Vivendo narrazioni, che sono solo alcune delle molteplici attualizzazioni possibili dell’esperienza di un universo finzionale come il MAV, si scherza con l’immaginario collettivo, scomponendolo liberamente, combinandolo e ricombinandolo, assecondando parametri spiazzanti, e attribuendo una collocazione inusuale alle concezioni del reale. Poiché i media ridelineano l’idea della realtà, e, nel modo in cui alterano l’equilibrio tra i sensi, riplasmano anche gli utenti, il gioco, come qualunque medium d’informazione, prolungamento dell’individuo o del gruppo, attribuisce una nuova configurazione a quelle parti non delimitate dai confini “topologici” della pelle (Longo, p. 58), ancora inestese (cfr. McLuhan, p. 266), di quel corpo che è “nel mondo come il cuore nell’organismo [e che] mantiene continuativamente in vita lo spettacolo visibile [ma anche invisibile], lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema” (Merleau-Ponty, p. 277).
Gli orizzonti artistico, tecnologico e ludico, nel trasformare i musei in spazi performativi, rendono attuabili esperienze concrete su piani immaginari e traducono la fantasia in dimensione esplorabile, sottolineando la consapevolezza, da parte della scienza, della presenza del gioco negli esperimenti su modelli di situazioni per il resto inosservabili (cfr. McLuhan, p. 266). Si ribadisce, inoltre, che un’opera d’arte, o qualsiasi forma di produzione culturale, comunque la si voglia definire, in grado di esprimere meccaniche e pulsioni dei desideri individuali e collettivi, non ha esistenza né funzione se non nei suoi effetti sugli uomini che la contemplano, o che la consumano, e che lo spazio non è “l’ambito (reale o logico) in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. […] E questo perché lo spazio è un certo possesso del mondo da parte del […] corpo, una certa presa del […] corpo sul mondo” (Merleau-Ponty, pp. 326, 334).
La fantasmagoria spettacolare della virtualità digitale, con la sua inclinazione a trasformare ogni informazione in piacere, produce, nel MAV, un disvelamento del passato, che, nelle sue sembianze fascinose e nostalgiche, è finalizzato alla conservazione della memoria e alla traduzione della tradizione, alla trasformazione, cioè, di un tempo trascorso de-formato, ricostituito tra videoproiezioni, ricostruzioni ambientali ed elaborazioni fantastiche degli spettatori. Questa volta la simulazione indefinita, o meglio, l’apparenza né vera né falsa che sostanzia la riproduzione digitale ha recuperato quanto vi era di più prezioso nelle rovine imperiali, residui di forma antica come non se ne producono più, utopie, immagini del tempo perduto “alla ricerca del quale l’arte [in questo caso insieme alla tecnologia] non rinuncia” (Augé, 2004, p. 99). I resti archeologici, quintessenza del paesaggio come un cielo stellato, offrono allo sguardo lo spettacolo del tempo nelle sue diverse profondità, che aggiunge all’immemorabile tempo geologico i tempi molteplici dell’esperienza umana (cfr. ibidem, p. 71).
|