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© quadernidaltritempi.eu no. 26 - 2010

 
Maradona il divin briccone /
di Sergio Brancato
FENOMENOLOGIA DI DIEGO:
MARADONA È MEGLIO DI PELÈ? PROBABILMENTE SÌ

palloneL’attitudine alla classificazione è un correlato della cultura scientifica moderna, ma si estende ormai ad ogni aspetto della vita quotidiana. Collocare eventi ed esperienze all’interno di una griglia ordinativa, in grado di produrre senso sulla base di un sistema di valori che rispecchi i conflitti culturali in atto, è il metodo che ha caratterizzato l’organizzazione dei saperi e l’attribuzione di significato ai vissuti della società di massa. Uno sport come il baseball, autentica piattaforma identitaria del continente nordamericano, è – in maniera solo apparentemente contraddittoria – una mitologia fondata sulla significatività della statistica. Nemmeno il calcio, la più compiuta e condivisa forma di affabulazione metaforica nell’economia della comunicazione planetaria, si sottrae all’esigenza di dotarsi di mitologie dall’evidente portato tassonomico. La fine del secolo XX e del II millennio, in tal senso, è stata animata da una querelle che ha tenuto banco sulle pagine dei quotidiani sportivi e nelle tribune televisive dedicate allo spettacolo – e dunque alla pratica rituale – più diffuso nel mondo. Una domanda spinosa ha appassionato milioni e milioni di calciofili: Maradona è davvero meglio di Pelè, come sostiene la popolare canzone che accolse el pibe de oro al suo arrivo a Napoli il 5 luglio 1984? Oppure la consolidata mitologia della perla nera è destinata a prevalere?
La domanda può apparire puerile, e forse priva di interesse, ma non è così. Nemmeno la più attardata e testarda falange del pensiero apocalittico può negare che il football costituisca un fenomeno sociale imprescindibile per penetrare lo spirito del tempo tardo-moderno. Piaccia o no, il gioco del pallone ha caratterizzato il Novecento almeno quanto il cinema, sviluppando un giro di affari che attualmente ha pochi paragoni, e orientando in maniera decisiva gli sviluppi del medium televisivo. Il quesito su Pelè e Maradona è dunque qualcosa di più che un passatempo ozioso. Vediamo perché, partendo da una sommaria ricostruzione della vicenda.
Nel 2000 la Fifa, il massimo organismo mondiale del calcio, decide di indire un referendum via Internet per eleggere il giocatore del secolo, cosa che equivale a dire – fuor d’ogni equivoco – il più grande calciatore nella storia tipicamente novecentesca di questo sport. Si prevede una vittoria netta di Edson Arantes do Nascimiento, in arte Pelè, che già era stato precedentemente premiato - ex aequo con il pugile Mohammed Alì - quale miglior atleta tout court del secolo XX. Tuttavia, la democrazia informatica gioca un brutto scherzo agli imprevidenti vertici del calcio: a vincere nettamente con il 53,6 % dei voti è infatti Diego Armando Maradona, il fuoriclasse argentino nemico giurato dei potenti dirigenti Fifa, Havelange e Blatter in testa, con i quali ha vissuto memorabili dissidi di ordine calcistico, ma anche etico. A quel punto, la Fifa decide frettolosamente di affiancare una “giuria di esperti” al voto popolare, cambiando in corsa le regole del gioco nel goffo tentativo di aggiustare il tiro e attribuire il titolo al giocatore brasiliano, più gradito all’establishment. Le polemiche divampano inevitabili: Maradona attacca la Fifa, accusandola di aver mortificato il responso del pubblico per favorire un calciatore più “integrato”. Pelè si difende con una certa tautologica acrimonia, sostenendo che tanto si sa che il più grande è lui. La Fifa fa prima orecchie da mercante, poi cede alle pressioni dell’opinione pubblica e attribuisce salomonicamente il premio a entrambi. Scontentando tutti.
Sorvoliamo sugli aspetti tecnici della questione, che riafferma l’assurdo giuridico di un’istituzione dotata di leggi proprie e che non riconosce altre autorità all’infuori di sé. L’aspetto davvero interessante di questa faccenda è invece legato allo scarto che rivela tra potere e pubblico del calcio, una distanza che se diventasse più sensibile potrebbe, in futuro, portare al collasso questo enorme sistema mediatico. Perché il football non è soltanto uno sport e nemmeno uno spettacolo in senso tradizionale, quanto piuttosto una pratica che attraversa tutti i linguaggi della comunicazione, toccando il quotidiano di un numero sterminato di persone. Il motivo della popolarità del calcio è che in esso si concentrano alcune funzioni simboliche che non sono più visibili nelle altre pratiche sociali: il conflitto diretto, il sentimento dell’identità collettiva, l’appartenenza. Nel calcio, a differenza che in politica, resta possibile dire “noi” e crederci. Maradona è ancora invocato dai tifosi napoletani – supporter della squadra in cui si è davvero realizzata la sua esistenza sportiva – non solo per nostalgia, ma perché ciò che lui ha fatto sui campi di gioco continua a rappresentare un sentimento di affermazione collettiva che nessun altro – dai divi della tv a quelli della politica – ha mai nemmeno lontanamente eguagliato. Più che un calciatore, Diego è un’icona. Incarna istanze che non trovano espressione altrove: è mito che si fa carne in una accezione disincantata – ma non poi troppo – delle figure messianiche.

Il calcio è un racconto – se vogliamo, un’epica moderna – che propone una possibilità di interpretazione della vita. Ed i suoi protagonisti sono eroi in senso strettamente mitologico, poiché i loro corpi si caricano di simboli che riempiono di senso i vissuti degli altri uomini. Lo scontro tra Maradona e Pelè, che alcuni hanno interpretato come la nietzscheana contrapposizione tra Dioniso e Apollo, può dunque essere letto nei termini di un duello tecnico interno al gioco, ma anche come l’indicatore sociale di un cambiamento che investe la società nel suo complesso. Sapere se Pelè sia più bravo di Maradona, o viceversa, è un falso problema: a chi sostiene che le statistiche dimostrino la superiorità del brasiliano, si può rispondere che il dato numerico non spiega la complessità delle cose. Certo, in assoluto Pelè ha segnato più di Maradona, ma è anche vero che lo ha fatto all’interno di un sistema calcistico come quello brasiliano tra gli anni Cinquanta e Settanta, imparagonabile a quelli europei sul piano dell’attenzione difensiva e del rigore tattico del gioco. Ancora: Pelè ha giocato un po’ più a lungo e in maniera sostanzialmente più continuativa, ma in anni in cui il football era certo meno stressante sul piano agonistico e psicologico. Infine: Pelè ha vinto tre mondiali contro uno di Maradona, ma è anche vero che quel torneo in Messico nel 1986 l’argentino l’ha vinto praticamente da solo, capitanando un’equipe nell’insieme dotata di valori tecnico-agonistici piuttosto ordinari, se non addirittura mediocri, mentre il brasiliano ha sempre goduto del supporto di squadre straordinarie, nell’economia delle quali non sempre era lui a identificare il grado più elevato di qualità (basti pensare ai campionati mondiali di Svezia 1958 e Cile 1962, vinti dalla selezione brasiliana soprattutto grazie alle geniali performance di Garrincha).
Nel gioco dei paragoni ogni argomento può essere rovesciato nel suo contrario, poiché il calcio è uno sport di squadra e non presenta parametri assoluti. Per questo motivo la classifica dei “100 Greatest Ever Footballers”, proposta nel 2007 dall’Association of Football Statisticians, in cui Maradona si colloca “solo” sesto, non coglie il senso profondo della fenomenologia di Diego, la sua dimensione trascendente rispetto al disincanto della modernità. Il valore individuale di un calciatore, infatti, è riconducibile tanto alla classe del singolo quanto alla sua capacità di produrre “mito”, di “comunicarsi”. Pelè ha costruito la propria immagine negli anni Cinquanta e Sessanta, sfruttando l’epicità della stampa sportiva – che allora costituiva ancora la componente maggioritaria dell’informazione – ma anche le prime fascinazioni dei cinegiornali e poi della tv, legate alla loro episodicità, al trasformare in ombre incantate le movenze di danza del giocatore carioca. Maradona è, invece, il protagonista di una scena mediatica più avanzata tecnologicamente, in cui la televisione diventa il vero luogo di appartenenza del calcio, un habitat simbolico dove il giocatore si esibisce ininterrottamente sotto l’occhio di un microscopio elettronico che ne ingrandisce e ne seziona i gesti, evidenziandoli all’estremo. Con Maradona, dunque, il grado di mediazione narrativa si riduce fino a coincidere con la pratica dello sguardo postmoderno, che pone il ruolo dello spettatore al centro della costruzione mitologica.
Se quella del football è una partita che si gioca nello spazio del video, nel 2000 il referendum della Fifa non ci ha forse dato il nome del più grande calciatore del mondo, ma ci ha certo mostrato come funziona il mondo del calcio sul piano della comunicazione. Maradona vince tra chi consuma il calcio “dal basso” e in una cornice tecnologica assai più partecipativa e “aperta” che in passato, mentre Pelè è il campione “istituzionale” di quelle generazioni ancora affascinate dal canto dei poeti di massa, ovvero di quei giornalisti che infioravano le imprese dei moderni eroi con aggettivi e iperboli, e che tuttavia non potevano restituire (come invece ha fatto la tv ed oggi fa ancor più il web) la visione “pornografica” del gesto atletico, la prossimità fisica ad esso, la partecipazione alla moderna sacralità del rito. La causa del primato di Maradona, sistematicamente superato da Pelè nelle classifiche organizzate da istituzioni come l’IFFHS e da riviste ufficiali come World Soccer, coinvolge e appassiona, invece, il più ampio pubblico degli appassionati di calcio, che mettono in discussione l’attendibilità e la stessa funzione pubblica dei grandi narratori mediatici a favore di un inedito protagonismo del pubblico e della sua competenza. Per questo motivo la sfida tra Maradona e Pelè è anche la sfida tra una generazione al potere e un’altra che lo sta conquistando, o che forse l’ha già fatto, sostituendo le mitologie del passato con le proprie e prospettando una nuova visione del mondo.

 

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