Di fronte alla metamorfosi
di Mont Saint-Michel, che nasce dall’incontro di spazi e
elementi diversi – il web, i progetti ingegneristici,
l’acqua, la sabbia, la stampa di informazione, la mia
curiosità, il piacere e il desiderio dei turisti, degli
uccelli e delle creature acquatiche che vivono della ricchezza di
questo luogo – vengono in mente le parole di Gilles Deleuze
che dipinge l’Isola come un “uovo
cosmico” dove “la creazione originaria resta
impigliata in una ri-creazione” e l’origine
è posticipata per sempre (Deleuze, 2004, pag. 13, T.d.A.).
L’anno zero della genesi comincia sul tetto di un
monte-diventato-isola, scrive Deleuze, da un promontorio che diventa
un’oasi: l’Ararat è lo spazio
sopravvissuto alle acque che avrebbe proiettato la vita al di fuori di
sé e salvato il mondo dall’apnea del diluvio.
Quindi nell’isola – che appartenga al mito o alle
rotte turistiche – è come se si concentrasse una
riserva d’energia, una speranza o, a seconda dei punti di
vista, il baratro di un misconoscimento che rischia di spingere troppo
in là sé stessa e coloro che la abitano. Facciamo
un salto e mettiamo da parte la sorte di Mont Saint-Michel. Pensiamo
per un momento all’isola della serie televisiva Lost.
I passeggeri del volo 815 della Oceanic Airlines, partito il 22
Settembre 2004 da Sidney in direzione Los Angeles, si schiantano su
un’isola vulcanica del Pacifico meridionale e per cinque
stagioni è come se fossero inghiottiti da una parentesi.
Niente e nessuno sa di loro perché nessuno, se non una
cerchia ristretta di personaggi misteriosi, è a conoscenza
dell’esistenza dell’Isola. D’altronde non
potrebbe essere diversamente visto che non esiste su nessuna mappa
geografica. Nell’episodio “316” (5x06,
18/2/2009 in USA) Eloise Hawking informa i superstiti che
l’Isola “è sempre in
movimento” e può essere raggiunta solo
attraversando “finestre” che si aprono per periodi
di tempo limitati e in luoghi diversi del mondo. Che strana questa
cartografia che parla di una mappa che aspetta sempre di essere
disegnata. Schiacciati ai margini di un planisfero appiattito sul
pavimento di una cripta, i protagonisti osservano un pendolo gigantesco
oscillare sugli oceani del pianeta e azzardare le coordinate
geografiche della prossima, possibile manifestazione
dell’Isola. I calcoli scarabocchiati su una lavagna a poca
distanza da Jack confermano la realtà di questa cartografia
inaffidabile: quando l’Isola c’è
è anche già oltre se stessa, in migrazione verso
un altrove che si muove con Lei e non esiste prima
di Lei. L’isola è causa ed effetto di se stessa,
un atlante in divenire, un buco nero che attrae i protagonisti, gli
interessi scientifici ed economici di organizzazioni oscure come la Dharma
Initiative, la Hanso Foundation e le Widmore
Industries, nonché la curiosità di
milioni di spettatori. Come afferma Desmond Hume alla fine della
seconda stagione: “non esiste il mondo esterno”,
là fuori “non c’è
niente” (2x23, Live Together, Die Alone,
24/05/2006 in USA). Sembra che anche quella di Lost
sia la storia di un rinnovamento e di una seconda origine che nasce da
un singhiozzo della geografia, da uno spaesamento, da
un’interruzione del flusso – degli eventi, delle
rotte turistiche, delle vite dei personaggi, delle correnti marine e
non che proteggono l’isola da occhi indiscreti. I
sopravvissuti non saranno praticamente mai più ritrovati e
coloro che torneranno alla vita prima dell’incidente, come
Michael e suo figlio Walt, continueranno a vivere su un’isola
o su un’appendice dell’Isola. La pagina di Lostpedia
ci informa infatti che l’Isola non è solo una
realtà fisica, ma la totalità di una
serie di rotte possibili che “procedono oltre il
suo territorio geografico” spingendosi fino al
“mondo esterno” (Lostpedia, voce
“Island”).
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