A Seifert la
prima soluzione deve essere sembrata la più congeniale e
forse, non essendo egli affatto estraneo all’improvvisazione
libera, non è escluso che possano aver avuto peso nella sua
scelta la considerazione della fissità estatica che la
modalità armonica reca nella propria ostinata
staticità e il rapporto stretto con il mistico, arcaico
afflato del canto gregoriano, fondato anch’esso su modi in
quanto pre-tonale. Al violino Seifert traspone la
densità ritmico-melodica di Coltrane, e la sviluppa su un
sistema di pentatoniche naturali formulate in modo vertiginosamente
mutevole, con continui slittamenti cromatici. Soltanto una tecnica
eccezionale può permettere di sostenere al violino svariati
minuti di quartine perpetue senza inceppamenti, scadimenti in un
diatonismo fuori stile, in una ricerca dell’effetto facile:
“Evito di suonare il violino in un modo usuale, con tutti i
tipici effetti”. “Il suo violino si evidenzia con
assoli jazzisticamente rigorosi” afferma Angelo Leonardi nel
suo meritorio Il Violino Venuto dall’Est
(Musica jazz - anno 47° n. 2 – febbraio 1991).
È proprio il rigore della sua ricerca che lo porta allo
sviluppo di una solidità tale nella formulazione di
improvvisazioni continuamente attraversate da escursioni cromatiche
difficili da realizzare sul violino, sia perché il
meccanismo della mano sinistra di questo strumento prevede la
corrispondenza di un dito per grado della scala diatonica, in evidente
conflitto con lo sviluppo di una tecnica cromatica, sia per gli
oggettivi problemi di intonazione (senza riferimenti fisici
l’intonazione è affidata solo
all’orecchio, un po’ come per un cantante; a quanti
cantanti si può chiedere di improvvisare in stile fortemente
cromatico?).
Per quanto riguarda l’arco Seifert ha concepito una
risposta semplice alle pressanti istanze che il saxofonismo coltraniano
poneva: i passaggi in quartine sono eseguiti pressoché
totalmente in detaché, cioè
utilizzando un’arcata per ogni nota (colpo d’arco
sciolto). Una semplificazione che gli ha permesso di sviluppare in
tempi brevi una invidiabile capacità improvvisativa. Man
of the Light trova forse il suo climax nella concitata Turbulent
Plover, pregna di un’urgenza espressiva che non
dà respiro e che pervade tutta la traccia, dalla tesa
esposizione al formidabile solo di Kuhn; dalla forza arcana e tribale
iniettata costantemente da Hart e McBee all’intenso solo di
Seifert che, incontenibile, sfocia nella riesposizione sporcandola di
una sublime ansia di trasgressione del limite temporale. Camminò,
e ancora cammina, nelle sue svariate notti: la notte
della invisibilità, durata a lungo, rispetto al pubblico
occidentale; la notte del suo tragico destino; la notte
dell’oblio e dell’indifferenza di chi avrebbe
potuto ricordarlo e non lo ha fatto. Camminò, e camminerà,
tenendo la mano di lei, immaginata. L’immaginata
luce della sua musica.
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