Oppure
la consolidata mitologia della perla nera
è destinata a prevalere?
La domanda può
apparire puerile, e forse priva di interesse, ma non è
così. Nemmeno la più attardata e testarda falange
del pensiero apocalittico può negare che il football
costituisca un fenomeno sociale imprescindibile per penetrare lo
spirito del tempo tardo-moderno. Piaccia o no, il gioco del pallone ha
caratterizzato il Novecento almeno quanto il cinema, sviluppando un
giro di affari che attualmente ha pochi paragoni, e orientando in
maniera decisiva gli sviluppi del medium televisivo. Il quesito su
Pelè e Maradona è dunque qualcosa di
più che un passatempo ozioso. Vediamo perché,
partendo da una sommaria ricostruzione della vicenda.
Nel 2000
la Fifa, il massimo organismo mondiale del calcio, decide di indire un
referendum via Internet per eleggere il giocatore del secolo, cosa che
equivale a dire – fuor d’ogni equivoco –
il più grande calciatore nella storia tipicamente
novecentesca di questo sport. Si prevede una vittoria netta di Edson
Arantes do Nascimiento, in arte Pelè, che già era
stato precedentemente premiato - ex aequo con il pugile Mohammed
Alì - quale miglior atleta tout court
del secolo XX. Tuttavia, la democrazia informatica gioca un brutto
scherzo agli imprevidenti vertici del calcio: a vincere nettamente con
il 53,6 % dei voti è infatti Diego Armando Maradona, il
fuoriclasse argentino nemico giurato dei potenti dirigenti Fifa,
Havelange e Blatter in testa, con i quali ha vissuto memorabili dissidi
di ordine calcistico, ma anche etico. A quel punto, la Fifa decide
frettolosamente di affiancare una “giuria di
esperti” al voto popolare, cambiando in corsa le regole
del gioco nel goffo tentativo di aggiustare il tiro e
attribuire il titolo al giocatore brasiliano, più gradito
all’establishment. Le polemiche divampano inevitabili:
Maradona attacca la Fifa, accusandola di aver mortificato il responso
del pubblico per favorire un calciatore più
“integrato”. Pelè si difende con una
certa tautologica acrimonia, sostenendo che tanto si sa che il
più grande è lui. La Fifa fa prima orecchie da
mercante, poi cede alle pressioni dell’opinione pubblica e
attribuisce salomonicamente il premio a entrambi. Scontentando tutti.
Sorvoliamo
sugli aspetti tecnici della questione, che riafferma
l’assurdo giuridico di un’istituzione dotata di
leggi proprie e che non riconosce altre autorità
all’infuori di sé. L’aspetto davvero
interessante di questa faccenda è invece legato allo scarto
che rivela tra potere e pubblico del calcio, una distanza che se
diventasse più sensibile potrebbe, in futuro, portare al
collasso questo enorme sistema mediatico. Perché il football
non è soltanto uno sport e nemmeno uno spettacolo in senso
tradizionale, quanto piuttosto una pratica che attraversa tutti i
linguaggi della comunicazione, toccando il quotidiano di un numero
sterminato di persone. Il motivo della popolarità del calcio
è che in esso si concentrano alcune funzioni simboliche che
non sono più visibili nelle altre pratiche sociali: il
conflitto diretto, il sentimento dell’identità
collettiva, l’appartenenza. Nel calcio, a differenza che in
politica, resta possibile dire “noi” e crederci.
Maradona è ancora invocato dai tifosi napoletani –
supporter della squadra in cui si è davvero realizzata la
sua esistenza sportiva – non solo per nostalgia, ma
perché ciò che lui ha fatto sui campi di gioco
continua a rappresentare un sentimento di affermazione collettiva che
nessun altro – dai divi della tv a quelli della politica
– ha mai nemmeno lontanamente eguagliato. Più che
un calciatore, Diego è un’icona. Incarna istanze
che non trovano espressione altrove: è mito che si fa carne
in una accezione disincantata – ma non poi troppo –
delle figure messianiche.
Il calcio è un racconto – se vogliamo,
un’epica moderna – che propone
una possibilità di interpretazione della vita. Ed i suoi
protagonisti sono eroi in senso strettamente
mitologico, poiché i loro corpi si caricano di simboli che
riempiono di senso i vissuti degli altri uomini. Lo scontro tra
Maradona e Pelè, che alcuni hanno interpretato come la
nietzscheana contrapposizione tra Dioniso e Apollo, può
dunque essere letto nei termini di un duello tecnico interno al gioco,
ma anche come l’indicatore sociale di un cambiamento che
investe la società nel suo complesso. Sapere se
Pelè sia più bravo di Maradona, o viceversa,
è un falso problema: a chi sostiene che le statistiche
dimostrino la superiorità del brasiliano, si può
rispondere che il dato numerico non spiega la complessità
delle cose. Certo, in assoluto Pelè ha segnato
più di Maradona, ma è anche vero che lo ha fatto
all’interno di un sistema calcistico come quello brasiliano
tra gli anni Cinquanta e Settanta, imparagonabile a quelli europei sul
piano dell’attenzione difensiva e del rigore tattico del
gioco. Ancora: Pelè ha giocato un po’
più a lungo e in maniera sostanzialmente più
continuativa, ma in anni in cui il football era certo meno stressante
sul piano agonistico e psicologico. Infine: Pelè ha vinto
tre mondiali contro uno di Maradona, ma è anche vero che
quel torneo in Messico nel 1986 l’argentino l’ha
vinto praticamente da solo, capitanando un’equipe
nell’insieme dotata di valori tecnico-agonistici piuttosto
ordinari, se non addirittura mediocri, mentre il brasiliano ha sempre
goduto del supporto di squadre straordinarie, nell’economia
delle quali non sempre era lui a identificare il grado più
elevato di qualità (basti pensare ai campionati mondiali di
Svezia 1958 e Cile 1962, vinti dalla selezione brasiliana soprattutto
grazie alle geniali performance di Garrincha).
Nel gioco dei
paragoni ogni argomento può essere rovesciato nel suo
contrario, poiché il calcio è uno sport di
squadra e non presenta parametri assoluti. Per questo motivo la
classifica dei “100 Greatest Ever Footballers”,
proposta nel 2007 dall’Association of Football Statisticians,
in cui Maradona si colloca “solo” sesto, non coglie
il senso profondo della fenomenologia di Diego, la sua dimensione trascendente
rispetto al disincanto della modernità. Il valore
individuale di un calciatore, infatti, è riconducibile tanto
alla classe del singolo quanto alla sua capacità di produrre
“mito”, di “comunicarsi”.
Pelè ha costruito la propria immagine negli anni Cinquanta e
Sessanta, sfruttando l’epicità della stampa
sportiva – che allora costituiva ancora la componente
maggioritaria dell’informazione – ma anche le prime
fascinazioni dei cinegiornali e poi della tv, legate alla loro
episodicità, al trasformare in ombre incantate le movenze di
danza del giocatore carioca. Maradona è, invece, il
protagonista di una scena mediatica più avanzata
tecnologicamente, in cui la televisione diventa il vero luogo di
appartenenza del calcio, un habitat simbolico dove il giocatore si
esibisce ininterrottamente sotto l’occhio di un microscopio
elettronico che ne ingrandisce e ne seziona i gesti, evidenziandoli
all’estremo. Con Maradona, dunque, il grado di mediazione
narrativa si riduce fino a coincidere con la pratica dello sguardo
postmoderno, che pone il ruolo dello spettatore al centro della
costruzione mitologica.
Se quella del football è
una partita che si gioca nello spazio del video, nel 2000 il referendum
della Fifa non ci ha forse dato il nome del più grande
calciatore del mondo, ma ci ha certo mostrato come funziona il mondo
del calcio sul piano della comunicazione. Maradona vince tra chi
consuma il calcio “dal basso” e in una cornice
tecnologica assai più partecipativa e
“aperta” che in passato, mentre Pelè
è il campione “istituzionale” di quelle
generazioni ancora affascinate dal canto dei poeti di massa, ovvero di
quei giornalisti che infioravano le imprese dei moderni eroi con
aggettivi e iperboli, e che tuttavia non potevano restituire (come
invece ha fatto la tv ed oggi fa ancor più il web) la
visione “pornografica” del gesto atletico, la
prossimità fisica ad esso, la partecipazione alla moderna
sacralità del rito. La causa del primato di Maradona,
sistematicamente superato da Pelè nelle classifiche
organizzate da istituzioni come l’IFFHS e da riviste
ufficiali come World Soccer, coinvolge e
appassiona, invece, il più ampio pubblico degli appassionati
di calcio, che mettono in discussione
l’attendibilità e la stessa funzione pubblica dei
grandi narratori mediatici a favore di un inedito protagonismo del
pubblico e della sua competenza. Per questo motivo la sfida tra
Maradona e Pelè è anche la sfida tra una
generazione al potere e un’altra che lo sta conquistando, o
che forse l’ha già fatto, sostituendo le mitologie
del passato con le proprie e prospettando una nuova visione
del mondo.