The Crying Light
di Anthony and the Johnsons Antony è Antony Hegharty. I
Johnsons sono il suo seguito di musicisti, così chiamati in onore di Marsha P.
Johnson, un transessuale della New York degli anni Settanta e Ottanta impegnato
nella lotta politica per i diritti della comunità gay. Venne trovato morto
nell’Hudson Marsha Johnson: chi dice suicidio, chi dice altro. Ma resta la
profonda commozione che desta un corpo livido tra i flutti. La musica di Antony
è la stessa commozione, la stessa profondità del fiume, la stessa passione
macerata dalla storia dello stigma. Si immagini un eunuco… no, si immagini un
angelo, o meglio, si immagini un androgino… no, forse nemmeno questo. Per
immaginarlo, semplicemente si ascolti Antony. The Crying Light è il terzo
album per Antony and the Johnsons, è la terza perla fatta del pathos più
profondo, di quel sentimento etereo che fuoriesce vibrando dalla gola, quasi un
pianto (quando si deve accostare quella di Antony ad una voce celebre del
passato si fa il nome, tra gli altri, di Nina Simone). Dedicato idealmente a
Kazuo Ohno, il centenario ballerino giapponese che appare nella posa grottesca
della copertina, The Crying Light parla con la leggerezza di un’estasi
umbratile, si misura con le profondità nascoste delle malinconie più intime, con
gli spettri inconsistenti di una nota di vento. Parlarne potrebbe sembrare quasi
superfluo, tanto è completo ed equilibrato il disco. Varrebbe porre l’attenzione
sulla maturità compositiva, sulla saggezza pianistica, sulla sottigliezza dei
violini? Certamente varrebbe, basta far riferimento alla disarmante traccia
Epilepsy is Dancing. Tuttavia The Crying Light andrebbe solamente
lasciato suonare, fidandosi della delicatezza e della meravigliosa, per quanto
malinconica, carezza che Antony offre all’anima di chi l’ascolta. |
titolo The Crying Light
di Anthony and the
Johnsons
etichetta Secretly
Canadian (Rough Trade)
distributore Self
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The ILL-Tempered Piano
di Nicola Cipani Ventiquattro improvvisazioni
per pianoforti rotti o scordati trovati a New York, precisa il
sottotitolo di questa che, oltre ad essere esplicitamente un
contraltare del clavicembalo bachiano, potremmo definire quasi una
musica immaginaria, ideale per mondi borgesiani come Tlön, dove
alla base dell’aritmetica c’è la nozione di numero
indefinito, o per qualche città invisibile calviniana, forse
Zemrude, dove l’umore di chi la guarda ne cambia la forma. Musica
di altri mondi, dove il piano suona come uno xilofono, un cymbalom, un
sitar, una chitarra a sua volta scordata alla Derek Bailey, o un
qualche marchingegno elettronico analogico. Sembra tanti altri
strumenti tranne che un piano, anche se a tratti si potrebbe pensare ad
uno strumento preparato alla Cage, così come a Fluxus sembra
ispirarsi nello spirito questa performance. I suoni sprofondano dentro
se stessi, oppure trovano istantanei, spericolati equilibri armonici,
emanano insoliti riverberi, insomma fanno quel che possono, essendo
rottami o quasi. Molto riesce invece a fare Cipiani, inventando una
serie di soluzioni (pseudo) ritmico-melodiche che hanno del prodigioso,
considerati gli strumenti scalcagnati che adopera, aggirando una
moltitudine di trappole e facendo virtù del difetto. Lui,
Cipani, è nato a Losanna nel 1965. Cresciuto a Milano, ha
studiato filologia classica a Berlino e si è trasferito negli
Stati Uniti nel 1998. Vive a Brooklyn e insegna alla New York
University. Suona il pianoforte da più di trent’anni e non
risulta essere membro della singolare World Association for Ruined
Piano Studies. Questa è la sua prima uscita discografica,
un’affascinante passeggiata nello strano. |
titolo The ILL-Tempered Piano
di Nicola Cipani
etichetta Long Song
Records
distributore Audioglobe
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Vacilando Territory Blues
di Joshua Tillman Già batterista dei
Fleet Foxes, da poco usciti con l’omonimo, celebrato, album,
Joshua Tillman ha da dire anche col suo progetto solista. Sicuramente
più personale di quanto prestato ai Fleet Foxes (anche loro,
come Tillman, in forza all’etichetta britannica Bella Union),
questo Vacilando Territory Blues mostra la faccia triste del
musicista di Seattle. Blues, un blues sussurrato, accompagnato quasi
solo dalle chitarre e dal senso sfumato di un bivio su una statale
americana, che guarda alle case di legno con i porticati e con le sedie
a dondolo. Ecco Tillman: seduto a terra la schiena appoggiata ad un
covone di fieno, la chitarra sulle ginocchia, un cappello sceso ad
oscurare lo sguardo ed un filo di grano tra le labbra (si ascoltino, in
proposito, i sette e passa minuti di Barter Blues), chi vuole
può aggiungere anche una bottiglia di birra al quadro, forse non
guasterebbe. È così Tillman, non si mette mai in piedi,
solo in Firstborn accenna leggermente al sound più congeniale ai Fleet Foxes, ma la linea di Vacilando
resta bassa, come la sua voce che canta all’orecchio, quasi a non
voler interferire con il paesaggio e l’atmosfera. Forse per
questo sembra che Vacilando Territory Blues possa passare
inosservato, come un disco che non aggiunge poi tanto al suo scenario.
Oppure si potrebbe dire che è proprio da quello scenario che Vacilando
prende la sua vena sommessa e silenziosa, e allora si incontra la
tranquillità di un blues che magari non eccelle, ma che certo sa
far compagnia. E questo, si sappia, già basta. |
titolo Vacilando Territory Blues
di Joshua Tillman
etichetta Bella Union
distributore Self
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