Il primo ragionamento porta lontano dai suoi presupposti, il
secondo ben si adegua alle biforcazioni che si intende seguire. La
preoccupazione di Meier era quella di far coincidere la
realtà naturale con la realtà culturale, e di
giustificare con questa identità l’esistenza di
dio, perché sarebbe proprio l’essenza divina del
progetto designante a garantire la leggibilità del mondo. Quella
di Borges era una preoccupazione inversa: l’uomo sarebbe
illeggibile, essere infinito, che al suo interno ha dio stesso, ma,
ovviamente, nella sola misura astrattiva e indefinita
dell’infinità. Dobbiamo decidere se
accettare Borges o se accettare Meier, se non accettare nessuno dei
due, o se accettare entrambi. Molto simile al nostro
è il vecchio problema della teodicea, la giustificazione del
male in terra connesso all’esistenza di dio. Anche qui ci
sono due termini che sembrano escludersi a vicenda. Secondo gli
epicurei la questione era sintetizzabile più o meno in
questo modo: posto che il male in terra esiste, dio potrebbe muoversi
verso il voler ed il poter estirparlo. Ora se vuole e non
può, o se non può né vuole estirpare
il male, ciò significa che dio è impotente, e la
qual cosa non apparterrebbe ai requisiti della divinità. Se,
invece, può ma non vuole, ciò significherebbe che
dio è invidioso, ed anche questo, va da sé, non
è tra gli attributi della divinità. Se vuole e
può, allora non vi è giustificazione
né spiegazione al male in terra. Invidia e impotenza sono
caratteristiche strettamente umane, che lo stesso dio (quello medievale
dei peccati capitali) ha messo all’indice. “C’è
un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male,
il cui limitato impero è la pratica; parlo
dell’infinito” (Borges, 1975, p. 123).
L’infinito che appartiene al tempo è
l’eternità, l’infinito che appartiene
allo spazio è, in Borges, il Libro di sabbia,
così come lo sono l’Aleph
(1952, pp. 150-170), la Biblioteca di Babele (1956,
pp. 69-78) e la parola Undr (1975, pp. 68-73)
(è quindi un infinito che si definisce anche nella misura
della frazione infinitesima nello spazio finito – come per
l’Aleph – per cui si definisce
infinito solo nella versione dell’indefinito). Dio e infinito
sono, dunque strettamente correlati l’uno
all’altro. Ed in Borges, la connessione tra questi due
termini esiste, ed è essa stessa a rendere possibile una
concezione dei termini dio ed infinito. La connessione è
l’uomo, che, in sostanza, ha in sé infinito e dio;
la connessione non è più il progetto divino che
sottende alla vita del mondo naturale. Crolla così la
discussione epicurea sulla teodicea, crolla ogni argomentazione sulla
sua esistenza o non esistenza perché dio è
l’uomo (e in quanto tale dio possiede caratteristiche umane),
e l’uomo è dio (e in quanto tale possiede
caratteristiche divine). Come in una striscia di Moebius, siamo tornati
al principio delle nostre parole, solo che i caratteri sono invertiti,
o meglio i personaggi della nostra storia non sono più due,
l’uomo e dio, ma il personaggio è uno:
l’uomo che è dio.
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