Decide
di avvicinarsi a quella musica e lo fa imbracciando il sax contralto,
incominciando così a indagare la produzione del suono
attraverso questo strumento in ambito jazz: un punto di vista
privilegiato rispetto a quello che si sarebbe trovato ad avere se
avesse approcciato questa musica col violino. Questo perché
i modelli violinistici del jazz di quegli anni erano pre-bop (invece
Seifert svilupperà concezioni moderne, post-coltraniane), ma
anche perché la comprensione dall’interno della
tecnica saxofonistica finisce per insinuare nella sua mente un benefico
tarlo che lo spingerà a cercare un modo diverso di suonare
il violino, non la semplice assimilazione di materiali jazz attraverso
una tecnica violinistica tradizionale ma una ricerca in direzione della
trasfigurazione del proprio strumento per far fronte a tutte quelle
esigenze di suono, dinamica, accentazione, articolazione, espressione
che il linguaggio del jazz moderno richiedeva: “Naturalmente
potrei suonare il Concerto di Tchaikowsky senza
alcun problema tecnico.
Ci fu invece più di un problema a
trasportare l’esperienza jazz, l’articolazione jazz
e l’improvvisazione sul violino”. Su queste basi
furono prolifiche le esperienze musicali che nel tempo Seifert ebbe,
con collaborazioni da Tomasz Stanko a Charlie Mariano, fino ai
musicisti che faranno parte di Man of the Light,
Joachim Kuhn, Jasper Van’t Hof, Cecil McBee e Billy Hart, per
citare le più significative. Successivamente al settembre
1976, epoca della registrazione di questo lavoro, Seifert ebbe modo di
suonare tra gli altri con Albert Mangelsdorff, John Lewis, Richard
Davis, Kenny Barron, Buster William, Jack Dejohnette, Eddie Gomez, John
Scofield, mentre il gruppo Oregon lo
vorrà ospite nel disco intitolato Violin. Tra
le sei tracce di Man of the Light si distinguono
due duetti (uno con Van’t Hof e l’altro con McBee)
e quattro brani di ispirazione coltraniana eseguiti in quartetto con
Kuhn, McBee e Hart. Se Kuhn, da un lato, fornisce con ineguagliabile
intensità un sapore tyneriano al disco (Mc Coy Tyner
è il dedicatario del titolo dell’album), sia nelle
armonizzazioni per quarte, sia nei soli ricchi di pentatonismi,
cromatismi e, ancora, sviluppi melodici su basi di intervalli di
quarta, la ritmica offre una propulsione potente e dinamica, con forti
implicazioni poliritmiche. Tutto questo insieme appronta una cornice
entro la quale Seifert deve essersi sentito proprio a casa sua,
tant’è che riferirà in seguito dei
problemi incontrati nel reperire musicisti alternativi ai titolari del
disco, in grado di rendere con tanta forza quel tipo di repertorio dal
vivo (repertorio indubbiamente difficile perché fondato su
un clima espressivo inquieto e concitato, tale da rendere necessaria
una forte partecipazione emotiva dell’esecutore).
In
tale contesto l’amore per le poderose folate di quartine del
Coltrane modale affiora prepotentemente nei soli di Seifert che
appaiono vicini al modello sognato e accarezzato. Nessun violinista si
era mai avvicinato così tanto a quello stile fervido e
trascendentale. Alla base di questo successo vi è intanto la
scelta di preparare per questo lavoro composizioni modali. Appare
piuttosto chiaro nella parabola creativa di Coltrane come
l’armonia di derivazione tonale risulti presto angusta per
dare corso alla poetica intrisa di spiritualità e di
bruciante intensità del periodo più maturo. Le
strade percorse dal Saxofonista sono due: l’armonia modale e,
successivamente, la totale libertà armonica.
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