La lotteria della vita tra Tolstoj e i linker people di Daniela Fabro | ||
Metafora della
modernità,
l’opera di Tolstoj è anche il racconto di una
degenerazione morale. Non
per nulla i suoi personaggi sono quasi sempre sotto lo scacco di un
dramma sociale e personale. Però l’individuo
è capace di non perdere
fino in fondo la sua identità, e in questo consiste il suo
successo. Ma nell’Ottocento le condizioni di vita, sia dell’alta società dei nobili, degli junker, gli ufficiali di carriera, e dei proprietari terrieri; sia dei contadini, dei soldati e perfino dei servi, non costringevano le persone all’isolamento e alla perdita di radici di cui siamo testimoni ai nostri giorni. Ogni tragedia avveniva sotto lo sguardo di una comunità che rendeva più sopportabile il disagio e meno definitiva la condanna. Inutile sperare nella politica o nella società, secondo Tolstoj, ma nel racconto e nel dialogo. Nella dimensione comunitaria in cui si forma l’esperienza di ciascuno. Non occorre essere cristiani come lo fu lo scrittore degli ultimi Racconti 3, quelli dalla fine degli anni Ottanta fino alla morte, avvenuta nel 1910, che descrisse il suo sentire in parabole, fiabe e leggende tutte ispirate alla religione, per comprendere la virtù dell’uomo che si rende protagonista della propria vita attraverso la solidarietà. Anche per l’etica laica di un filosofo anticonformista come Bertrand Russel “la vita retta è quella ispirata all’amore e guidata dalla conoscenza”. Ma oggi, nell’incalzare di un quotidiano tutto psicodrammi e competizione, per un perdente, precario che sia, solo sul lavoro o nella sua esistenza complessiva, si prospettano ben poche vie d’uscita. Emozioni e ragione, da sempre regolatrici delle azioni individuali e delle interazioni sociali, sono spazzate via dalle leggi di utile, fretta, violenza e terrore. A esse si sostituiscono isolamento, disperazione individuale e depressione, frutti di quella paura che “mangia l’anima”, trasformando i reietti della società in aguzzini di vittime ormai così tanto deboli da non avere più nemmeno la forza di rivolgersi alla giustizia. (In)azioni di perseguitati e persecutori sono le due facce di una stessa medaglia: la perdita di significato di un’istanza ultima – l’anima, appunto, come vogliono i credenti, o spirito della natura e armonia dell’Universo, come ipotizzano i laici – capace di lenire l’ ansia dei limiti personali, primo fra tutti la morte. | ||
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