L'uomo
nel labirinto
di Robert
Silverberg
Giocare con il mito greco per reinventarlo in un contesto fantascientifico è un’attività che ha affascinato più di un autore. Il più noto al pubblico è sicuramente Dan Simmons con il suo Ilium, ma va ricordato anche Roger Zelazny con Io, Nomikos, l’immortale, Frank Herbert che nella sua saga di Dune si serve del dramma greco della casa degli Atreidi, oltre che un paio di memorabili puntate della serie di Star Trek. Molto meno noto al grande pubblico è questo romanzo di Robert Silverberg, autore che pure con la sua prolificità ha da sempre fatto parte degli scaffali di fantascienza di ogni libreria. L’editore Fazi ha ripubblicato L’uomo nel labirinto a quarant’anni dalla sua uscita nel 1968, dopo alcune eccellenti riedizioni di altri romanzi dell’autore. La nuova edizione si fregia della traduzione opera di Riccardo Valla e di un’acuta introduzione di Neil Gaiman. La trama è l’esplicita trasposizione del mito – ripreso dall’omonima tragedia di Sofocle – di Filottete, eroe greco che per caso viene affetto da una ferita inguaribile dalla quale emana una terribile puzza. Il fetore è tale che i suoi compagni lo esiliano sull’isola di Lemno, fin quando dieci anni dopo nel corso della guerra di Troia una spedizione è inviata a recuperarlo in quanto una profezia sostiene che Troia non cadrà finché l’eroe esiliato non tornerà a combattere. Potrebbe quindi sembrare un banale esercizio di fantasia (nemmeno tanta fantasia, a dirla tutta) quello di Silverberg, che trasforma l’isola di Lemno nel pianeta Lemnos, dove una grandiosa città labirinto piena di insidie mortali è tutto ciò che resta di un’antica civiltà estinta, e che trasforma Filottete nell’eroico e arrogante Dick Muller, affetto in questo caso da una ferita dell’anima che lo rende inavvicinabile agli uomini. | di Robert Silverberg
titolo L’uomo nel labirinto
editore Fazi,
Roma, 2008
pagine 282
prezzo € 16,00
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Analogamente, una missione guidata da colui che gli suggerì l’esilio – lo scaltro diplomatico Charles Boardman – viene inviata su Lemnos perché solo Muller potrà porre fine alla guerra che si profila disastrosa per l’umanità contro una razza superiore proveniente da un’altra galassia. Ma viceversa Silverberg attualizza il mito con quell’unica trovata che si discosta dall’originale: la ferita interiore. Muller non puzza fisicamente, ma è stato trasformato durante la sua visita a una razza aliena incapace di comunicare con lui: modificando il proprio sistema neurale, gli alieni hanno fatto sì che dall’anima di Muller promani un’incessante cascata di sentimenti provenienti dal suo inconscio e che questi sentimenti siano pienamente percepibili da chiunque lo avvicini. Tuttavia, l’inconscio di Muller si rivela drammaticamente negativo come forse tutti gli inconsci umani, un insieme devastante di frustrazioni, delusioni, odi, rancori e rimpianti che la coscienza umana di chi gli sta attorno non riesce a sopportare. Perciò, Muller sceglie l’autoesilio. Silverberg realizza con L’uomo nel labirinto un romanzo godibile su più livelli. Quello dell’avventuroso tentativo di Boardman e del suo giovane collega per superare le insidie del labirinto omicida e giungere dall’eremita Muller; quello della space-opera ad ampio respiro che descrive antiche civiltà estinte e potenti razze pronte all’espansione; e infine e soprattutto quello della riflessione filosofica. Il dramma dell’incomunicabilità viene qui esplicitato al suo massimo grado, un pessimismo cosmico di leopardiana memoria è ciò che resta al termine della storia e la grande eredità del mito greco è quello hybris di cui Muller afferma a ragione di essere stato vittima: la tracotanza, la convinzione di poter diventare un dio, che la fama sulla terra porta negli uomini di valore e che il fato del cielo distrugge al momento opportuno, ricordandoci che siamo tutti eremiti all’interno di un labirinto impenetrabile al resto del mondo. |
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Roberto Paura |
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