Gli scacchi, ovvero quando il gioco si fa duro | di Livio Santoro | |
E
quest’immagine si riproduce nell’opera del poeta
argentino, si riproduce nella Biblioteca di Babele, si riproduce
nell’imprevedibilità del Libro di Sabbia, nelle
volute nascoste di quel labirinto che è la vita.
È tutto dentro una piccola scacchiera, allora, che sia una
mano o un’altra a muovere i pezzi non importa, le
possibilità si approssimano all’infinito. Ecco
perché quello degli scacchi è un gioco che nel
tempo ha assunto le fattezze del luogo in cui si è
sostanziato. Perché ha sempre voluto essere immagine
concreta delle innumerevoli possibilità astratte che
rappresenta nella sua irritante vastità. Le figure delle
pedine corrispondono a quelle mondane. Prima che gli scacchi fossero
gli scacchi di oggi, si chiamavano shatranj (derivazione
del chatrang indiano), era il secolo VIII dopo
Cristo ed eravamo in Persia: al posto della regina c’era il
Ministro, in luogo delle torri c’erano i carri, gli alfieri
non erano altro che quattro elefanti. Poi, quando il gioco è
passato ad essere vezzo della cavalleria europea, e siamo nel Medioevo,
i pezzi si sono trasformati per adattarsi alle figure prossime della
realtà circostante, ed è comparsa la regina,
grazie al silenzioso potere delle sovrane medievali d’Europa.
Ecco che sono apparsi gli alfieri (vescovi nella tradizione inglese)
figura più vicina all’immaginario europeo rispetto
agli esotici pachidermi proboscidati mediorientali. Anche le regole
sono cambiate nel tempo, ma ne è rimasta tra le altre, una.
La regola del soggetto, la si potrebbe chiamare adesso. Eccola: un
pedone, il pezzo più debole degli scacchi, tanto debole da
non essere nemmeno chiamato pezzo, ha in sé un potere
immenso, può attraversare la scacchiera, arrivare
dall’altra parte di quello specchio immaginario ed infine
decidere in quale forma voler rinascere (ad esclusione del re,
altrimenti non vi sarebbero più regole valide nel gioco).
Questa regola si chiama Promozione: è
l’autodeterminazione del singolo di cui si parlava sopra, la
stessa autodeterminazione che rende gli scacchi minacciosi per i regimi
autoritari, la stessa autodeterminazione che è spesso un
fardello troppo pesante per l’uomo occidentale moderno, che
lo riduce alla schiavitù della follia, basta leggere
Vladimir Nabokov, e la storia di Lužin (Nabokov 1930). Forse pensava
anche a questo François-André Danican Philidor,
uno dei più importanti innovatori della teoria scacchistica
occidentale, nel Millesettecento, quando sosteneva: “I pedoni
sono l’anima degli scacchi”. Le regole del gioco
fanno il paio con le regole della storia, si adeguano alle dinamiche
contestuali delle differenti situazioni. Alla fine di questo tragitto
si trova allora quella sfida che più di tutto ripone
l’uomo nell’evidenza dell’infinito, ossia
dove non si sa che cosa si sia veramente. È la morte
ciò di cui si parla. Ingmar Bergman (1957) ha fatto della
vita dell’uomo una partita a scacchi, Antonius Block a
giocare con la Morte, in una tenzone irrisolvibile in cui
l’uomo non avrebbe potuto far altro che perdere, che restare
soggiogato dall’infinito personificato, quello stesso
infinito che passa sotto le mentite spoglie della fine di tutte le
cose: la morte (nonostante nel film imbrogli al gioco
l’avversario umano, essa è pur sempre la morte, o
forse lo è anche per questo). | ||
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