Drop
di Soft Machine C’è chi penserà, ecco l’ennesimo live dei Soft Machine, che poco o nulla aggiunge alla già corposa discografia dal vivo della formazione classica, per intenderci quella di
Third e Fourth, e delle sue successive molteplici mutazioni. E invece no, questo
Drop ha tutte le carte per entrare di diritto nel pacchetto di “obbligati” che ogni buon
softmachiniano dovrebbe sempre tenersi a portata di mano. Ma andiamo con ordine, la registrazione in questione risale a un tour tedesco dell’autunno 1971: a quei tempi accanto ai veterani Mike Ratledge, Hugh Hopper ed Elton Dean era già subentrato a Robert Wyatt, il giovane batterista jazz Phil Howard di nazionalità australiana. Con Howard, i Soft Machine incideranno nel dicembre di quell’anno l’album
Fifth, ma il batterista parteciperà solo alla prima parte delle registrazioni per poi venire allontanato da Ratledge e Hopper e rimpiazzato dal più ortodosso John Marshall. Motivo: divergenze musicali. Come si evince dal documentario dedicato a Elton Dean
Psychic Warrior curato da Aymeric Leroy, è lo stesso sassofonista in un’intervista a raccontare del licenziamento dopo solo sei mesi di attività di Howard: messo alla porta perché “suonava troppo free”. La sua “colpa”? Una spiccata attitudine all’improvvisazione poco congeniale alle solide strutture dei brani pensati da Ratledge e Hopper e poi, per dirla tutta, il sodalizio free jazz Howard-Dean (entrambi avevano precedentemente suonato in duo) rischiava di snaturare il sound originale del gruppo e di mettere in un angolo la vecchia guardia. La realtà è che
Drop è una delle più felici incarnazioni della macchina soffice: non c’è solo il drumming energico e pirotecnico di Howard a mutare lo scenario e a muovere la musica verso lidi prima quasi sconosciuti, c’è anche un maggiore utilizzo delle tastiere (qui Dean si alterna tra saxello, contralto e piano elettrico) a rendere i brani più pastosi, tesi e taglienti. La scaletta del concerto, poi, è memorabile e offre all’ascoltatore un ventaglio di climi e interplay davvero sublimi: da
All White a Slightly All The Time, da As If a Pigling Bland. Senza contare, infine, che
Drop è al momento l’unica testimonianza ufficiale live dei Soft Machine con Howard.
Il cd è accompagnato da ultracompetenti note di copertina firmate da Steve Lake.
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titolo Drop
di Soft Machine
etichetta Moonjune
Records
distributore Ird
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Rue Victor Massé
di Ray Warleigh L’australiano Warleigh trasferitosi a Londra nel 1960, torna a incidere a proprio nome quarant’anni dopo il suo primo album (Ray Warleigh’s First Album, 1968). I motivi di un così lungo intervallo sono due, il primo è che già sul finire degli anni Sessanta si era conquistato sul campo la fama di session man di primo rango e da allora ha trascorso buona parte del suo tempo a incidere un po’ con tutti, da Nick Drake e Bill Fay a Michael Gibbs e Mike Westbrook fino alla Dedication Orchestra. Il secondo motivo è che, essendo un perfezionista, non ha mai voluto pubblicare lavori anche solo minimamente insoddisfacenti dal suo punto di vista. La sede prescelta per questo ritorno a sorpresa nelle vesti di titolare, è a sua volta inconsueta poiché l’etichetta Psi è in pratica una costola della Emanen, label da sempre dedita alla diffusione di performance musicali che risultano spesso intransigenti nel nome dell’assoluta libertà. Così, ecco un signore settantenne dotato di timbro sopraffino e squisita musicalità, decidere, come un coraggioso e abile trapezista, di lanciarsi senza rete nel vuoto, suonando senza premeditazioni, in assoluta libertà. Rompe gli indugi in compagnia di un raffinato percussionista, Tony Marsh, altro veterano della scena inglese, e propone una sequenza di liriche improvvisazioni e non cover di grandi successi come nel primo disco, che si apriva addirittura con
The Look of Love di Burt Bacharach. Qui viene reinventato un solo standard, la classicissima
I Fall In Love Too Easily. L’aspetto più sorprendente di questa interpretazione è che non si discosta molto nell’approccio dai restanti brani, improvvisazioni che privilegiano tutte il libero fluire di temi melodici. Vale per le intimistiche
Blues and e Inner Ray, ma anche per le più animate Nothing but,
Prayer ed EnFin. Sono le tracce in cui si ammira il timbro pieno del contralto di Warleigh. Dove invece è impegnato al flauto, l’astrazione cresce, fatta eccezione per la nervosa
Standards and Blues. Un’alternanza di atmosfere che dona grande fascino all’insieme. |
titolo Rue Victor Massé
di Ray Warleigh
etichetta Psi Records
distributore Jtd
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The Modern Sound of Harry Beckett
di Harry Beckett Prodotto da Adrian Sherwood, padre indiscusso della musica dub in terra britannica,
The Modern Sound of Harry Beckett è uno degli esempi più riusciti di crossover tra jazz e dub, drum’n’bass, reggae e calypso. Il titolare dell’operazione, Harry Beckett, è un grandissimo trombettista di origini caraibiche: classe 1936, insieme a Ian Carr, la tromba del Brit-Jazz. Non è la prima volta che Beckett si mette in gioco, calandosi in imprese che battono ogni gap generazionale. Lo ha fatto negli anni Ottanta, mettendosi a suonare con i Jazz Warriors guidati dal sassofonista Courtney Pine, allora poco più che ventenne, o, più tardi, con i Working Week di
Venceremos. Qui ritorna alla grande in un contesto “giovane” insieme a Skip McDonald, Dave Wright, Orphy Robinson, Junior Delgado e altri a infiorare i ritmi dub e calypso della On-U Sound con i suoi perfetti assoli sornioni, sempre al limite dell’understatement. Il timbro soffice della sua tromba e l’incedere un po’ indolente delle sue escursioni sono un marchio di fabbrica che Beckett ha applicato con rigore qualunque fosse il contesto: dal mainstream di Ronnie Scott e John Dankworth all’afro jazz di Dudu Pukwana. Beckett ha davvero suonato con tutti i grandi compositori/solisti dell’epoca d’oro del jazz d’oltremanica come, ad esempio, Graham Collier, Michael Garrick, John Surman, Neil Ardley, Mike Westbrook, Stan Tracey, lasciando ovunque il segno. E qui sembra di essere tornati ai bei tempi degli “amalgam years” quando il jazz britannico flirtava con rock, blues e folk: un crossover ante litteram che proprio in Beckett aveva uno dei suoi più dotati interpreti. Tra i brani più riusciti: Something Special, Fantastic Things e Rise&Shine (Cry of Triumph). Quest’ultimo è la rivisitazione in chiave dub di una composizione di Beckett (Cry of Triumph) contenuta in
Themes for Fega, sua terza prova solistica risalente al 1972. E sembra davvero che il tempo si sia fermato e che non siano passati quasi quarant’anni tra le due versioni. A riprova della straordinaria modernità di questo artista. |
titolo The Modern Sound of Harry Beckett
di Harry Beckett
etichetta On-U Sounds
distributore Onusoundrecords
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