Gioco terribile, gioco che mette
l’uomo in condizioni di sentirsi soggetto, e di farlo nella
relazione con l’altro, con se stesso. Sarà anche
per questo, forse, che altri regimi totalitari, quello sovietico nella
fattispecie, hanno tentato un’altra via per annullare
l’immenso potere degli scacchi, la via
dell’assimilazione. Come a dire che ciò che non
può essere proibito, ebbene, che sia reso obbligatorio,
strumento del regime e livellamento verso l’alto delle
intelligenze individuali. E sì che la scuola sovietica di
scacchi era una vera e propria società ad intelligenza
diffusa, fatta di un concilio di Gran Maestri più simili a
monaci benedettini che a liberi pensatori, tutti intenti nella ricerca
delle partite, nello studio della tradizione, del passato di un gioco
in cui ogni partita è un libro: magari l’incipit
è lo stesso, ma dal secondo capitolo in poi si possono
scegliere delle strade in grado di stravolgere un intero schema
narrativo. Quando un regime politico ha invece
l’ardire di definirsi democratico, quando affida agli
individui la tremenda promessa di potersi autodeterminare, allora gli
scacchi si fanno forti di un potere ancora più grande di
quello del controllo. È così che nascono le
storie di Bobby Fisher e delle sue bizzarre teorie cospirazioniste,
è così che nascono le storie di Paul Morphy. Come
se non potendo tenere racchiusi tutti i possibili finali di una storia,
questi stessi finali agiscano come un moltiplicatore di prospettive,
capace di destabilizzare anche l’intelletto più
solido ed equilibrato. La storia degli scacchi si accompagna con
costanza a quella della pazzia, la storia della pazzia ha come
interlocutore privilegiato l’insondabile,
l’infinito. Borges disse, per bocca di un eresiarca di Uqbar,
“gli specchi e la copula sono abominevoli, perché
moltiplicano il numero degli uomini” (1944, p. 7). Per Borges
gli specchi, i libri, e, infine, gli scacchi sono tutti strumenti come
lo è l’Aleph, racchiudono l’infinito e
ne fanno mostra all’uomo. È stato
calcolato (Peterson 1996) che una partita di scacchi contempli
10¹²° posizioni differenti (per rendere
questa potenza un numero scritto per intero si provi a scrivere un uno
e subito dopo centoventi volte lo zero), un numero incommensurabile se
si pensa che tutto è racchiuso in un mondo fatto di
sessantaquattro caselle e trentadue figure intagliate nel legno.
È risaputa la storiella del filosofo persiano che dopo aver
battuto il proprio sovrano, durante una partita di scacchi, si
sentì dire dal re “chiedimi quello che
vuoi”. Per tutta risposta l’avveduto filosofo
chiese un chicco di riso per la prima casella, due per la seconda,
quattro per la terza e così a seguire raddoppiando il numero
dei chicchi di riso per ogni casella fino ad arrivare alla
sessantaquattresima. Il sovrano rise considerando la richiesta
irrisoria, fin quando non s’accorse che essa corrispondeva ad
un numero di chicchi di riso superiore a diciotto miliardi di miliardi
(18.466.744.073.709.551.615 per essere precisi), un numero
ragionevolmente immenso, una fortuna inesistente dal valore
inestimabile. “Il re […] aveva […]
ricevuto una lezione sui numeri elevati a potenza” (Shenk
2006, p. 25). Sessantaquattro sono le caselle degli scacchi, tante
quanti sono gli esagrammi dell’I Ching, Il Libro dei
Mutamenti, quel libro dove per il confucianesimo sono nascoste le
risposte e le possibilità del mondo intero. E quando i
numeri corrispondono, è sempre tutto più
affascinante, soprattutto se assieme ai numeri sono i colori, il bianco
ed il nero (lo Yin e lo Yang) nel nostro caso, a corrispondere. Gli
scacchi allora non sarebbero nulla di più che una gigantesca
metafora costruita attraverso il potere incommensurabile
dell’infinito, un infinito che si adagia sulle dinamiche
mondane, che le fa materia e possibilità concrete. Sempre
Borges ha sostenuto: “c’è un concetto
che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui
limitato impero è la pratica; parlo
dell’infinito” (Borges, 1932, p. 132).
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