L’uomo
sociale è inserito in un sistema di
aspettative, le sue azioni portano a conseguenze, per se stesso e per
gli altri, che sono l’inferno, ma fanno anche da specchio
delle azioni
individuali e da mezzo per significarne
l’identità: si dice “Io” solo
di fronte all’altro. La dichiarazione di identità
è un rapporto
speculare, che porta a definire differenze ed analogie, a confrontarsi
con il proprio doppio. Nell’opera il doppio di Ferdinand
è
probabilmente Robinson, il personaggio che vive le sue stesse
avventure, la guerra, l’Africa, Detroit, Rancy, è
sempre presente, come
un retaggio, una zavorra, un promemoria di ciò che Ferdinand
potrebbe
essere. Ma soprattutto rappresenta il tramite che lo accompagna ad una
consapevolezza, quella che chiude il libro e ne significa il titolo. È
notte, e Robinson è agonizzante, ferito da un colpo di
pistola.
Ferdinand, stringendogli le mani, lo vede come un povero disgraziato,
che per tutta la vita ha fatto il furbo, come, del resto, tutti gli
altri. Un uomo, quindi. Le sue parole non sono pietose, ne avrebbe di
più, dice, per un cane. Robinson è più
stupido di Ferdinand, meno
istruito, ma è riuscito a morire con una ragione, un motivo
valido. Se
la vita umana è un “luogo scomodo” senza
scopi, per morire bisogna
trovarne uno che non sia la semplice fuga. La morte è un
viaggio che
illumina gli ultimi istanti di vita, per goderne. Al
termine della
notte, pertanto, c´è il viaggio che Ferdinand non
farà, che il suo
doppio sbilenco è riuscito ad intraprendere, subendo la
morte come ha
subito la vita. Quella notte muore una parte di
Ferdinand. Di lui
resta il suo involucro, “la carcassa”, che su un
molo osserva una
chiatta allontanarsi lungo il corpo del fiume, verso un luogo che il
protagonista non vivrà, perché è
giunta la fine dei viaggi. La fine
dei viaggi coincide plausibilmente con la fine delle paure, con il
sopraggiungere dell’apatia. È così
delineata la concezione céliniana
del viaggiare, che è infatti il semplice atto, la
volontà unica del
cambiamento di luogo, come un’esaltazione del tragitto, che
non prevede
un altro fine ad esso collegato. Per cui si avvicinerebbe ad una certa
tradizione, anche picaresca, del romanzo di formazione e di avventura.
Si aggiunge però la condizione
dell’umanità e la concezione immonda e
melmosa – più che massificata – che ne
ha Céline, che vanificano il
risultato ultimo del viaggio e del ritorno, che è quello di
trovare il
nuovo. Il testo perciò è lontano dalle
occidentali virtù di
principio e risultato, lontano dall’esaltazione del
calcolabile di
matrice weberiana, motore del rinnovamento portato dall’etica
cattolico-protestante. Rientra, come unica forma di certezza, quella
del semplice assurdo umano, immondo e terreno. Un
immondo che si
cela spesso dietro la stessa organizzazione sociale, assicurando un
livello di violenza tollerato e sostenibile, operato al livello della
vita privata o professionale, che non accetta intrusioni.
Céline riduce
ai minimi termini i fattori di calcolabilità delle azioni
umane, che,
in quanto istintuali, sono aperte e non prevedibili, senza
però aprire
possibilità ad un facile esistenzialismo da liceale. Il
mondo descritto
dall’autore si articola attorno ad eventi storici e sociali
essenzialmente violenti, tra i quali la I Guerra mondiale rappresenta
un culmine per l’immensa portata di morte e lacerazione che
lascerà. In
termini complessivi, quello di Céline è un mondo
che deve parte del suo
sviluppo e del suo funzionamento allo sfruttamento del lavoro nelle
fabbriche e alle violenze del colonialismo, viaggi di conquista e di
modernizzazione spesso imposta in modalità tiranniche. Una
serie di
crudeltà che sarebbero difficili da concepire per un uomo
che fa
dell’immobilità il suo stato tipico, che fugge i
viaggi, capaci di
narrargli una versione delle verità della Storia. Verità,
quella che si cela dietro ai viaggi, che è rivelazione, come
scrisse Claude Levi-Strauss nei Tristi Tropici,
della “nostra sozzura gettata sul mondo3.
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