Beacons of Ancestorship
di Tortoise Quindici anni di carriera per i Tortoise, bandiera del primo post-rock, band che lascia alla sola forza degli strumenti, senza gli orpelli del cantato, la sua eclettica teoria musicale.
Beacons of Ancestorship è la quintessenza di questa teoria. Ci vorrebbero undici recensioni, tante quanti sono i brani che lo compongono, e non una, per descrivere quest’album. Sì perché i Tortoise, sempre impegnati a non dare una versione unica del suonare, sembra che abbiano fatto dell’apertura delle prospettive una vocazione. Si faccia qualche esempio, traccia per traccia:
High class slim came floatin’ in è una sorta di reinvenzione del secondo garage,
Prepare your coffin dimostra una sincera continuità con il rock progressivo degli anni Settanta e Ottanta;
Northern something è una bizzarra samba rumorista; The fall of seven diamonds plus one è un tributo a metà strada tra lo slow-core, il folk ed il blues alle atmosfere polverose da film western;
Minors è un po’ un richiamo alle dissonanze che hanno fatto il post-rock, un po’ un graffiante omaggio alle chitarre del Nord Europa. Insomma, quello che i Tortoise vogliono dimostrare, è che se bisogna parlare di post-rock, che allora si parli realmente di una tradizione fatta della sequenza di diversi accenti, ma messi uno dopo l’altro, senza tutte quelle sovrapposizioni che eccedono nelle pretese di reinventare i generi. Ed ogni traccia, va da sé, ha al suo interno una coerenza fatta di salti, come a dire che, d’accordo, se pure all’interno di una sola partitura vanno messi più toni, che comunque lo si faccia così, operando per forti stacchi, in modo che si tengano ben distinte le cose, per come originariamente sono, legandole abilmente con legacci d’elettronica e di psichedelica, che non guasta mai.
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titolo Beacons of Ancestorship
di Tortoise
etichetta Thrill Jockey
distributore Self
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Mirrorball
di John Foxx e Robin Guthrie John Foxx è il vecchio padre degli Ultravox, Robin Guthrie (insieme a Will Heggie) è quello dei Cocteau Twins. Basterebbero questi due nomi per garantire la bontà di un disco. Doppia ed illustre firma per questo estatico album che porta il nome di
Mirrorball. Bisogna dire che il gioco qui proposto non è forse dei più innovativi, ma è doveroso anche sottolineare che la partita è proprio ben riuscita. I residui dell’elettronica nord europea che ha fatto la storia degli anni Ottanta vi resistono come un tappeto sottostante che accoglie delicato l’incedere di un contemplativo richiamo dal sapore dolcemente eucaristico, come nei cori dei monaci medioevali. Non è la prima volta che la tradizione del canto gregoriano ritorna nella musica dei nostri tempi, basterebbe far riferimento all’inarrivabile esperienza metafisica della Hilliard Ensemble, tuttavia quella è decisamente un’altra storia. In questo
Mirrorball, invece, è tutto più soffice, acquatico, tonalità leggermente messe in eco da un richiamo fatto al cielo. Ed il cielo, si sa, è dappertutto. Dunque che la terra stessa diventi questo cielo, come quella sfera di cristalli rifrangenti che offre il titolo al disco. Perché per raggiungere quel luogo lontano ed immateriale fatto di azzurro, non bisogna puntare solo verso una direzione, si deve tentare da ogni parte. Ed è questa quella vocazione mistica che accompagna la rifrazione degli specchi, a riportare verso l’alto una musica dal gusto tanto intimo come quello di una preghiera recitata sottovoce.
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titolo Mirrorball
di John Foxx e Robin
Guthrie
etichetta Matematica
Records/Universal
distributore Audioglobe
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Bitte Orca
di Dirty Projectors Diciamoci la verità, certe volte la musica, quando vuole formarsi attraverso i crismi di un genere che vuole definirsi colto o, comunque, non di largo consumo, commette un grosso errore. Nel caso dell’indie rock, genere per nascita di pubblico ristretto, il grosso errore consiste nell’eccesso di attenzione per la forma. Si dica in un altro modo: spesso il rock indipendente (in tutte le sue innumerevoli forme) si prende troppo sul serio. Sia perché non vuole confrontarsi con la tradizione della vulgata pop, sia perché, in un modo o nell’altro, tale confronto appare impossibile in ragione della solidità dei modelli di un’altra tradizione. Ma la storia, spesso, racconta che quando si segue con pedissequo rigore uno standard di produzione culturale, si rischia concretamente di cadere nel manierismo più sfrontato e più spocchioso. Proprio per questo
Bitte Orca, ultima fatica dei Dirty Projectors, band capitanata da Dave Longstreth, si pone come pietra di paragone di uno stile di far musica. Ironico, leggero e sfumato, questo disco sa anche regalare attimi dal profondo rigore compositivo, inserendo tra un coretto in stile r&b ed un falsetto improvvisato, le tonalità serene e pure della musica da camera. Non c’è che dire,
Bitte Orca riesce nell’intento di giocare goliardicamente con gli stilemi spesso troppo fossili di un genere che il più delle volte si auto esalta. E ci gioca recuperando proprio quei motivi da cui l’indie, nella sua impresa titanica di tracciare sentieri paralleli eppur distanti, tenta continuamente di distaccarsi. Dunque non bisognerà impressionarsi quando d’un tratto, ascoltando
Bitte Orca, si sentiranno motivetti alla Mtv delle quattro del pomeriggio: non è il televisore acceso, di là, in cucina, è l’indie che gioca col pop. |
titolo Bitte Orca
di Dirty Projectors
etichetta Domino
distributore Self
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