Nomadismi e altre peregrinazioni di Maria D'Ambrosio | ||
La
città, verso cui si converge tutti, esprime ed esibisce la
sua
“stanzialità”, la sua fiera idea di
convergenza, di accumulazione, di
estensione. È un’architettura fatta di torri, alte
come montagne, ma
che non lascia allo sguardo la possibilità di immaginare
altro. Sembra
già tutto scritto così che l’unico
gesto che pare poter essere accolto
è il sottrarsi, la fuga. Così come molti personaggi di Cormac Mc Carthy si allontanano dalle certezze domestiche e familiari per affrontare una strada che non è quella di casa, dove il pericolo è accolto come compagno e la distanza da coprire è metafora di un vuoto da colmare, del proprio divenire, tragico, che si prova ad afferrare e a sentire grazie alle tracce lasciate lungo il percorso. Dalla sociologia dell’erranza alla pedagogia della strada il passo è breve. Il viaggio, la strada, il movimento, sono “luoghi” che ritornano nell’immaginario post-metropolitano e tornano a parlare di una condizione di cui c’è traccia, preponderante, nella storia dell’Umanità. Il confine (nazionale, geografico, politico, religioso, ..) torna a significare il limite da raggiungere e da superare, a costo di essere fuorilegge, di perdersi, di rompere con il già noto. In particolare, sembra che il genere western (e qui scorrono titoli e colonne sonore che la buona o cattiva televisione ha contribuito a rendere parte di un immaginario cittadino e poi metropolitano) – quindi anche quello di Mc Carthy - abbia ereditato la tradizione picaresca e l’abbia mescolata ai miti fondativi americani che fanno della “conquista del (far) west” un tema attorno al quale si rinnova il pathos del lettore-spettatore. Il cowboy, traduzione della figura archetipica del cavaliere errante, è icona di un nomadismo vissuto come forma di resistenza alla progressiva urbanizzazione e ai valori che questa impone e afferma come vincenti. Le storie western dunque possono essere intese come “presidio” della cultura nomade nella quale gli eroi “giocano” alla fuga e il duello fa da “luogo comune” per raccontare di vite vissute e sfide continue in cui la strada è maestra, e il cavallo (“Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo19”), un compagno fedele. È con questa sensibilità nomade – sensibilità che assume il nomadismo come “metafora performativa10” e mescola epoche e storie in un tourbillon di estetiche e linguaggi - che si può ritornare agli spazi urbani e metropolitani per cogliere le “diversità in movimento” e dunque aprire spazi dove, oltre che praticare l’insediamento o lo spostamento fisico, sia possibile realizzare una trasformazione continua, un divenire creativo che implica il ribaltamento delle convenzioni. Il ritorno al genere epico suona dunque come ritorno alla natura nomade e transitoria del soggetto (e pure dei luoghi che abita), ed è questa transitorietà che fa del soggetto nomade un’entità trasgressiva, capace di valicare le barriere delle convenzioni e di operare interconnessioni inedite. È categoria vitale del contemporaneo. Di cui cioè ha bisogno ogni contemporaneità per rintracciare le mappe spesso invisibili che danno forma ai corpi mutanti, alle identità in movimento, alle logiche meticcie di cui ogni epoca e ogni cultura si fa interprete. | ||
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