I MICROCOSMI DELL’IMPERO DEL SOLE di Roberto Paura |
Il
campo di internamento di Lunghua, che nella memoria reale di Ballard
viene assimilato a una “sudicia bidonville, lo slum di una township”
(Ballard, 2006b), diventa nella memoria filtrata dalla narrazione la
versione militarizzata di quei microcosmi così ricorrenti
nella sua produzione (complessi residenziali o turistici che siano).
Per Jim, il campo è
“l’università della vita”
senza la quale egli non sarebbe riuscito a venir fuori sano mentalmente
e fisicamente dagli anni di internamento: pur facendo del campo di
prigionia lo sfondo di un gioco per la sopravvivenza, Jim non perde il
contatto con la realtà della guerra, diversamente dagli
altri occidentali internati che – fedeli al loro stile di
vita – periranno presto o tardi per gli stenti e la
disillusione. È a Lunghua che avviene
l’evento-chiave della psicologia ballardiana, quella che
Riccardo Dalle Luche definisce: “la precoce distruzione della
sicurezza borghese [causata da] l'esperienza infantile della guerra e
dell'internamento nel lager giapponese” (Dalle Luche, 2001).
Jim impara nel campo la sconsolante verità del dover far
affidamento solo su se stesso, ed è una verità
che gli trasmette il Ballard ormai adulto che ricorda come nel campo
avesse imparato a vivere in modo indipendente dai suoi genitori,
genitori che nel romanzo (non a caso) sono rimossi.
L’indipendenza di Jim dal controllo dei genitori e in
generale dal controllo degli adulti del campo sarà
probabilmente l’esperienza alla base di uno dei
più inquietanti romanzi dell’autore, Un
gioco da bambini (1988). Lo stesso Ballard ricorda il
turbamento derivante dall’osservazione di come gli adulti
stessi, nel campo d’internamento, non offrissero la
protezione richiesta: “Vedevo adulti sotto
tensione, che è qualcosa che pochi bambini hanno
visto… e ciò è stato di grande
insegnamento – benché fosse alienante”
(Ballard, 2002). È per questo che Jim, nel romanzo, finisce
per diventare affetto da una sorta di “sindrome di
Stoccolma”, cercando nei giapponesi – formalmente e
sostanzialmente suoi nemici – i dispensatori di quella
sicurezza perduta. Del resto, la finzione ancora una volta messa su
dagli internati occidentali, per illudersi che il campo non sia poi
tanto dissimile dalle loro ville a Shanghai, non dura molto: le
conferenze, i concerti, le recite, gli incontri dei club e i corsi
della scuola da campo cessano con i primi bombardamenti americani,
l’inizio del razionamento e delle morti. Man mano, anche in
questo microcosmo la morte entra inesorabile, infrangendo le labili
speranze degli inglesi di tenerla fuori dalle loro vite come fosse un coolie
poco gradito. | ||
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